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Autore: LostInStereo_GD    25/05/2013    1 recensioni
"Fu mia madre a comprarmi il primo test di gravidanza.
E il secondo. E il terzo.
Tutti positivi. "
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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È il dolore più forte che abbia mai provato. Sento la pancia contrarsi, le ossa del bacino lussarsi. Tengo duro, stringo le dita così forte sui palmi da conficcare le unghie nella carne.
Ma quel piccolo dolore in confronto, è niente.
È un lunedì mattina di novembre, e dovrei essere a scuola a quest’ora, ma queste forti ondate di dolore mi hanno preso all’improvviso.
Stavo prendendo il pullman insieme alle mie amiche Sara e Caterina, sentendomi più ingombrante del solito con la mia “vastità”, ma avevo iniziato a vedere sfocato. Le mie amiche avevano iniziato ad urlare terrorizzate quando, poco dopo, mi ero accasciata sul sudicio pavimento dell’autobus, chiamandomi per nome più e più volte.
-Jamia! Jamia!- strillavano. Ma io sentivo solo un leggero mormorio, che interrompeva i miei pensieri.
Jamia, così mi chiamo. Ho sedici anni e mezzo, e il mio nome tradisce le mie radici senegalesi. Io, però, sono nata in Italia, e sono sempre stata cittadina regolare di questo paese.
Mio padre Mario, nato e vissuto qui, a Roma, ha abbandonato me e mia madre Keria quando avevo solo cinque anni. Non ricordo molto di lui, ma ho ben stampati in mente i grossi lividi violacei che mia mamma portava sul corpo, segno delle immense violenze subite. Io ancora, non ero stata nemmeno sfiorata da mio padre, ma quando se ne andò, ricordo che ero felice.
Una bambina di cinque anni troppo perspicace, ecco cosa ero. Solo e soltanto quello.
Ma la mia intelligenza mi ha abbandonata di colpo, lo scorso dicembre, perché per la prima volta sono caduta nella trappola dell’amore.
Lui si chiamava Alessandro, aveva diciotto anni e frequentava il liceo scientifico, come me. 
Era un ragazzo bellissimo: aveva capelli biondi e lisci, due occhi azzurro ghiaccio e un sorriso che scaldava il cuore.
I ragazzi “chiari”, come li chiamavo io, mi piacevano tanto, forse perché l’aspetto nordico era sempre sembrato irraggiungibile ai miei occhi, che avevo la pelle color caffelatte, capelli neri mossi  e occhi scuri come il carbone.
Eravamo innamorati, ne ero sicura. Le lunghe passeggiate sul Tevere, il guardare il tramonto insieme sulle spiagge di Ostia e i lunghi giri in motorino, senza una meta precisa, con le mie braccia avvinghiate intorno alla sua vita.
Credevo fosse un bravo ragazzo, un giovane uomo pronto a prendersi le sue responsabilità. Non mi aveva messo addosso alcuna pressione per fare il “grande passo”, anche perché sapeva che ero vergine, e mi convinsi che mi avrebbe aspettato per il mio bene.
Tre mesi dopo l’ inizio della nostra storia, capii di essere pronta.
Dopo una cena romantica a casa sua, libera dai genitori che erano in viaggio, ci stendemmo sul divano, e capimmo che sarebbe successo. Lui non percepiva il mio nervosismo, così quella sua tranquillità mi contagiò, e nel giro di pochi minuti fui completamente rilassata.
E feci una delle cose più belle di tutta la mia vita.
“Era protetto”, mi assicurò lui il giorno seguente, quando mi accorsi che invece non aveva usato nessun tipo di precauzione.
“Ne sei sicuro?”, gli chiesi. “A me non è sembrato.” Ma decisi di fidarmi.
Un mese dopo però, passai tre settimane terribili, tra giramenti di testa e terribili nausee. Il ciclo non mi veniva, e appresi che Alessandro mi aveva imbottito di bugie.
Fu mia madre a comprarmi il primo test di gravidanza.
E il secondo. E il terzo.
Tutti positivi.
Mi misi a piangere, terrorizzata. Non volevo quel bambino, non volevo che una parte di quel viscido rimanesse in me.
Lo chiamai, decisa a parlargli della gravidanza, ma lui mi rispose solo che non avrei dovuto dargliela.
Era il quattordici febbraio, San Valentino, e ricordo bene come Alessandro, il padre di mio figlio, mi ha lasciata.
