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Autore: Myrta Matisse    24/05/2013    0 recensioni
Ho cercato di ritrarre il giorno in cui Peeta ritorna al suo distretto dopo la guerra con il cervello scombussolato e il momento in cui ritrova Katniss, spero vi piaccia.
"Quasi mi venne da piangere, ma mi costrinsi a proseguire con lo sguardo basso: era troppo da sopportare in quel momento, quella che per anni avevo considerato casa era diventata un cumulo di nulla, di macerie, un po’ come ero diventato io, l’ombra di me stesso, una casa, un templio, una soglia da ricostruire con fatica e sangue."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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 Katnissxpeeta

SONO QUI

“Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta:
"Ti odierò, se posso; se no, t'amerò contro voglia"
Francesco Petrarca da Ascesa al Monte Ventoso

 
 

Sono qui. Non è per forza una banalità e nemmeno la questione di trovarsi in un luogo preciso. Semplicemente sono consapevole di essere, non vivere, per quello ci devo ancora lavorare, e per me è già una gran cosa visto come la mia mente sia incasinata.
Chi sono? Ok devo pensarci un attimo. Sono davvero confuso: non so nemmeno da che parte cominciare, non so nemmeno quello che provo e avrei tanta voglia di dormire se solo non sapessi che le cose potrebbero addirittura peggiorare. Sono seduto da un’ora su una spigolosa sedia in una stanza sotto terra nel distretto 13, so che tra poco tornerò dove sono nato.
Non so se esserne felice perché so che non tornerò a casa, non che mi sia mai sentito così nella vecchia panetteria dove ho vissuto fino alla mietitura, non so nemmeno se ce l’ho davvero una casa, ma allo stesso tempo il mio cuore sa che sì, ci sono stati dei momenti dove sapevo di aver trovato ciò che avevo sempre desiderato. La mia mente purtroppo non lo sa, le cose sono ancora confuse riguardo i veri sentimenti che provo per Katniss, è per questo che ho insistito per tornare nel 12 appena i flashback erano diventati quasi gestibili.
Speravo che il rivederla, in qualche modo, mi avrebbe aiutato a schiarirmi le idee, o forse era anche questa una reazione del mio subconscio.
Sapevo  che in passato ero disposto a fare qualsiasi cosa per lei, qualsiasi cosa persino morire per salvarla, per far sì che potesse essere felice.
Ora non ne sono più completamente sicuro, anche se è difficile ricostruire i pezzi della mia esistenza e la consapevolezza di essere solo al mondo mi fa quasi pensare di poter sparire così come se nulla fosse.
Cercavo di non vedermi legato a nulla, sapevo che se non sarei riuscito a raccapezzarmi potevo semplicemente ricominciare tutto, gettarmi il passato alle spalle e cercarmi un posto lontano dove i vecchi fantasmi non avrebbero potuto raggiungermi.
Allo stesso tempo però non me la sentivo, c’erano ancora parecchi pezzi che attendevano di ritrovare il loro posto, parecchi pezzi che probabilmente non sarei riuscito a soprassedere nemmeno volendo.
Volevo sinceramente che tutto tornasse come prima, attendevo di trovare un po’ di pace, ma ero sicuro che non sarei mai riuscito a trovarla seduto su una sedia scomoda per cui mi alzai e mi versai un bicchiere d’acqua, meccanicamente, solo per trovarmi qualcosa da fare.
L’acqua del 13 faceva schifo, sapeva di ferro e polvere mentre quella di Capitol City di cloro e chimica, non avevano niente a che vedere con quella del mio distretto: era l’unica che sapeva dissetarmi anche se a conti fatti non sapevo se fosse più o meno salubre delle altre. Con tutta probabilità no, ma era indissolubilmente legata alle mattine d’estate quando mi alzavo per andare al forno della panetteria e, nonostante l’ora, faceva già un caldo insopportabile.
L’attesa mi distruggeva, così decisi di avviarmi alla stazione sotterranea, con la mia valigia contenente quelle quattro cose che ancora mi appartenevano, pensando che tanto se dovevo aspettare andava bene qualsiasi posto. Una volta arrivato presi a tamburellare un piede, cercando di non apparire stizzito, anche se non avevo nessuno a cui dover dare una buona impressione, ma ormai non ci facevo nemmeno più caso abituato com’ero a fingere.
Ero troppo agitato, dovevo calmarmi: il problema è che non sapevo cosa aspettarmi, non sapevo cosa sarebbe successo se non che probabilmente avrei avuto paura di Katniss. Già mi tremavano le gambe al solo pensiero!
