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Autore: Erinys    23/05/2013    2 recensioni
"Quel giorno, erano esattamente passati due anni dalla morte di Sherlock, e John non aveva fatto altro che trascinarsi da un posto all’altro, fingendo un falso interesse per ciò che lo circondava, poiché la sua mente era rimasta ferma al momento in cui, alzandosi dal letto, si era reso conto di che giorno fosse, poiché la sua mente era rimasta ferma al Reichenbach e a quella camera. Così, non appena aveva potuto, era passato a posare la sua valigetta da medico a casa, dicendo a Mary che sarebbe andato a fare la solita passeggiata, che faceva ormai da due anni a quella parte; Mary, ovviamente, aveva risposto che non c’erano problemi, come sempre, ma sapeva, aveva sempre saputo, ma non gli aveva mai detto niente per non farlo soffrire ulteriormente, questo a John era chiaro: sua moglie era troppo intelligente per credere a una simile storiella, così come Mrs. Hudson."
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Post Reichenbach
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Coperta

 
 
 
 
 
 

La porta del 221b di Baker Street si aprì sbattendo rumorosamente contro il muro, facendo crollare un po’ di intonaco bianco a terra. Non c’era nessuno dentro, tranne un profondo silenzio: non uno scoppio di sparo, non un tintinnio di provette di vetro, non una nota di violino.
John Watson, ancora la mano sinistra appoggiata stancamente al portone, afferrò le chiavi della stanza di Sherlock, che Mrs. Hudson aveva chiuso qualche giorno prima, in vista della sua partenza per lo Yorkshire, per far visita a una sua vecchia parente, aveva detto a John. Senza curarsi minimante dell’assenza di luce, salì uno per uno i gradini della scala, che portavano al piano delle camere; del resto, non necessitava di alcuna candela: egli conosceva a memoria quella rampa, perfino la piccola scheggiatura che costeggiava il corrimano all’altezza del quinto scalino. Glielo aveva fatto notare Sherlock qualche anno prima, quando vivevano ancora insieme.
Una volta arrivato fino in cima, si avvicinò alla porta della camera del suo amico e infilò la chiave nella serratura, che cominciò a scricchiolare rumorosamente, difettosa com’era.
Quante volte ti avrò detto di cambiarla, Sherlock?!
Dopo qualche spinta, la porta si aprì, lasciandolo passare liberamente all’interno della stanza. Una ventina di lenzuola ricoprivano quasi tutti i mobili della stanza, eccetto la scrivania dove Sherlock era solito fare i suoi esperimenti, scrivere telegrammi o lettere, oppure risolvere i suoi casi, e le poltrone davanti al camino, su cui ogni sera si sedevano per fumare una pipa, chiacchierare o leggere in silenzio, aspettando che uno dei due iniziasse una nuova conversazione.
Ed era esattamente lì che John andava a sedersi ogni pomeriggio, fino al tramonto, sulla sua poltrona, di fronte a quella di Sherlock. Lo faceva ormai da due anni, senza mancare un giorno: finiva con i suoi pazienti e poi andava in quell’appartamento, raccontando a Mrs. Hudson che doveva cercare un libro, un fascicolo, una piuma da inchiostro speciale, la sua vecchia pipa… Tutte balle.
La verità era che John Watson andava in quella stanza per rifugiarsi dal resto del mondo, per smettere, almeno per qualche ora, di dover combattere contro sé stesso e i suoi sensi di colpa, che lo stavano lentamente avvelenando, per ciò che era accaduto quel giorno, al Reichenbach Fall, per fingere che Sherlock fosse ancora lì con lui, che non fosse cambiato niente. E allora, seduto su quella poltrona, con la pipa in bocca, cominciava a parlare della sua giornata, dei suoi pazienti, di Mary e delle storie dell’India, sebbene spesso dovesse tornare a raccontare gli stessi aneddoti per più di due volte, perché finiva sempre per averli raccontati tutti. Un paio di volte aveva anche finito per addormentarcisi su quella poltrona, in mezzo alle risate, immaginando le ipotetiche risposte di Sherlock, e sempre Mrs. Hudson lo aveva lasciato dormire, mettendogli sopra una coperta, perché, adesso che lì dentro non ci viveva più nessuno, il camino non era più stato acceso e la stanza era divenuta più fredda.
Quel giorno, erano esattamente passati due anni dalla morte di Sherlock, e John non aveva fatto altro che trascinarsi da un posto all’altro, fingendo un falso interesse per ciò che lo circondava, poiché la sua mente era rimasta ferma al momento in cui, alzandosi dal letto, si era reso conto di che giorno fosse, poiché la sua mente era rimasta ferma al Reichenbach e a quella camera. Così, non appena aveva potuto, era passato a posare la sua valigetta da medico a casa, dicendo a Mary che sarebbe andato a fare la solita passeggiata, che faceva ormai da due anni a quella parte; Mary, ovviamente, aveva risposto che non c’erano problemi, come sempre, ma sapeva, aveva sempre saputo, ma non gli aveva mai detto niente per non farlo soffrire ulteriormente, questo a John era chiaro: sua moglie era troppo intelligente per credere a una simile storiella, così come Mrs. Hudson.
Una volta sedutosi sulla sua poltrona, John si mise a osservare quella di fronte: vuota. Sentì gli occhi divenire lucidi e il petto farsi pesante, mentre la mano destra correva a coprire la bocca, che in un sussurro liberava il nome “Sherlock”.  Singhiozzi sempre più forti assediarono la sua gola, finché, stremato dal trattenersi, non irruppe in un pianto disperato, tanto da farlo cadere in ginocchio ai piedi della poltrona del suo coinquilino. Pianse per molto, anche dopo che il sole era quasi del tutto tramontato, e una flebile luce illuminava adesso il suo corpo straziato, riverso a terra come quello di un soldato ferito, il volto bagnato da un fiume di lacrime in piena. Lentamente, afferrando il bordo di uno dei cassetti della scrivania lì vicina, tentò di rialzarsi, ma il cassetto, che pensava essere chiuso a chiave, si spalancò, facendolo rovinare nuovamente a terra. E fu lì che la vide: una lettera indirizzata a lui, da parte di Sherlock.
La tenne per qualche momento tra le mani tremanti, rileggendo più volte il nome del mittente e quello del destinatario, finché, preso da una foga improvvisa di assaporare quelle parole, non la scartò e prese a leggerla. C’era soltanto una scritta, che troneggiava al centro del foglio:
 
