Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber
Ricorda la storia  |      
Autore: JSmith_    26/05/2013    4 recensioni
Quando stai per perdere una persona te cara, una persona davvero importante, quando sai che quella persona ha solo più poco tempo da vivere con te, tutto cambia.
Cambia il modo in cui fai le cose, in cui le vedi.
Erano circa sei mesi che la mia migliore amica, Judit, era malata di leucemia. Quando me lo disse, stentavo a crederci; insomma, lei, malata di leucemia? No, no, non era possibile. Non se ne poteva andare.
**
«L’altro giorno ho visto un cartello che parlava di un concorso» disse il castano, ad un certo punto.
«Che tipo di concorso?» Chiesi, incuriosita.
«Un concorso di canto. Ti ho sentita cantare e, credimi, sei bravissima» rispose, alzandosi in piedi per guardarmi meglio. «Perché non partecipi?».
Abbassai lo sguardo, fissando le mie scarpe rovinate.
Un concorso di canto? Certo, bell’idea ma… io non avevo mai preso lezioni di canto e, quando lo facevo, era solo per sfogarmi. Niente di più. Non avevo mai aspirato a diventare una cantante, oppure un qualcuno, un giorno.
Quando cantavo era per liberarmi dal tutto dolore che avevo dentro.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Listen.

 
 