Caddi in depressione. Mi ritirai da scuola, stavo sempre a letto, non mangiavo più. Le mie amiche mi chiamavano, ma io, per due mesi, mi isolai completamente dal mondo esterno.
Mia madre mi mandò da uno psicologo, ma non funzionò. Vedevo la mia pancia crescere, ma ne ero disgustata.
Provavo ribrezzo per quell’essere che aveva metà geni di Alessandro, e ogni volta che pensavo a questo, scoppiavo a piangere. Decisi di abortire, ma mia madre, avendo un cuore immenso, tentò di impedirmelo in tutti i modi. Non voleva che io uccidessi un bambino, anche se era stato uno shock anche per lei sapere che aspettavo un figlio.
Ma alla fine, fu proprio mia madre a farmi vedere la luce.
“Vieni.”, mi disse un giorno, sorridendomi e tendendomi una mano. “Andiamo a conoscere tuo figlio.”
Rimasi paralizzata, non capivo cosa intendesse. Ma quando salii sulla macchina e lei mi prese per mano, ci arrivai.
Non fui sorpresa di vederla parcheggiare l’auto nell’enorme parcheggio nell’ospedale, e non lo fui nemmeno quando salimmo fino al reparto di ginecologia, dove disse ad un infermiera che aveva prenotato un ecografia con la dottoressa Marini.
Camminai mano nella mano con mia madre fino alla piccola sala buia, come una bambina piccola, e anche quando mi sedetti decisi di tenerla vicino a me.
“La dottoressa arriverà fra poco, può… ehm… accomodarsi”, ci disse un giovane infermiere. Lo vidi esitare un attimo, con lo sguardo che oscillava tra me e mia madre.
“Sono io quella incinta”, gli dissi alla fine. Lui mi guardò un secondo, un po’ incredulo, e poi se ne andò, arrossendo violentemente.
Questo piccolo gesto riuscì a strapparmi un sorriso. Mia madre mi guardò dolcemente, contenta di vedermi sorridere. Mi alzai, e cautamente, mi stesi sul lettino. Ormai sdraiata però, le lacrime iniziarono a premermi sugli occhi.
“Non lo voglio, mamma”, dissi in un soffio. “Non voglio un figlio. Non da lui.”
Lei sospirò. “Dammi altri cinque minuti, piccola”, sussurrò. “E se sarai sempre disgustata, sarò la prima a chiederti di abortire”.
Mi ricordo che le strinsi forte la mano, e che per un secondo, tutto intorno a noi svanì.
Poi una donna bionda, bellissima, con due profondi occhi verdi, entrò nella saletta, e mi affrettai a cancellare le lacrime che ormai mi solcavano il viso.
“Ciao, Jamia” mi disse in tono vellutato. Tirai su con il naso e le feci un lieve gesto con il palmo della mano.
“È la tua prima ecografia, non è così?”, mi domandò. Annuii, ipnotizzata dal suono della sua voce. “Okay”, aggiunse subito dopo. “Ora dovresti sollevarti la maglietta fino qui”, disse, indicando su se stessa la parte sotto il seno. Le ubbidii, e dopo essermi alzata la t-shirt dei Green Day, notai per la prima volta in che modo le costole sporgessero, come a bucare la pelle. Ne rimasi shoccata.
Ancora impegnata a guardare il mio busto scheletrico, sentii, improvvisamente, un gelido ammasso gelatinoso cospargere la mia pancia.
Sussultai, e la dottoressa Marini si scusò. “Perdonami”, disse. “Il gel per le ecografie è un po’ freddo”
Mi ci volle un po’per abituarmi a quell’affare sulla pancia, ma alla fine mi sentii a mio agio.
Con una specie di telecomando, la dottoressa iniziò ad accarezzarmi il ventre, mentre con l’altra accendeva uno schermo poco distante.
Improvvisamente, sentii di nuovo tutto il nervoso di pochi minuti prima piombarmi addosso.
No, no. Non volevo quel bambino, niente mi avrebbe impedito di abortire.
Mi accorsi di piangere solo quando mia madre mi baciò tra i capelli, stringendomi a lei.
“Non fare così, Jamia”, sussurrò. “Ti prego”. Mi sollevò il mento con la mano, e sorridendo, guardò qualcosa dietro di me.
“Voltati”, mi disse.
Probabilmente, quel piccolo, minuscolo, insignificante gesto, mi cambiò la vita.
