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Autore: SunriseNina    22/05/2013    0 recensioni
Terzo non vuole alzarsi dal suo maledetto letto: arrivato al suo trentacinquesimo compleanno senza un lavoro, senza una famiglia e senza amici, escludendo Dodicesimo, ha ormai realizzato di non avere niente e di essere solo al mondo.
O almeno, così crede.
~
"Volevo che tu capissi questo, ma hai sempre continuato a rifiutare il mio affetto. Pensavo di sbagliare tutto nel modo in cui cercavo di spiegartelo. I nostri mondi sono diversissimi, Takao. Forse non te ne rendi conto. Tu mi vedi, io posso solo vagamente percepire la tua presenza e per lo più immaginarti. I miei occhi sono le mie mani, la mia pelle, la mia bocca. Io… volevo vederti con questi miei occhi. "
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Takao Hiyama, Yomotsu Hirasaka
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Takao si rigirò su un fianco, mugolando: nonostante i due mesi ormai trascorsi in quella casa, ancora non si era abituato a quello scomodo giaciglio.
«Rivoglio il mio materasso…» mormorò con velata disperazione: la sua lamentela si perse nel buio della stanza vuota.
Si arrese all’idea di un'altra notte insonne e accese la luce: nella spoglia camera da letto vi erano solo uno stretto armadio, una cesta di vimini per i vestiti sporchi e quei due futon gettati sul pavimento, coperti di piumoni e cuscini, come pronti ad un pernotto frettoloso e non più lungo di una notte.
Si sedette in terra: di solito in quelle occasioni Yomotsu lo sentiva alzarsi e rimaneva sveglio per fargli compagnia. Nonostante Takao gli intimasse sempre di lasciarlo in pace a leggere l’altro gli preparava da mangiare, oppure si metteva a raccontargli ridicole storie dell’orrore. Ogni tanto giocavano a qualche gioco in scatola, i pochi che la cecità di Dodicesimo concedeva loro.
Ma quella sera, come diceva lui, “doveva lavorare”.
Lo faceva due o tre notti a settimana: al posto del pigiama indossava la tutina e andava a fare la sua ridicola apparizione come protettore della giustizia. Saltava tra i grattacieli agile come un felino, scivolando nella notte dove il buio rende tutti ciechi e dove l’uomo torna per alcune ore alla sua natura istintiva e impavida.
Quella sera Takao era solo, e non voleva nemmeno la compagnia di un libro.
La sua mente era un mare di pensieri, ma il suo corpo era come immobilizzato, incurante della tempesta che avveniva nell’animo dell’uomo.
Osservò il semplice orologio appeso alla parete scandire le due e un quarto del suo compleanno.
 