 
Quando stai per perdere una persona te cara, una persona davvero importante, quando sai che quella persona ha solo più poco tempo da vivere con te, tutto cambia.
Cambia il modo in cui fai le cose, in cui le vedi.
Erano circa sei mesi che la mia migliore amica, Judit, era malata di leucemia. Quando me lo disse, stentavo a crederci; insomma, lei, malata di leucemia? No, no, non era possibile. Non se ne poteva andare.
I dottori le avevano dato circa otto mesi di vita, massimo dieci. Pochissimo.
Mi ricordo benissimo quando me lo disse: eravamo sotto la nostra quercia –anche se dire che era nostra era un po’ azzardato, ma quando eravamo piccole ci andavamo sempre- per riposarci dopo una lunga pedalata in bici; notai che aveva il fiatone, che era molto affaticata ma non ci feci molto caso siccome non era mai stata un granché negli sport, quando mi prese le mani e mi guardò dritta negli occhi.
Paura.
In quel momento, il mio cuore fece un tuffo. Sentivo che mi stava per dire qualcosa di poco piacevole, ma non avrei mai e poi mai immaginato che lei era malata, mai.
«Jane… io… da circa un mese sono malata di leucemia» sussurrò, fissandomi con i suoi occhi azzurri.
I miei verdi, invece, dopo quella frase, si riempirono di lacrime; il mio cuore perse qualche battito, ero come incantata, non riuscivo a realizzare quello che mi aveva appena detto.
Volevo abbracciarla, stringendola forte, ma sin da quel momento avevo paura di farle male. Ma non potevo di certo stare ferma, così, lentamente, la abbracciai stringendola cercando di non farle del male. Le lacrime iniziarono a scorrere veloci sulle mie guance, andando a bagnare la maglietta di Judit che strinsi, dalla rabbia.
Con tutte le persone del mondo, perché proprio a lei? Alla mia migliore amica, l’unica cosa bella che c’era nella mia vita?
«Ti prego, stringimi forte» sussurrò, accarezzandomi la schiena.
Iniziai a piangere e feci come mi aveva chiesto, anche se avevo sempre paura di farle del male, la strinsi, la strinsi forte, con la paura che da un momento all’altro sarebbe sparita, scomparsa.
Non avevo mai pianto tanto come in quei primi tre giorni.
Li avevo passati chiusa in camera, sotto le coperte, senza rendermi conto che erano giorni sprecati, perché non erano produttivi e non li passavo con Judit. Inoltre, non avevo mangiato niente, se non un piccolo pacchetto di fette biscottate che mi aveva portato Justin. Per lo più, le avevo mangiate con forza.
«E’ permesso?» Bussarono alla porta, svegliandomi.
Sbuffai, tirando fuori la testa dall’ammasso di coperte, girando il viso verso la porta.
«Avanti» Dissi, per poi tornare completamente coperta dalle coperte.
Sentii la porta aprirsi e chiudersi, e poi dei passi, che si dirigevano verso il mio letto. Quella persona ci si sedette sopra, cercando di togliermi le coperte ma, più me le toglievano, più le tiravo.
«E basta, cazzo!» Urlai, sedendomi sul letto, portandomi all’indietro i capelli, per vedere di chi si trattava.
Justin.
Deglutii, stringendo la coperta sotto di me.
«Scusa, non pensavo di averti disturbata» disse, guardandomi. «Volevo solo portarti qualcosa da mangiare, siccome tua mamma mi ha detto che non mangi da giovedì…» Continuò, porgendomi un pacco di fette biscottate. «So che ti piacciono tanto.»
Strinsi ancora di più la coperta, mordendomi il labbro. Mi sentivo particolarmente in soggezione, ero agitata, nervosa e tutto solo perché c’era Justin, il cugino della mia migliore amica, in camera mia, sul mio letto.
«Non ho fame» risposi, sdraiandomi nuovamente.
«Devi pur mangiare qualcosa, avanti» mi incitò, aprendo il pacchetto.
Scossi la testa, girandomi a pancia in giù. Chiusi gli occhi, decisa ad ignorarlo tornando a dormire, ma lui si mise sopra di me ed avvicinò il pezzo della fetta alle mie labbra, credendo che l’avrei mangiata.
«Ho detto che non ho fame!» Esclamai, alterandomi leggermente.
«Ed io ho detto che devi mangiare qualcosa!» Ribatté lui, fissandomi.
Sbuffai, distogliendo lo sguardo dal suo.
Conoscevo Justin sin da quando conoscevo Judit, ovvero da sedici anni e, ogni volta che lui mi guardava, non riuscivo mai a reggere il suo sguardo. Era come se provasse a leggermi dentro, a capire ciò che provavo –ovviamente, in una situazione come quella era più che evidente-, ed io odiavo quando le persone cercavano di capirmi, perché era come se invadessero la mia privacy, il mio spazio.
«Oh, diavolo, va bene» presi il pacchetto, mangiando un pezzo di fetta biscottata, per poi appoggiare il tutto sul comodino e sdraiarmi.
«E’ come se non avessi mangiato niente. Smettila di fare la bambina e mangiane di più, non vorrai mica morire di fame!» Esclamò, prendendo nuovamente il pacchetto, porgendomelo.
Sbuffai, sapendo che non avrei mai vinto contro il canadese, talmente era ostinato. Sarebbe rimasto lì anche tutto il giorno, pur di farmi mangiare. Così, ne presi un altro pezzo, mangiandolo.
«Hai saputo di Judit, vero?» Chiese, quasi sussurrando.
«Sì, secondo te perché starei così, adesso?!» Risposi, guardandolo.
Abbassò lo sguardo, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, fissando il pavimento.
«Già mi manca» sussurrò, chiudendo gli occhi sospirando.
Stetti in silenzio, smisi di mangiare e fissai il muro; anche a me già mancava, perché non riuscivo a pensare ad un futuro senza di lei.
Senza la mia migliore amica.
Mi morsi il labbro, per far tornare indietro le lacrime. Non volevo piangere di nuovo, no. Avevo appena smesso, ma diavolo, era così difficile.
«Ti prego, non piangere» sibilò, alzando lo sguardo.
Posai il pacchetto sul comodino e, senza dire niente, tornai sotto le coperte. No, non avrei pianto. Almeno, non davanti a Justin, mi vergognavo così tanto.
Non mi piaceva piangere davanti alle persone, perché pensavo mi rendesse debole. Anzi, era così.
Ed io non volevo essere debole.
«Io.. io.. vado» lo sentii alzarsi e poi il rumore della porta che si chiudeva, lasciandomi nuovamente sola, immersa nelle coperte con le lacrime agli occhi.
In quei giorni, pensai tanto, troppo.
Pensai a me e Judit da piccole, quando giocavamo a nascondino, oppure con le bambole; pensai a quando picchiavo Justin perché le rompeva i giochi, oppure la spingeva; a quando ci giurammo di essere amiche per sempre, a quando ci regalammo le collane dell’amicizia.
Istintivamente strinsi la collana che portavo al collo, chiudendo gli occhi ed incominciando nuovamente a piangere più forte. Non riuscivo a smettere, nemmeno il pensiero mi sfiorava.
Pensavo che piangere mi avrebbe fatta sentire meglio.
Continuai a pensare, iniziando ad immaginarmi il mio futuro senza di lei: a scuola, chi sarebbe stata la mia vicina di banco? Chi mi avrebbe imprestato i soldi quando, da perfetta sbadata che ero, li dimenticavo? Chi mi avrebbe aiutato a studiare?
Nessuno.
Proprio nessuno, sarei stata sola. Perché senza Judit ero sola.
Chi mi avrebbe asciugato le lacrime quando un ragazzo mi dava buca, oppure mi rifiutava? Oppure quelle lacrime di rabbia? Chi mi avrebbe fatto calmare?
Per qualche strano motivo, mi venne in mente Justin. Non sapevo perché, ma era come se la mia coscienza mi avesse risposto.
Ma era assurdo.
Non volevo che nessuno prendesse il posto di Judit, figuriamoci quell’odioso di Justin –anche se tanto odioso non lo era-, no. Assurdo.
«Jane, c’è qualcuno che vuole vederti» mi avvisò mia madre entrando in camera, senza bussare.
Odiosa.
«Non voglio vedere nessuno!» Esclamai, stringendo le coperte, continuando a piangere.
«Nemmeno me?» Chiese una voce, seguita dal chiudersi della porta e dal rumore dei tacchi sul pavimento.
Judit.
Saltai giù dal letto, rimanendo ad osservarla: era nel suo classico abbigliamento gonna-camicia che, da anni, non voleva mai cambiare; avevo cercato di farle provare dei jeans, ma lei, costantemente, mi diceva che preferiva essere più femminile. Indossava delle ballerine con un po’ di tacco, che si abbinavano agli abiti.
Era perfetta, come sempre.
«Ehi…» la salutai, sussurrando.
Abbassai subito lo sguardo, iniziando a giocare con le mani. Cosa potevo fare? Lo sapevo che lei era lì, davanti a me, che era ancora viva e che avrei dovuto godermi quei mesi rimanenti ma… non ce la facevo.
Non ne avevo la forza.
 