Socchiusi gli occhi, incerta sul fatto di immaginarmi quel fagiolino al centro dello schermo, oppure di vederlo davvero.
Quel minuscolo cosino però sussultò, ed io ebbi un tuffo al cuore.
Spalancai gli occhi e iniziai a piangere. Ma dopo tanto tempo, di gioia. Mi portai una mano alla bocca, soffocando una risata, e mi asciugai le lacrime.
Non potevo crederci.
Mio figlio. Il mio fagiolino.
“Come ho fatto anche solo a pensare di aver potuto rinunciare a lui?” non potei non chiedermi. Era così bello, così vivo.
Mi voltai di scatto verso la dottoressa Marini.
“Sta bene?” domandai, di colpo preoccupata. Perché, perché avevo smesso di mangiare? Avevo compromesso la sua vita, e questo mi faceva sentire a dir poco una persona terribile.
Ma la donna sorrise, annuendo. “È in ottima salute”, mi assicurò, stringendomi una spalla. “Ma devi ricominciare a mangiare. Almeno, fallo per lui.”
E con quella frase, la mia vita cambiò completamente.
Riniziai a mangiare, a camminare, a sorridere. E soprattutto, tornai a scuola.
Dovetti ignorare i pareri e i commenti di molta gente, ma mi feci forza, e grazie a Sara e Caterina, le mie migliori amiche, andai avanti.
Passavo per i corridoi fiera, mostrando la grossa responsabilità che mi ero presa tenendo il bambino. Sorridevo sempre, e grazie alla musica, che mi aiutava sempre, giorno per giorno, imparai a non farmi condizionare da nessuno, ad andare per la mia strada.
Quando incrociavo Alessandro per i corridoi della scuola gli sorridevo, e mettendomi di profilo, mi accarezzavo la pancia, mimandogli con le labbra un bel “Grazie”.
Una volta era con i suoi amici, e quando alla fine aggiunsi un bel dito medio loro scoppiarono a ridere, mentre lui arrossì, visibilmente umiliato.
Non cercai di convincerlo ad aiutarmi o anche solo a riconoscere quel bambino come suo, perché sapevo non lo avrebbe fatto.
Ma provavo una soddisfazione immensa nel vedere i suoi occhi frustrati e combattuti col passare dei mesi, mentre la mia pancia cresceva e anche nostro, anzi, mio figlio.
Ogni mese andavo a fare un’ ecografia, e la dottoressa Marini mi aiutò incredibilmente. Mi ascoltava e mi consigliava, come una seconda madre.
Arrivata al quarto mese di gravidanza senza complicazioni, scelsi di non sapere il sesso del mio bambino. L’avrei amato comunque, a prescindere dal fatto che fosse maschio o femmina.
Ma quando iniziammo a fare shopping per il futuro arrivato, me ne pentii amaramente.
“Oh mamma, guarda che carino questo vestito”, dissi una volta a mia madre, mostrandole un graziosissimo abitino lilla.
“È bellissimo, tesoro” mi disse lei. “Ma se per caso fosse maschio?”
E così fu quella volta, la volta seguente e tutte quelle che succedettero.
Così, in un mese di shopping prima del parto, presi solo calzini, scarpine e body di colori neutri.
Onestamente, alla fine giunsi alla conclusione che non voler sapere il sesso di un figlio sia una delle cose più stupide al mondo.
Ripenso a tutti questi momenti, a ogni dettaglio.
Alla gravidanza, alla cameretta di mio figlio, a come farò ad andare avanti. Adesso sono qui, sdraiata su un lettino d’ospedale.
Stamattina mi sono svegliata con una strana sensazione simile alla nausea, e con forti dolori che mi attanagliavano il ventre molto di rado. Non ho detto nulla a mia madre, ma sull’autobus i dolori si sono fatti più forti, e ho scoperto di essere entrata in travaglio perché ho avuto un piccolo mancamento sul pullman, e le mie amiche hanno pensato bene di chiamare un’ambulanza.
Caterina mi ha accompagnato fino all’ospedale, ma Sara, non appena ha visto rompersi le acque, è scoppiata a piangere e si è allontanata.
Con il cellulare sono riuscita ad avvertire mia madre, che si è catapultata subito alla struttura medica, e, spinta un po’ anche dal risentimento, ho mandato un messaggio ad Alessandro, avvertendolo che suo figlio stava per nascere.