«Takaaao!»
L’uomo si stropicciò gli occhi: quella voce era la peggior sveglia che potesse ricevere.
«Dio, che ore sono…?»
«Le otto e mezza! Ho fatto la colazione.»
«Tu sei pazzo, mi sono addormentato cinque ore fa. Lasciami dormire.»
«Non ti va di venire in cucina a parlare della mia notte di azione?» chiese allegramente Yomotsu.
«No, per niente. Ho sonno.»
«Va tutto bene, Takao?»
Lui sbuffò, nascondendosi interamente nelle coperte. Non aveva la forza di affrontare le attenzioni maniacali e materne del coinquilino –o meglio, del padrone di casa-.
«Non è giornata, Yomotsu.» si limitò a dire, lasciando intendere un deciso “lasciami in pace”. Avvertimento che, ovviamente, il supereroe mascherato ignorò.
«Come mai, Takao?»
Si passò la mano tra i folti capelli rossi, continuando imperterrito a rimanere sotto le coperte. Come mai? Perché era il suo trentacinquesimo compleanno e lui era un fallito. Non aveva un lavoro, non aveva una famiglia, non aveva un futuro, ma solo un passato da detenuto che incombeva su tutte le sue azioni presenti. Viveva tutto il giorno senza fare praticamente nulla, nessuno lo voleva assumere, nemmeno a fare lo spazzino. Non possedeva praticamente più nulla, ed era obbligato a vivere con l’unico essere vivente che gli avesse concesso un alloggio ad un prezzo così basso.
«Non sono affari tuoi.»
«Dai, vieni di là.» Yomotsu si era sdraiato accanto a lui, sul proprio futon, punzecchiandogli le braccia nascoste sotto la coperta.
«Piantala. No, voglio dormire.»
Si irrigidì, come ogni volta che una situazione del genere capitava: Yomotsu non aveva alcuna idea di cosa fosse lo spazio vitale, e tendeva ad invadere di continuo quello di Takao in modo irruento.
«Sai che mi da fastidio. Smettila.» aveva scoperto il viso per inveire contro l’altro faccia a faccia, ma quel che vide gli fece stringere la gola: il volto di Yomotsu era stanco, solcato da profonde occhiaie, ma comunque attraversato da un sorriso pacifico. I suoi occhi -occhi vitrei, occhi morti- guardavano un punto indefinito oltre Takao, lasciando trasparire un’espressione di tenerezza.
Non riuscì a dirgli gli insulti che aveva rimuginato in quei secondi sotto le coperte, quindi si limitò a dargli una pacca contro il braccio. Tutto questo, come era prevedibile, non causò altro che un avvicinamento di Yomotsu in seguito al colpo ricevuto.
«Mi dici cosa non va, Terzo? Per favore.»
Sentiva il suo respiro sul viso.
«Ti ho detto di no.»
«Sei cattivo…» ricominciava a muovere le sue dita scarne contro di lui, questa volta sul petto.
«Smettila. Immediatamente.»
Si sentì immensamente ridicolo: più intimava all’uomo di andarsene, meno si dava effettivamente da fare per allontanarlo; e di conseguenza Yomotsu era ormai completamente sdraiato sul futon di Takao, già di per sé stretto.
«Sei così teso, Takao…»
«Non mi sembrano cazzi tuoi.» disse lui, evidentemente irritato.
«Vorrei fare qualcosa per aiutarti.»
“Potresti smettere di toccarmi come un maniaco, ad esempio.” Pensò con imbarazzo crescente; eppure non riusciva ad arrabbiarsi, gli risultava davvero impossibile.
La sua pancia brontolò sommessamente: «…Hai detto che hai preparato la colazione?»
«Sì!» esclamò contento l’altro, balzando in piedi «Dai, vieni di là!» e non fece in tempo a finire di dirlo che già era sgattaiolato fuori dalla stanza.
Terzo sbuffò e lo seguì a passi lenti: l’eroe mascherato si era fermato prima della porta della cucina con un sorriso infantile sulla faccia:«Dai, veloce!»
«Mi stai nascondendo qualcosa?» tutta quella fretta lo insospettiva parecchio.