L’insensato terrore che avevo di lei era così forte che per un attimo mi pervase dalla testa ai piedi, ma anche qui mi sentivo ancora confuso.
Mi veniva quasi da piangere, non ce la facevo più a sostenere il peso di queste allucinazioni, dovevo sedermi, dovevo calmarmi, dovevo smetterla di ansimare come un deficiente.
Mi sedetti su una panchina per un attimo cercando di riprendere il controllo sul mio corpo quando realizzai improvvisamente che alla fine, Katniss mi mancava, sì mi capitava spesso di avere questi repentini cambi di umore, soprattutto nei suoi confronti, e ogni volta mi lasciavano sfibrato e confuso: un minuto prima la odio e penso che sia un ibrido che vuole uccidermi, quello subito dopo che sia solo merito suo se sono ancora vivo.
In fondo chi mi dice qual è la realtà? E se fosse tutto un complotto orchestrato da lei per rovinarmi l’esistenza e in fine, dopo avermi tolto tutto, uccidermi nel peggiore dei modi? Perché dovrebbe?
Non riuscendo a trovare risposta a nessuna delle domande che mi tormentavano cercai di rievocare nella mia mente l’idea di Katniss, del suo volto a cuore con gli zigomi alti e il mento appuntito, delle sue labbra carnose ed invitanti, dei suoi capelli corvini sempre intrecciati, del suo fisico affusolato imbrigliato da quel vestito arancione che probabilmente non mi sarei scordato nemmeno se l’avessi voluto, ma soprattutto i suoi occhi che avevano il colore della nebbia fulgida che copriva il giacimento le mattine invernali quando mi svegliavo per infornare il pane.
Ricordai i primi giorni dopo l’inversione, quando avevo avuto il coraggio di dire che non era poi così carina, anche allora sapevo di mentire.
Continuai a perdermi nei mei pensieri che cominciavano ad essere più tranquilli, quando ad un tratto arrivò il treno che in meno di un paio d’ore mi avrebbe portato al mio distretto e l’ansia ricominciò a pervadermi, ma sta volta meno intensamente.
Salii e mi sedetti al mio posto, ora non avevo un alloggio tutto mio vista la durata del viaggio e forse era meglio così perché probabilmente non avrei dormito lo stesso.
Il mio aspetto ultimamente era abbastanza migliorato: almeno non cercavo sempre di farmi del male, durante la guerra ero arrivato a cercare di tagliarmi i polsi per non pensare ai mei fantasmi e subito dopo ho avuto un tracollo anche peggiore perché, una volta capito il meccanismo, è difficile sopportare il dolore delle crisi e in quei momenti avrei fatto di tutto.
Ora ho solo delle profonde occhiaie a solcarmi il viso, niente più bernoccoli sulla testa a furia di sbatterla contro il muro, niente più ciuffi di capelli strappati, niente più sciocchezze con coltelli o armi: basta.
Scrollai le spalle cercando di allontanare quei pensieri sgradevoli e salii sul treno occupando un posto vicino al finestrino per cercare di far passare il tempo più veloce possibile.
I momenti più difficili erano sicuramente quelli vuoti: anche se nel 13 cercavano di tenerti sempre produttivo con orari spaccati al minuto, alla sera quando mi coricavo a letto cominciavo a riflettere e non riuscivo mai a prendere sonno se non quando proprio non crollavo in una specie di stato catatonico pieno di incubi che non assomigliava quasi per niente al sonno .
Pensavo alle cose più disparate, di solito cominciavo con delle riflessioni sulla giornata per non cercare di avere altre crisi o confusioni, ma alla fine non funzionava mai perché c’era sempre qualcosa che mi riportava ai miei fantasmi: mi bastava davvero poco, un profumo, un colore o qualche dettaglio che subito attaccavo a divagare su cose che nemmeno riconoscevo.
A volte cominciavo a pensare alla mia famiglia, ancora non riuscivo a crederci che erano tutti morti, cosa avrei fatto davanti a ciò che restava della panetteria?
Nonostante la mia non fosse stata una famiglia modello, il dolore che provavo per loro era davvero forte e profondo e il più delle volte si mischiava ad una rabbia cocente che riversavo su Katniss .
Se chiudevo gli occhi riuscivo ancora a vedere la sua figura stagliarsi davanti alla mia casa in fiamme, se mi concentravo potevo persino scorgere lo sfavillare del suo sorriso squilibrato e il suo abito da Ghiandaia Imitatrice.