I miei pensieri sulla mattinata vengono però bruscamente interrotti da una nuova contrazione.
-Ah, che male!- urlo io. Mia madre cerca di sostenermi tenendomi per mano.
-Passerà tutto in fretta, piccola.- insiste. –Sarà molto veloce. Poi avrai il tuo bambino.-
Guardo l’orologio. Sono le nove e mezzo di sera, ed è tutto il fottutissimo giorno che ho le contrazioni.
Veloce un accidenti!
Il dolore è fortissimo, non so se ce la farò a resistere. In corridoio sento improvvisamente un gran frastuono, ma cerco di non dargli retta.
-Uh, quanto ci mettono questi dottori?!- urlo io. –Devo partorire, ho sedici anni, non resisterò ancora a lungo!- Grido, cerco di liberarmi dal dolore, ma non ce la faccio.
-Mi lasci passare!- urla una voce familiare in corridoio. –Mi lasci andare da lei!-
Ascolto distrattamente quest’uomo, probabilmente diretto dalla moglie che sta per partorire. Prendo bei respiri, tentando di affievolire il dolore delle contrazioni.
-Non può, signore.- cerca di ribattere Luca, il giovane infermiere conosciuto alla prima ecografia.    -Non credo che lei sia desiderato.-
Inspiro, espiro. Come può il padre di un bambino essere indesiderato? Se Alessandro fosse qui, forse…
-È mio figlio, accidenti!- urla di nuovo quell’uomo.
A quel punto, però, noto qualcosa di strano in quella voce.
Quell’”accidenti” detto in quel modo, quella voce graffiante. Me lo immagino, piegato sul bancone a tempestare di pugni il tavolo.
Sollevo la testa di scatto, pallida dal dolore e dalla sorpresa.
–Alessandro.- sussurro.
È qui. Il padre di mio figlio è qui. Incredula, mi rendo conto che il desiderio di averlo accanto a me è fortissimo.
Devo vederlo.
Mi volto, cerco un appiglio. Faccio leva con il braccio sul comodino per alzarmi.
-Dove vai, tesoro?- mi domanda però mia madre, prendendomi dolcemente per le spalle. –Non puoi muoverti.-
-Lasciami.-  La scrollo bruscamente. –Devo andare da Alessandro.- Lei mi guarda spaesata, ma mi lascia andare.
Barcollo fuori dalla porta appoggiandomi allo stipite e poi al muro intonacato di arancione. Muovo due o tre passi, e vedo Alessandro, adirato, che litiga con Luca.
Shoccata, non posso fare a meno di notare quanto sia sempre bello, e di come, evidentemente, gli importi qualcosa del mio bambino.
Con questo pensiero in testa, trovo la forza di muovere qualche passo ancora, prima che lui volti la testa.
Due occhi color del mare in tempesta mi fissano, schiarendosi di colpo non appena incontrano i miei. Il volto di Alessandro si rilassa velocemente e mi osserva a bocca aperta, come se gli mancasse il respiro.
Una lacrima mi solca il viso, e mi sfugge un singhiozzo. So di non essere una bellezza, con un grosso pigiama sformato e i capelli legati in una crocchia ormai sfatta, ma lui mi guarda come se fossi ancora più bella dell’ultima volta che mi ha vista.
Senza dire niente, corre subito verso di me, sorreggendomi tra le sue braccia. Dopo nove mesi di solitudine, mi ritrovo tra le braccia di colui che ho amato e che mi rendo conto di amare ancora.
Come ho potuto deriderlo, non chiedere nemmeno il suo parere, credendo che non gli importasse? Ora trovo un senso alla nostalgia che leggevo nei suoi occhi, alla sua curiosità mista a incredulità.
Aveva deciso di tenere il bambino, crescerlo con me.
Capendo questo, scoppio a piangere. Mi stringo di più a lui, tra di noi c’è solo nostro figlio.
-Scusami, scusami.- dico piangendo. –Sono stata una stupida, non dovevo allontanarmi da te.-
Sento Alessandro singhiozzare con me, e la cosa mi stringe il cuore.
-È solo colpa mia.- dice lui. –Sono stato io il cretino, sei stata da sola per tutta la gravidanza. Ma non appena ti ho lasciata ho capito che avevo commesso l’errore più grosso di tutta la mia vita, ma non avevo il coraggio di parlarti o anche solo di chiamarti.-
Mi prende il viso tra le mani, e piangendo, mi bacia. Un bacio dolcissimo, indimenticabile, con il sapore salato delle lacrime che si posa sulle nostre labbra.