 Yomotsu rise sguaiatamente e spalancò la porta.
Takao rimase fermo sull’uscio, colpito da quel che si ritrovò davanti: sul tavolo troneggiava una torta di pasticceria.
Si avvicinò, sempre più stupito: era frutto della sua immaginazione? No, decisamente no.
Era abbastanza grande, coperta di cioccolato, e si intravedeva tra i due strati di pan di spagna della crema pasticciera; disposte in un cerchio vi erano sullo strato superiore delle fragole tagliate a metà.
«Buon compleanno!» esclamò Yomotsu tutto contento, sedendosi a tavola e facendo cenno all’altro di seguire il suo esempio; ma Takao ancora non riusciva a capacitarsi di quel che stava succedendo, e rimase in piedi, girando intorno al tavolo come squadrando un nemico.
«Ma… come facevi a sapere…»
«Faresti meglio a curare la tua carta d’identità.»
Continuò a far vagare lo sguardo tra la torta e l’uomo sorridente, inspiegabilmente titubante: era un pensiero così gentile che non gli sembrava vero. Poche volte qualcuno si era mostrato cortese con lui, tantomeno in quel periodo.
«Ma c’è un motivo particolare?»
Yomotsu si fece perplesso: «Il mio amico compie gli anni e voglio farlo felice, dato che è sempre triste. Solo questo. Che altro motivo ci dovrebbe essere?»
Takao sospirò, poi fece un sorriso accennato: la sincerità ingenua e naturale dell’altro non poteva che dissipare ogni dubbio.
Era una torta davvero deliziosa, e lui, che non toccava cibo da quasi una giornata –senza un vero e proprio motivo- rimase piacevolmente colpito dal suo gusto. Osservava Yomotsu abbuffarsi senza ritegno, e ridacchiava: « È stata una notte faticosa?»
«Oh, sì, tantissimo!» rispose, senza curarsi di avere la bocca piena di cibo «Avevo paura di non fare in tempo a passare a ritirare questo ben di Dio! Ma per te questo e altro.»
Quella frase fece bloccare Terzo per un istante: Dodicesimo aveva passato la notte a rincorrere presunti ladri e a saltare da un balcone all’altro, senza mai fermarsi per ore intere; e nonostante questo era riuscito comunque a ricordarsi di lui, del suo compleanno, e a fargli un regalo del genere. Si sentì in colpa per come era solito trattarlo, per la maleducazione che gli riversava addosso e che l’altro non faceva che ignorare, continuando ad adorarlo.
«Sei un buon amico, Yomotsu.»
Il sorriso dell’uomo si allargò ancora di più: «Sono contento che tu lo dica.»
Takao lanciò uno sguardo alle sue mani: le muoveva in modo frenetico tra il bordo della sedia e del tavolo, poi intrecciava le dita, si mordicchiava l’unghia del pollice. Aveva ormai imparato a comprendere quel genere di linguaggio del corpo ma, probabilmente per la prima volta da quando si conoscevano, decise di soddisfarlo: «Dai, vieni qui.»
«Eh? Cosa?» alzò il capo, disorientato.
Takao si alzò e allargò le braccia: «Un abbraccio. Giusto perché te lo meriti.»
Non fece in tempo a dirlo che l’altro gli era già saltato addosso, facendolo quasi cadere; barcollò un attimo soffocato dalla morsa dell’altro:«Woh, piano! Non devi uccidermi.» rise un po’, mentre l’altro rimase nel silenzio più totale.
Fece passare qualche secondo ma non accennava a mollar la presa, anzi: le sue braccia sembravano ancorarsi più saldamente al suo petto, e senza far cenno a volersi staccare. Takao sentiva il suo respiro sul collo e sulle spalle, su cui pressava il viso come per nasconderlo.
«…Yomotsu, tutto bene?» gli picchiettò la testa, costringendolo ad alzarla.
«Tutto bene?» ripeté, improvvisamente messo a disagio dalla distanza irrisoria che c’era tra i loro visi.
Dodicesimo non rispose.
 