Sapevo che non era reale, lei non centrava nulla, semplicemente non riuscivo a togliermi quelle immagini  dalla testa.
A volte pensavo però che la mia rabbia fosse legittima, insomma sapevo di essermi cacciato nella maggior parte delle brutte situazioni da solo, ma una parte di me non poteva non avercela con lei per avermi mentito dopo la prima arena e per avermi abbandonato durante seconda.
Se solo non l’avesse fatto ora sarei ancora quello di prima: magari non completamente sano, ma sicuro meglio di così o forse sarei morto.
Scrollai la testa, ormai la situazione era questa: non potevo farci niente, dovevo solo cercare di andare avanti e sperare di non trovare altri ostacoli così alti da superare.
In quelli che mi sembravano due battiti di ciglia raggiunsi il mio distretto, non avevo fatto caso a nulla, probabilmente mi ero addormentato e i cattivi pensieri mi avevano cullato per due ore con i loro canti di morte. Ero sempre più frustrato e sempre più in ansia per tutto, ma mi costrinsi a muovermi e a scendere dal treno. Non sapevo se qualcuno sarebbe venuto a prendermi o meno, non sapevo nemmeno se aspettarmi una stazione all’arrivo o se le bombe avevano raso al suolo pure quella, fatto sta che scesi con la mia valigia su una lastra di cemento che finiva dopo pochi metri dove cominciava una strada battuta piena di polvere e foglie secche.
Della vecchia stazione ormai rimanevano solo le macerie e due pezzi di ferro che correvano a perdita d’occhio sia in un senso che nell’altro, mi guardai intorno e ai bordi dello sterrato vidi la figura di Haymitch che si stagliava contro i profili sgarrupati delle case, sembrava quasi sobrio, ma il suo aspetto era peggiorato dall’ultima volta che l’avevo visto: il suo vizio cominciava a corroderlo, il viso gli si era gonfiato facendo sembrare gli occhi ancora più infossati e pesti, le pupille sembravano capocchie di spilli, le iridi erano di un azzurro che andava assopendosi mentre la sclera era quasi ormai gialla, la sua pelle cominciava ad assumere il colore malsano di chi ha problemi di fegato e la sua espressione diceva che era sinceramente felice, ma allo stesso tempo sembrava abbastanza stanco da poter dormire per sempre.
Tirai un lungo sospiro e mi avvicinai a lui cercando di mostrarmi spontaneamente contento di vederlo, era così certo, ma la tristezza della situazione era come un peso appoggiato sugli angoli della bocca.
Mi sentivo spossato, ero appena tornato e già volevo andarmene.
«Sei arrivato finalmente» Mi disse cercando di scandire bene le parole e allo stesso tempo sondare il terreno «Sono felice di rivederti»
Il suo sorriso si allargò mantenendo comunque un velo di tristezza che lo rendeva autentico.
«Anche io»
Dissi solo ricacciando indietro le lacrime e abbracciandolo, lui mi diede una pacca sulla spalla come per dire “Che fai, tocchi?”, era un gesto così famigliare che non riuscii a trattenere un ghigno che sapeva di risata.
«Non le ho detto che tornavi, non volevo prendermi questa responsabilità»
Sapevo a chi si riferiva e non mi sentivo di biasimarlo: nemmeno io in fondo ero esattamente pronto a rivederla.
«Non ti preoccupare»
Risposi e cominciammo il nostro tragitto verso il villaggio dei vincitori. La città sembrava essere stata scrollata pesantemente: enormi crateri squarciavano quella che una volta era stata la linearità della zona “commerciale” del distretto, sapevo che poco più in là, in una traversa sulla sinistra ci stava la mia panetteria, ma non mi sentivo in grado di affrontare quel problema in quel momento, i giardini e le ampie strade erano ancora mezze distrutte dalla potenza dell’impatto delle bombe che avevano provocato non pochi danni anche sugli edifici cittadini, poco era rimasto intatto e quel poco era coperto di fuliggine e fumo nero. Degli edifici più forti, che erano stati colpiti di striscio, rimaneva ancora almeno qualche parete che andava a frastagliarsi scompostamente verso l’alto, l’intonaco era crollato lasciando grandi buchi di mattoni e cemento, tutto sembrava essere stato sminuzzato e ricomposto alla bella e meglio scordandosi dei pezzi e lasciando dei grandi vuoti a perdere, per terra tutto era cosparso di vetri aguzzi che erano saltati dalle finestre per i colpi delle bombe e di macerie crollate che gli abitanti stavano cercando di ammucchiare in grandi montagne per revisionarle prima di farle rimuovere.
