REBORN
- Al tempo degli Dei
dell'Olimpo -
Gabrielle era in una
landa desolata, bianca, sterminata. Alberi neri come l’inchiostro dei rotoli
sbiaditi sorgevano alti e spogli di foglie e linfa, e la osservavano correre,
in quel freddo gelato. Le pelli che ricoprivano il suo corpo, strette da lacci
e corde in un miscuglio di colori terra e neri, sbattevano e raccoglievano
freddo. Gli stivali affondavano, e lei si sentiva una penna intrisa di vita, di
bianco e ghiaccio. Un cappuccio nascondeva il suo volto, e il respiro si
raggruppava in una nuvoletta dopo aver oltrepassato una lana pesante sul viso. Faceva
freddo, in quelle montagne sperdute del continente. La lancia, arma già intrisa
di sangue, era stretta in mano, e lei cercava di raggiungere il fiume poco più
avanti, quando un ululato spezzò il suo respiro.
I lupi. Stavano arrivando.
Ed erano troppi. Dannatamente
troppi.
Fu circondata, i lupi,
magri nella loro pelle scarna, e giovani. Affamati. E la guardavano come un
buon pasto.
Urlò, per cercare di
mettergli paura, ma era troppo tardi. Un lupo le azzannò una gamba a
tradimento, e fu trafitto dalla punta della lancia. Morto per aver osato
troppo.
La donna lanciò qualcosa
nell’aria, e un suono sibilante si propagò nella radura gelata, due lupi furono sgozzati,
mentre gli altri si avventavano su di lei, ingordi. Li sbaragliò, urlando,
squartando, ferendo, arrivando a mordere, mentre lasciava la lancia spezzata e
usava i suoi pugnali.
Quando il cerchio rotante
uccise l’ultimo lupo la ragazza era ansimante a terra, ferita e dolorante. Il sangue,
bagnava di rosso la neve candida. Gabrielle non riusciva a tirarsi su, i
muscoli stavano cedendo.
“Morirò qui?” pensò, distesa a terra, guardando il cielo
bianco, ricoperto di nubi.
E sorrise, pensando alla
morte. Una mano si protese verso il cielo. Era ricoperta di geloni, e magra. Un
volto trasparente di donna si disegnò nelle nuvole.
“Xena...sto arrivando...”.
«Ehi, sei
viva?!» una voce, lontana, maschile, la
richiamò sulla terra. Un uomo, sulla mezza età, la svegliò, scostandole la
sciarpa e togliendole il cappuccio. Rimase abbagliato.
«Ma tu sei...» una chioma bionda si sciolse dolcemente, e un
volto ormai non più giovane, con degli occhi verdi opachi contornati da lievi
rughe.
Gli occhi di quell’uomo, in quel momento, la uccisero. Erano
bruni. Bruni come le lande desolate delle foreste dopo una tempesta. E ricordò
i suoi occhi, prima di svenire.
- giorni nostri -
Quando Gabrielle si risvegliò era stata distesa su una
brandina in un corridoio bianco.
«Ma cosa...?» si guardò le mani, come scoprendole nuove,
si stropicciò gli occhi, e si domandò cosa fosse successo. Poi l’onda di
ricordi la dominò.
Ricordò la morte della nonna - nodo nella gola e lacrime
sugli occhi - e che aveva pianto nelle braccia di Xena...no, della sua datrice
di lavoro che di sicuro non era Xena.
“Questa donna, nella mia testa, è come un tutto e niente.
Significa tanto per me? Non lo so...” pensava, stringendosi la collana al
collo. Graffiava.
Si sentiva smarrita, in tanti ricordi e in tante vite,
lei chi era? Cos’era, se non un grammo di polvere nel deserto? Si sentiva
persa, non sapeva cosa fare, cosa capire, cosa imparare da questa collana e da
questo peso.
Aveva solo capito una cosa. Quelle parche avevano previsto
il suo ritorno.
Ma lei ora chi era? La Gabrielle che è sempre stata,
quella cintura nera di karate e fanatica di storia o quella Gabrielle, la barda combattente, la sua ava greca?
“Non so più chi sono io...”.
- Al tempo degli Dei
dell'Olimpo -
«Tu sei Xena?» domandò l’uomo, seduto vicino al suo
giaciglio. Aveva capelli neri, ma alcuni ciuffi erano già bianchi. Il volto era
scuro, di chi lavora nei campi d’estate e fa il tagliaboschi d’inverno. Gli
ricordava un amico di Xena. La donna sospirò, ricordando il suo volto.
«No, non sono Xena... sono la sua compagna, Gabrielle...»
rispose, con voce mesta.
«Il bardo combattente!» tuonò l’uomo, sorridendole con felicità.
Le pieghe del volto si potevano notare nel suo viso, proprio come nel suo.