Fu un attimo.
Lo realizzò solo pochi secondi dopo, quando tutto era già accaduto.
Lo avrebbe potuto prevedere? No, che domande, certo che no.
Insomma, chi si sarebbe aspettato che Yomotsu allungasse il viso verso il suo e lo baciasse?
 
 

 
Takao girò le chiavi nella toppa ed entrò in casa: non c’era nessuno, e in qualche modo se lo aspettava; non riuscì comunque a sentirsi sollevato, anzi.
Si diresse verso il frigorifero, deciso a bersi un paio di birre dopo quella passeggiata: aveva cercato di schiarirsi la mente camminando per il parco, ma si era fatto solo più inquieto.
La domanda che lo tormentava era quella, sempre quella: perché?
Ripensò alle labbra di Dodicesimo e si sentì pervadere da uno strano brivido.
Non si erano detti una parola, dopo che lo aveva spinto contro il tavolo: Yomotsu era rimasto immobile, mortificato, pietrificato dal suo stesso gesto; Takao aveva preso la giacca ed era uscito, senza avere il coraggio di guardarlo in faccia un secondo di più.
Non sapeva ben classificare il sentimento che gli riempiva il petto in quel momento: stranamente non era disgusto, né rabbia o qualcosa di simile, ma era comunque estremamente doloroso da portare tra le costole.
Lanciò uno sguardo nel punto in cui qualche ora prima aveva visto quella meravigliosa torta: si accorse che, appoggiato sul tavolo, c’era il registratore di Dodicesimo.
Era impossibile che lo avesse dimenticato, questo era poco ma sicuro: quell’oggetto era una specie di appendice del suo corpo, non vi era motivo umano per cui si sarebbe separato da esso, se non per qualche cataclisma apocalittico.
Lo rigirò tra le mani: era acceso, e per di più in modalità di riascolto, in pausa all’inizio di “track 1”. Tentennò, spaventato da quel che poteva significare tutto ciò: poi schiacciò il pulsante.
La voce di Yomotsu iniziò a gracchiare nelle sue orecchie, resa più fastidiosa dal registratore: «Ciao, Takao. Sono contento che tu sia tornato a casa! La torta è in frigo se la vuoi ancora.»
Un momento di silenzio.
«Bene. Ti devo delle spiegazioni, suppongo.»
Un sospiro, altro silenzio.
«Ho scritto un discorso per provare a spiegarmi, spero che non ti annoi.»
Tossicchiò.
«Vedi… quando ti ho offerto di vivere con me è stato perché… pensavo che tu avessi bisogno di qualcuno che stesse con te, e così via. Insomma, pensavo che tu avessi bisogno di me. Dopo un po’ mi sono accorto che era tutto il contrario: ero io ad avere bisogno di te.
Volevo che tu capissi questo, ma hai sempre continuato a rifiutare il mio affetto. Pensavo di sbagliare tutto nel modo in cui cercavo di spiegartelo. I nostri mondi sono diversissimi, forse non te ne rendi conto. Tu mi vedi, io posso solo vagamente percepire la tua presenza e per lo più immaginarti. I miei occhi sono le mie mani, la mia pelle, la mia bocca. Io… volevo vederti con questi miei occhi. Che idea stupida, no? Poi a quest’idea se ne è aggiunta una ancora più stupida. Mi sono detto: “ehi, forse non capisce il mio affetto perché anche lui ha bisogno di guardarmi con degli occhi simili ai miei.”» Si interruppe un attimo, giusto il tempo di eliminare quella nota sbagliata nel suo tono di voce tremendamente simile a un piagnucolio «Pensavo che, se i nostri corpi si fossero guardati, avresti capito tutto. Ovviamente mi sbagliavo.» Ormai la sua voce era definitivamente rotta dal pianto, per quanto cercasse di nasconderlo. «Scusa, sono stato uno sciocco a pensare di essere ricambiato da te. Non voglio privarti di casa mia, ma farò in modo di essere come un’ombra. Spero che tu non sia tanto arrabbiato con me, anche se ne hai il diritto.
Beh, sul foglietto non ho scritto più niente. Ciao. Scusami ancora, Terzo.»
Takao si ritrovò da solo con i suoi pensieri tormentati in quella casa decisamente troppo vuota, in cui tutto quello che sentiva era il suono amplificato del suo cuore.

 

Spense la sigaretta nel portacenere e aprì leggermente la finestra, per far arieggiare il salotto dall’aria viziata.
Si sedette e accese la televisione, come intenzionato a spezzare quel tremendo silenzio: l’apparecchio iniziò a trasmettere un poliziesco di vecchia data.
Si stravaccò comodamente su quella poltrona: tv, takoyaki a domicilio, sigarette. Non era forse una serata perfetta?
Osservò la poltrona accanto alla propria, quella vicino alla finestra, vicino al basso tavolino dove appoggiare le ciotole di popcorn quando trasmettevano dei musical.
No, non lo era.
«Stupido…» sussurrò, alzandosi.
«Idiota, esibizionista…» continuò a voce sempre più alta, afferrando il giubbotto.
«Maledetto e assurdo supereroe mascherato!»
Si chiuse la porta alle spalle.
 