Notai che comunque, nonostante la desolazione, la gente lottava per migliorare. Nessuno si era arreso alla tristezza o all’apatia: tutti facevano del loro meglio per poter tornare quelli di un tempo o addirittura meglio.
Superammo la città con non poca difficoltà, mi sembrava che insieme a tutto fosse stato bombardato anche il mio cuore e che ora sanguinasse dal dolore per ciò che era successo al posto dove ero cresciuto e vissuto fino all’anno prima. Quando arrivammo al giacimento, lo spettacolo era diventato ancora più cruento: lì le case erano tutte di legno e fango e le bombe lo avevano riarso quasi completamente, non rimaneva più quasi nulla. Le macerie erano ancora fumanti e l’aria era irrespirabile, quel luogo era stato praticamente raso al suolo dalla distruzione della guerra.
Quasi mi venne da piangere, ma mi costrinsi a proseguire con lo sguardo basso: era troppo da sopportare in quel momento, quella che per anni avevo considerato casa era diventata un cumulo di nulla, di macerie, un po’ come ero diventato io, l’ombra di me stesso, una casa, un templio, una soglia da ricostruire con fatica e sangue.
Haymitch era al mio fianco, ma anche lui era come se non ci fosse mai stato, uno spettro come tutti gli altri che camminavano verso mete che nessuno conosceva, con la trasparenza e l’inconsistenza di una vita spezzata a metà: troppo triste per vivere, ma non abbastanza coraggiosa per morire.
Arrivammo al villaggio in silenzio, senza aver proferito parola per tutto il tragitto, passammo davanti casa di Katniss e un sussulto mi sconquassò: sembrava abbandonata con le persiane tutte tirate e l’aria dismessa.
Dovevo anche io fare qualcosa, non potevo semplicemente lasciarmi andare, non potevo farmi scorrere tutto sopra e non reagire, dovevo avere anche io la forza di cambiare e continuare ad andare avanti.
Mi ripromisi di fare qualcosa il giorno dopo, ora era troppo tardi persino per pensare e mi sentivo spossato da tutto quello che avevo visto; arrivammo a casa mia e salutai Haymitch che sembrava del mio stesso umore, ero sicuro che una volta tornato a casa si sarebbe di nuovo attaccato alla bottiglia e non lo biasimavo.
Entrai in casa e la sentii subito vuota, un involucro bellissimo, ma vuoto senza la presenza dei miei fratelli e dei miei genitori; quella sensazione era semplicemente insostenibile, troppo forte per poterla contenere.
Corsi al piano di sopra, nella mia stanza avevo allestito una specie di studio nel quale avevo cominciato a dipingere con colori veri su tele vere.
Imbracciai il cavalletto, lo montai frettolosamente e sui supporti posi una tela, afferrai la tavolozza sulla quale spremetti rapidamente qualche acrilico e cominciai a dipingere con un pennello tozzo e tondo.
Non sapevo cosa avrei ritratto, semplicemente mi lasciavo guidare dalla mia mano che vagava velocemente, quasi febbrilmente sulla tela.
Dopo più di due ore lo strato di colore che avevo applicato era diventato così spesso che temetti che il tessuto si potesse scucire, il risultato non era molto entusiasmante, ma quello era un problema mio: semplicemente non riuscivo a sentirmi mai completamente soddisfatto di quello che facevo, eppure questo aveva un significato così personale che nessuno avrebbe capito.
Avevo ritratto il mio vestito interiore e le rovine del mio essere, i colori si mischiavano tra di loro e si sporcavano, di incupivano nei toni del verdone e del blu opaco fino ad annullarsi in un nero pieno che sapeva di tutto. Non c’era un soggetto naturalistico, d’altronde era difficile ritrovare qualcosa di vero che potesse esprimere davvero quello che provavo per cui mi ero sfogato con un vortice di colori cupi increspati come le onde del mare.
Continuai a lavorarci un po’ su, ma non volevo sembrare ridondante o esagerato così lo lasciai come mi sembrava meglio e riemersi da quel sogno creativo accorgendomi che era molto tardi, il cielo estivo era già scuro e pieno di stelle brillanti.