«Sì, o almeno, lo ero...ma ormai sono invecchiata, non
sono più forte come una volta...» mormorò, stringendosi la spalla lussata. I suoi
capelli, una volta corti e lucenti, ora erano spenti e lunghi, intrecciati e
stretti al capo. Il suo volto non era più giovane e sorridente, la pelle cedeva
al tempo e le prime rughe calcavano già i contorni dei suoi occhi, dandole
quello sguardo saggio da anziana e non più da giovane bella e maliziosa.
“E ora...cosa sono?”.
«Ma comunque sei una poetessa, no?» domandò l’uomo, e la
guardò estasiato. La donna rimase sorpresa.
«Sì...» rispose confusa. I suoi occhi brillavano
stranamente, come se si fosse avverato un suo antico desiderio.
«Allora, ti prego, leggimi una poesia...» chiese gentile.
E la donna sorrise. Era da tanto tempo che non leggeva...
“Già...dopotutto, io rimango sempre io...”.
- giorni nostri -
La mano si strinse a pugno. Il ricordo le era entrato in
mente come una folata di vento, inaspettato e atteso. Le aveva infuso forza.
“Per quanto vite io possa avere in me stessa, io rimango
sempre e solo io...” gli occhi brillavano.
«Figlia
mia, non dimenticare mai, tu sei te stessa.»
“Nonna...” la voce della nonna, nella mente, come
sottoforma di quel ricordo sbiadito, la rituffò nella terra.
“Io sarò
sempre qui, sempre vicino a te, perché questa collana tiene me, mia madre, mia
nonna, e tutte le donne di questa stirpe di donne guerriere che impararono da
lei, la nostra ava, Gabrielle, che il proprio destino lo decidiamo noi.”.
Poi, una voce diversa le entrò nella mente, parlando una
lingua diversa che però comprendeva.
“Le nostre
ave ci insegnarono che possiamo amare chi vogliamo, non per forza il marito che
decidono gli altri per noi.”.
E tante altre voci, sempre femminili, con lingue sempre
diverse e accenti differenti, nella sua testa si concatenarono.
“They have taught me that I can
work, not just my husband.”.
“...che puoi
lottare per i tuoi diritti, perché tu non sei diversa da tuo figlio, solo
perché lui e maschio e tu femmina.”.
“Gabrielle
mi ha insegnato che l’amore ha tante vie, e che un bambino, anche se nato dalla
violenza, può essere amato come tale, e che non ha colpa nessuna.”.
“Mia ava ha
insegnato me che cultura importante.”.
“... la vie est
importante.”.
“…che la Guerra è brutta, e la pace bella.”.
“Gabrielle
mi ha fatto capire la magia delle parole scritte su carta.”.
“...e Xena
mi ha insegnato che combattere per una giusta causa fa bene al cuore e all’anima.”.
“Gabrielle
mi ha fatto capire che due madri sono meglio di nessuna.”.
“Mi ha
insegnato ha rispettare me stessa e gli altri.”.
“Mi hanno
fatto capire che io sono io, e non devo essere come gli altri.”.
“...che la
mia vita è mia e solo mia, e di nessun altro. Che posso decidere per me.”.
“Siamo noi
a decidere del nostro destino, non gli dei.”.
E Gabrielle si sentì meno sola, con tutte queste persone
che credono in se stesse e in lei, per quanto siano morte da tanto tempo.
Sorrise, e poi un ricordo, la fulminò.
«Lei chi è?»
domandò il padre, dopo aver depositato la figlia sulla brandina per farla
riposare. Gabrielle piangeva disperata, ma l’infermiera che l’aveva soccorsa le
aveva dato un calmante che - a sua conferma - l’avrebbe calmata e fatta dormire
per un paio d’ore.
«Io sono il
capo di sua figlia.» rispose la donna, turbata. Ricordò ancora come la bionda,
disperata e in lacrime, avesse sussurrato quella parola.
“Xena...”.
«Come si
chiama?» domandò il padre, specificando la domanda, nervoso per la sfrontatezza
della donna.
«Amelia.»
rispose la donna.
Gabrielle ricordò quell’ultima parola, prima di
sprofondare nel sonno.
Ora si sentiva meglio.
E si vergognò da morire.
Xena era morta tanto tempo fa, e con lei anche Gabrielle.
Eppure quella donna, nel suo profumo, nel suo incedere,
nel suo parlare, nel suo essere lei,
le ricordava in tutto e per tutto quella Xena che era vissuta tanto tempo fa.
Si morse il labbro dalla vergogna che provava, per aver
chiamato il capo per un nome che non era suo.
Ma era proprio Xena, nell’aspetto e nel carattere, ci
avrebbe scommesso tutto. E lei era Gabrielle.
“Alla fine quello che avevano predetto le parche si è
avverato.”.
I suoi occhi traboccavano di fuoco, quando iniziò a
camminare per il corridoio, alla ricerca del padre.
Quell’anello, quel monile che doveva restaurare lo aveva
già visto, nella sua vita precedente. E quel monile aveva tutte le risposte.
Doveva finire quel lavoro, subito.
Ma il difficile non era quello. Anzi, era la parte più
facile.
Quella più difficile sarebbe stata raccontare tutto ad
Amelia.