 
Le macchine sfrecciavano sull’asfalto, in un mescolarsi psichedelico di fanali e clacson.
Dodicesimo ascoltava estasiato i rumori della città, lasciando penzolare i piedi nel vuoto: era seduto sul tetto di un edificio in stato di abbandono che era uno dei suoi punti d’appostamento preferiti, specie a quell’ora.
La  notte era fredda, ma poco o nulla gli importava: i brividi lo facevano sentire vivo.
Sentì dei passi dietro di lui raggiungerlo. Passi lenti, titubanti.
Non volle chiamaere quel nome, per il terrore di rimanere deluso; strinse i pugni, attendendo.
«Ciao.»
Yomotsu non si voltò, ma un tremito che lo percorse da caso a piedi fece capire a Takao che lo aveva riconosciuto: si sedette accanto a lui, evitando però quella pericolosa posizione di sporgere le gambe oltre il bordo, come invece faceva l’altro.
«Come mi hai trovato?» mormorò Dodicesimo.
«Ogni tanto quando parli ti ascolto.»
«Mh.»
Calò il silenzio. Takao si mordicchiò l’unghia del pollice, reso tentennante dal suo caratteristico orgoglio.
«Hai sentito il mio messaggio?»
«Sì. Volevo appunto parlarti di questo.» in disaccordo con le sue stesse parole, cadde di nuovo nel mutismo. Sospirò: no, doveva farlo. Glielo doveva.
«Yomotsu, togliti la maschera.»
L’altro, nonostante la sua perplessità, obbedì senza fiatare: snodò il laccio che la fissava al suo collo e la abbandonò poco più indietro di dove erano seduti.
Takao gli  prese le mani, ma lui  le ritrasse istintivamente.
«Andiamo, cazzo.» disse Takao, stizzoso «Non essere idiota.» gli brancò le mani con più forza e le pose sul proprio viso.
Yomotsu impiegò un po’ a capire; poi le sue mani divennero meno rigide, il loro tocco più delicato; fece scorrere i polpastrelli sulla barba ispida di Terzo, sulle tempie, sulle orecchie, sopra il mento, lungo il profilo del naso. Il suo viso era intriso d’emozione e le sue labbra tremavano, incontrollabili: «Sei…» inspirò ed espirò profondamente «…sei davvero bello.»
Takao sentì il cuore balzargli in gola, impedendogli di respirare; con mani ferme e decise prese il volto di Dodicesimo e lo toccò esattamente come aveva fatto lui poco prima.
«Ora sai che ti ho visto anche io, Yomotsu.»
«Scusami…» ricominciò l’altro, imbarazzato.
«No, senti… devi scusarmi tu. Non mi sono mai… accorto davvero di quanto fossi buono con me. E avevi ragione: sono io che ho bisogno di te.» guardò quel viso che teneva tra le mani: un viso stanco, sgualcito, pallido, scavato dalle difficoltà e con degli occhi persi a fissare chissà quale orizzonte.
«Sei tutto quello che ho.»
Yomotsu abbassò lo sguardo, imbarazzato: «Tu sei tutto quello che vorrei.»
Takao avvicinò il viso a quello dell’altro e lo baciò.
Un bacio lungo, quasi senza fine; un bacio che significava ben più di un mero sentimento amoroso: era diverso.
Erano due anime con lo spasmodico bisogno di toccarsi, e il loro sogno si realizzava finalmente in quel contatto.
Nelle labbra dell’altro avevano finalmente trovato i propri occhi, il modo per potersi non solo vedere, ma guardare l’un l’altro.
Takao capì molte cose, in quei pochi istanti: il modo goffo di baciare di Dodicesimo, ma al contempo estremamente coinvolto, esprimeva esattamente quel sentimento devastante e riverenziale che lui non aveva mai compreso fino in fondo.
Dopo un po’, Yomotsu abbandonò le labbra di Takao e, senza dire una parola, poggiò la testa sulla sua spalla.
Se solo uno dei distratti passanti avesse alzato lo sguardo, avrebbe visto due uomini adulti teneramente abbracciati sull’orlo del tetto di un palazzo, incuranti del resto del mondo perché il loro universo era già racchiuso in quell’abbraccio.

«Mettiamo in chiaro una cosa, Yomotsu.»
«Dimmi.»
«Io non sono gay.»
«Nemmeno io.»
Takao lo guardò senza riuscire a trattenere un sorrisetto e gli stampò un bacio fugace sulle labbra.
«Dovremmo far colazione tra qualche ora.»
«Io ho voglia di cibo messicano!»
«Per colazione?! Ma sei pazzo?!»
«Cibo messicano, cibo messicano, cibo messicanooo…»
«Ok, cibo messicano. Basta che stai zitto.»

«Ehi, Terzo.»
«Che c’è, adesso?»
«Ora possiamo unire i nostri futon?»

Takao sospirò, arrendevole: «…Una cosa alla volta.»









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Dedicata a CellistGirl, che oltre ad essere simpatica e carinicccima mi ha fatto venire voglia di scrivere ancora su questi due malati.
'bye ~

Nina.
   
 
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