Guardai i miei vestiti che si erano tutti imbrattati di colore indelebile, sbuffai irritato slacciandomi camicia e pantaloni prima di scalciare calze e scarpe in un angolo e mi allontanai per andare a fare una doccia in preparazione alla futura notte in bianco.
Cercai di riposare, ma alla fine mi svegliai qualche ora dopo ancora più stanco di prima, decisi che dovevo fare qualcosa prima di rimettermi a pensare alle macerie per dedicarmi alla ricostruzione del nuovo me stesso così andai in cucina, inforcai il mio grembiule e presi gli ingredienti per fare un po’ di focacce al formaggio.
Sparpagliai un po’ di farina sul bancone di granito, la ammucchiai formando una montagnetta alla cui sommità feci un buco dove sbriciolai un po’ di lievito, del sale, un po’ d’olio e d’acqua poi mi misi ad impastare vigorosamente. Sembrava passata una vita, ma le mie mani conoscevano perfettamente quelle paste e come maneggiarle, talvolta le pizzicavo leggermente o altre le scuotevo e le lavoravo energicamente, questi gesti così famigliari mi fecero pensare che in fondo non tutto era perduto: alla fine anche se avevo perso una parte di me stesso potevo sempre cercare di farla riaffiorare così magari nel tempo sarei riuscito a farmene una ragione.
Quando misi l’impasto a lievitare sotto uno strofinaccio uscii in veranda per guardare il cielo che si rischiarava, non potei fare a meno di pensare all’ultima arena: il mare, la giungla e i tramonti rossi di sangue. Sarebbe potuto essere un bel posto in un’altra occasione, forse senza le scimmie, le piogge rosse e tutto il resto.
Il sole fece capolino tra le macerie ed il fumo, era pallido nel tepore primaverile e il cielo sembrava quasi di carne cosparso di polvere e nebbia. Tirai un sospiro che sapeva di amarezza e mi raddrizzai nella poltrona della veranda, presto o tardi sarei dovuto andare a trovare Katniss.
Il solo pensiero mi spaventava, ma la situazione della sua casa mi faceva pensare che anche lei si trovasse in uno stato più o meno simile, una vocina mi diceva che non ero pronto per i miei guai figuriamoci per i suoi, ma la parte buona di me suggerì che forse c’erano delle promesse tra noi due che non si potevano spezzare facilmente. Poi era anche vero che in fondo ci tenevo a vederla, semplicemente era come quando si desidera così tanto una cosa che quando la si può avere si teme ad usarla, ecco avevo sognato così tante volte di rivederla che non sapevo nemmeno se questa voglia mi apparteneva o era solo uno spettro di quello che ero stato.
No, sapevo che non potevo ignorarla e poi una volta finito di preparare tutto quel pane qualcuno avrebbe pur dovuto mangiarlo e io avrei dovuto trovarmi qualcos’altro da fare.
Quando pensai che fosse passato abbastanza tempo mi alzai dalla poltrona e andai in cucina a finire le focacce per poi infornarle, il profumo di pane in cottura pervase tutta la casa facendola sembrare un po’ meno vuota di quella che era, ma allo stesso tempo era ancora troppo doloroso per me star troppo con le mani in mano così uscii dirigendomi verso i boschi.
Raramente ero stato oltre la recinzione, quello era il territorio di Katniss, non il mio, riuscii comunque a scavalcarla stando ben attento a controllare che non fosse elettrizzata anche se sapevo che, per come era messo il resto del distretto, probabilmente quello sarebbe stato l’ultimo problema da affrontare.
La foresta cominciava subito al di là del recinto ed era così verde e lussureggiante che mi fece venire in mente quella della mia prima arena.
L’ansia mi pervase, subito la parte malata di me stesso mi fece ricordare gli episodi più cruenti: le brutalità commesse, l’agonia di Cato, la profonda ferita che mi inferse e le bugie di Katniss.
Scossi la testa così forte che quando mi fermai il mondo prese a girare come su una giostra, passò qualche minuto e cercai di calmarmi quel tanto che mi bastasse da muovere un primo passo e non rimanere lì davanti pietrificato come una statua. Presi a camminare velocemente lungo il limitare del bosco senza il coraggio di entrarci finche non raggiunsi una specie di spiazzo pieno di rose.
“Primrose”
Pensai, era morta cercando di fare del bene e Katniss aveva ucciso la Coin perché la riteneva responsabile dell’accaduto.
Quei fiori erano così belli e che per un attimo quasi la calma mi pervase, il loro profumo era ben diverso da quello di Snow: il suo era mellifluo, nauseante per quanto era dolce, mentre quello dei fiori era così fresco che potevi sentirlo frizzare sulla pelle.