Non sentirti in colpa per quello che mi è accaduto, John.
E’ finita così, perché poteva soltanto finire così.
E adesso, lasciami dire ciò che non ho potuto dire in tutti questi anni: ti amo, per la prima volta nella mia vita.
 
                                                                                                                                                         Sherlock
 
 
Quando ebbe finito di leggere, John prese il foglio e lo strinse al petto più forte che poté, sdraiandosi sul pavimento, con le ginocchia piegate verso le braccia, in posizione fetale, ovattato dal mondo esterno.
Sherlock aveva lasciato una lettera per lui, Sherlock sapeva come sarebbe andata a finire, Sherlock sapeva che il rimorso per non avergli impedito di morire in quel modo lo avrebbe mangiato ogni giorno della sua vita, ma, soprattutto, Sherlock gli aveva detto di amarlo, come non era mai stato in grado di amare nella sua vita. John riprese nuovamente a piangere, ma stavolta, in mezzo alla disperazione di un uomo solo, si poteva scorgere anche un sprazzo di felicità, quella stessa felicità che, aveva ormai appurato, era in grado di donargli soltanto Sherlock.
“Ti amo anch’io, Sherlock.” sussurrò, prima di addormentarsi lì, sul quel pavimento di legno, la lettera sempre stretta tra le sue braccia.
 
 
 
 
 
John si risvegliò il mattino seguente, con una coperta di lana indosso. 









Angolo dell'autrice
Dopo molti mesi, eccomi di nuovo qui con una nuova storia. 
Finalmente si avvicina l'estate e si può riprendere anche a scrivere!
Che dire? Spero vi sia piaciuta (o non vi abbia fatto tanto schifo)!
   
 
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