Lo tengo stretto a me per secondi infiniti, la testa poggiata sul suo petto che ascolta il ritmo del suo cuore.
-Ti amo.- mi sussurra infine nell’orecchio. –Non avrei dovuto abbandonarti. E non me lo perdonerò mai. Ma almeno tu, fallo. Perdonami.-
Sorrido, tra le lacrime. Annuisco. –Sì.- dico. –Lo farò.-
Lui, incredulo, sorride dolcemente. Mi abbraccia, e mi bacia di nuovo.
Ma io sono di nuovo colta da una contrazione e mi piego in due. Alessandro, rendendosi improvvisamente conto del mio stato, mi dice:
-Presto, torniamo in camera.- Mi solleva di peso e corre fino alla stanza.
-E io che credevo di non essere arrivato in tempo.- mi sussurra in un orecchio. Sorrido, malgrado tutto. Non appena varchiamo la soglia della camera però, mia madre lo guarda, ostile.
-E lui che ci fa qui?- sibila. La guardo, supplichevole.
-No.- dico. Lei mi guarda, sorpresa. –Lo voglio. Lo voglio qui, con me.-
In quel momento, finalmente, la dottoressa Marini entra, impedendo a mia madre di ribattere, e mi rivolge uno sguardo emozionato.
-Allora, Jamia.- mi dice, accarezzandomi la fronte. –Sei pronta?-
Annuisco debolmente, e una contrazione mi prende di nuovo. Stringo le mani di mia madre e di Alessandro fino quasi a stritolarle, ma questo dolore è fortissimo.
Non ho rimpianti però, sul non aver scelto l’epidurale. Mio figlio nascerà naturalmente, e non importa se morirò di dolore. Non ho intenzione di usare farmaci.
Dalla porta entrano due infermieri, e c’è anche Luca. Mi sorride dolcemente, e quando pensa che non me ne accorga, guarda Alessandro in cagnesco.
-Continua a fare dei bei respiri.- mi sussurra mia madre in un orecchio. La guardo negli occhi e respiro profondamente insieme a lei, come se entrambe dovessimo partorire.
Il lettino inizia a muoversi. Esce dalla stanza, e io tengo entrambe le mani attaccate a mia madre e ad Alessandro. Entriamo in sala parto, e con la schiena dritta, la dottoressa dice:
-Adesso devi spingere.-
Continuo a fare profondi respiri, e quando sento un’altra contrazione spingo, più forte che posso.
-…Otto, nove dieci. Okay, respira.- mi dice poi la donna. Sorride. –Si vede già la testa.-
Prendo altri respiri e ad una nuova ondata di dolore riparto, spingendo, se possibile ancora più forte. Quando penso che mi schianteranno le vene del collo, la dottoressa mi dice di rilassarmi.
-Altre due, tre spinte e ci siamo!- esclama lei. –Dai, Jamia, non mollare adesso!-
Sono esausta, non ce la faccio più. Alessandro allora mi circonda le spalle con un braccio.
-Amore, avanti.- mi dice. –Manca poco, continua. Stringimi quanto vuoi, pensa che tra poco avremo nostro figlio!-
Lo guardo, stanca morta, e poi rivolgo uno sguardo a mia madre. La vedo osservare Alessandro, con un sorriso a metà tra l’incredulo e il compiaciuto, e questa specie di “approvazione” da parte sua, mi dà la forza di spingere di nuovo.
Subito dopo, ecco un’altra contrazione, e determinata come prima, spingo.
-Ah!- urlo, straziata dal dolore.
-L’ultima, l’ultima!- esclama mia madre. Guarda le mani della dottoressa, tra le mie gambe. –Oh mio Dio, lo vedo!- urla estasiata.
Un’ultima ondata di dolore, un’ ultima spinta e la mia testa cade all’indietro.
Sento qualcosa staccarsi da me, e provo la strana sensazione di essere stata privata di qualcosa di essenziale. Sento Alessandro su di me, che si china e mi bacia.
-Brava, amore. Bravissima.- mi sussurra. Sorrido, esausta, ma intorno a me sento un movimento strano.