Non ci pensai due volte e presi il coltellino che avevo in tasca cercando di scavare alla base di un arbusto in modo da sradicarlo con qualche radice per poterlo travasare, dopo un po’ di lavoro riuscii ad estrarre una pianta e così feci con altre quattro.
Portai il frutto del mio lavoro mattutino fino a casa e posai tutto su una carriola per poterle trasportare fino da Katniss, una volta arrivato mi soffermai a pensare a dove piantale e decisi che sotto la sua finestra sarebbe potuto andar bene, così tutte le mattine avrebbe potuto affacciarsi e sentirne il profumo.
Presi la zappa che avevo preso dal capanno degli attrezzi e arai un po’ l’area designata togliendo le erbacce, ad un tratto cominciai a sentire dei rumori provenire dalla casa e un po’ mi preoccupai: e se no le fosse piaciuta l’idea?
Non feci in tempo a portar via tutto e sparire che la porta si spalancò mostrando una Katniss completamente dismessa: sembrava avesse dormito vestita per settimane e che non si fosse nemmeno curata di lavarsi o che cosa.
Pensai che probabilmente era così: i suoi capelli erano una nuvola scomposta  che incorniciavano un volto stanco, magro e scavato, i suoi vestiti erano sgualciti e sulla sua pelle portava ustioni e cicatrici abbastanza evidenti.
I suoi occhi si fissarono su di me cercando di mettermi a fuoco e di abituarsi alla luce esterna, da quanto tempo non usciva di casa?
«Sei tornato»
Mi dice con la voce impastata, che cosa si aspettava che rispondessi? Ah sì voleva sapere perché non fossi tornato a casa con lei. La situazione era cambiata così repentinamente che nemmeno ero riuscito a capire come mi sentissi a rivederla.
« Fino a ieri il dottor Aurelius non mi ha permesso di lasciare Capitol City» Mi giustificai un po’ arrossendo, avrei voluto tornare prima, ma la mia testa era troppo confusa e nemmeno ora mi sembrava in piena forma «Tra l’altro, mi ha detto di dirti che non può continuare a fare solo finta di curarti. Devi rispondere al telefono»
Quelle erano le cose che il dottore mi aveva chiesto di riferire, ma sapevo che Katniss non lo avrebbe mai richiamato per quanto era riservata e reticente nell’esprimere le sue vere emozioni ed io ne sapevo qualcosa, ma ormai avevo rinunciato a capirla da tempo.
«Cosa stai facendo?»
Giusto le rose, ero rimasto probabilmente imbambolato ad osservarla, d’altronde ho passato così tanto tempo ad ammirarla che riuscivo a considerarla bellissima persino dismessa com’era.
«Sono stato nei boschi, stamattina, e ho sradicato questi. Per lei» Le dico indicando gli arbusti ancora nella carriola «Pensavo che potremmo piantarli lungo il lato della casa»
Vedo sul suo volto il susseguirsi di emozioni: prima rabbia, poi comprensione e in fine tristezza.
Non sapevo che cosa fare, ero abbastanza imbarazzato e Katniss non sembrava tanto in sé quando, ad un tratto, si riscosse e ritornò in casa annuendo.
Rimasi solo con i miei pensieri, ma mi rimisi a lavorare pensando che forse un giorno saremmo riusciti a venire a capo di tutta questa faccenda, un giorno saremmo riusciti a ricostruire anche noi stessi.

Angolo dell'autrice

Ok salve a tutti sciure e sciuri, spero questa shot bella lunghetta vi sia piaciuta perchè io ci ho messo del bel mio per scriverla! Era da tanto che non scrivevo niente di più che degli appunti o commenti. Allora faccio qualche precisazione, so che all'inizio Peeta dice di trovarsi nel 13 e poi alla fine dice di essere stato a Capitol City, ma me ne sono accorta alla fine per cui ho lasciato stare, so che la citazione di Petrarca non c'entra tanto, ma a me piace e avrei voluto darci più spazio, so che il finale fa un po' schifo, ma non vedevo l'ora di finirla perchè cominciava a diventare più che una shot una vera fanfiction e non mi sento ancora pronta per questo. Spero vi piaccia, vi prego siate clementi!
P.S. L'immagine la devo creditare perchè non è mia, ma l'ho trovata su google, voi potete vederla a questo link: X
Buona notte!
Linda

   
 
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