-Il bambino.- tento di dire io. –Dov’è?- Alessandro si guarda intorno, e si avvicina alla dottoressa. Parlano a bassa voce, e Alessandro impallidisce. Tenta di prendere il bambino, ma glielo impediscono, e mentre la dottoressa mi passa accanto la sento sussurrare qualcosa a mia madre.
-Il piccolo non respira.-
Sento il sangue gelar misi nelle vene.  Mio figlio non respira.
-Il mio bambino!-urlo allora, straziata. La dottoressa Marini mi guarda, e con un piccolo fagotto adagiato, inerme, dentro una sorta di culla trasparente e piena di fili, si allontana con qualche infermiera uscendo dalla sala.
-No!- urlo. –Dove sta andando? Mi dia mio figlio!- Scoppio a piangere e scalcio, mi dibatto, mentre altri infermieri mi iniettano qualcosa nelle vene.
Di colpo mi sento stanca. Respiro più lentamente e inizio a vedere sfocato. L’ultima cosa che inquadro nitidamente è Alessandro che mi stringe un braccio.
Sta piangendo.
 
***
-Amore. Svegliati.-
Una voce calda e dolce mi scuote dal torpore iniziale. Una luce accecante penetra tra le mie palpebre socchiuse, e mi sento spaesata.
Mi guardo intorno. -D…Dove sono?- domando. Sono sdraiata su un lettino in una stanza bianca e luminosa. Accanto a me c’è mia madre che mi sorride.
-Sei all’ospedale, piccola.- mi dice. -È nato tuo figlio.-
Sento come un pugno allo stomaco. Mi tocco la pancia, quasi completamente piatta, e fisso mia madre, terrorizzata.
-È vivo? Sta bene?- domando. Lei sospira, e guarda altrove. Sento che sto per piangere, e mia madre continua a rimanere in silenzio.
-Verificalo tu stessa.-
A quel punto però, un’altra voce, più forte, più allegra, più decisa, mi fa voltare di scatto.
Sulla soglia c’è Alessandro, che sorride splendente come un sole, e che con i suoi immensi occhi azzurri fissa un fagottino minuscolo tra le sue braccia. Avvolto da una copertina rosa.
-Oh mio Dio.- sussurrò. Scoppio a piangere, e mi porto le mani alla bocca.
-È una bambina.- mi dice Alessandro, avvicinandosi. –La nostra bambina.-
Mi scosto un po’, e lui si siede sul mio letto.
–Dammela.- sussurro, sorridendo ansiosa. Lui mi sorride, e deposita quel minuscolo esserino tra le mie braccia. Scosto la copertina dal viso della mia bimba e trattengo il fiato.
-È… è meravigliosa.- mormoro tra le lacrime.
Mia figlia ha la pelle leggermente più chiara della mia, e fitti capelli neri come la pece. Dorme, e la boccuccia a forma di cuore si spalanca in uno sbadiglio, disegnando una O perfetta.
-Ha il tuo naso.- dico, appoggiandomi ad Alessandro. Lui mi circonda le spalle con le braccia, e mi bacia la fronte.
-Ma è bellissima come te.- sussurra in risposta. Gli do un lieve bacio sulle labbra e mi stringo più a lui, insieme alla nostra bambina. Mia madre si alza silenziosamente, e sorridendomi, lascia la stanza. Rimaniamo in silenzio per tanto tempo, ad ammirare estasiati nostra figlia, la nostra meravigliosa bambina.
-Ehi, Jamia.- mi sussurra poi Alessandro. –Come la chiamiamo?-
Sorpresa, lo guardo. In nove mesi, non avevo mai pensato ad un nome. Avevo solo pensato a come sarebbe stato bello stringere mio figlio tra le braccia, alla gioia di avere un bambino.
Sorrido, improvvisamente estasiata. –Gioia.- sussurro.
Alessandro mi guarda, spaesato. Annuisco, decisa. –Chiamiamola Gioia.-
Lui allora, prende la bambina in collo, e scrutandola curioso sorride, con quell’espressione raggiante stampata di nuovo sul viso.
-È un nome meraviglioso, amore.- mi dice. –Non avresti potuto trovare un nome migliore per la nostra bambina.-
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La storia è basata su un fatto reale, anche se l'ho un po' "esagerato". La dedico a tutte le persona che pensano di essere arrivate al capolinea, e che vogliono mollare proprio quando tutto sta per finire. Sappiate che c'è sempre una speranza, e che da ogni brutta esperienza ricaviamo qualcosa di buono.
  
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