Sei mesi dopo.

 
 
 
«Jane, siamo arrivati» disse Judit, scuotendomi.
Aprii gli occhi, capendo che ero sul treno, segno che stavamo accompagnando Judit in ospedale. Accompagnando, sì, perché c’era anche Justin.
Da quando la mia migliore amica era malata, riuscivamo ad avere pochissimi momenti per me e lei, perché il canadese era troppo impegnato a starci dietro, era preoccupato per la sua cuginetta, aveva paura che con me si facesse male. Credeva che ero irresponsabile.
Odioso.
«Mh…» mugolai, strofinandomi gli occhi.
Scendemmo dal treno ed entrammo in ospedale, sempre con la stessa speranza da mesi: che i medici ci dicessero che Judit sarebbe guarita, che non se ne sarebbe andata.
Ma, anche quella volta, non fu così.
«Ci vediamo dopo» mi disse la ragazza, sorridente prima di entrare nella sala.
Le sorrisi, malinconica e sempre con la stessa paura: che non sarebbe più uscita. Un giorno era rimasta dieci minuti in più dentro, ed io stavo morendo; credevo le fosse accaduto il peggio ma, fortunatamente, non fu così.
Non ancora.
Mi portai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, e le mimai un “a dopo” con le labbra, per poi sedermi su una sedia, con di fronte Justin. Mi stava guardando, cercando di capire che cosa provavo, a cosa pensavo. Anche se poteva essere palese, non stavo pensando solo a Judit.
Ma anche a lui.
Per quanto odioso, a volte, poteva essere, per la mia migliore amica c’è sempre stato. La sorella di Justin era morta a soli due anni, a causa del cancro e non volevo immaginare, provare, come ci si potesse sentire a veder che un’altra persona a cui tieni, che ami, sangue del tuo sangue se ne sta per andare.
Alzai lo sguardo, guardandolo anche io. Negli occhi si leggeva la tristezza, la rabbia e la malinconia: già le mancava. Quando sua sorella morì lui aveva solo otto anni; abbastanza grande per comprendere e provare dolore.
«Perché mi guardi?» Mi chiese, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, leccandosi le labbra.
«Non ti stavo guardando, stavo pensando» risposi, afferrando la borsa e tirando fuori un quaderno ed una penna.
«A cosa?» Chiese ancora, mantenendo la calma mentre io incominciavo ad innervosirmi.
«A niente» dissi, scarabocchiando una pagina.
«Impossibile. Dimmi a cosa stai pensando» insisté, sedendosi di fianco a me.
«Perché ti interessa tanto?» Domandai, appoggiando il quaderno sulle gambe, girando il viso per guardarlo.
«Perché mi stavi fissando e, penso, che tu stessi pensando a me» rispose, facendomi un sorriso.
Feci una smorfia dinanzi alla sua espressione, tornando a disegnare cose insensate sul mio quaderno, pur di non rispondere perché… be’, mi aveva beccata.
E non capivo come faceva.
Non era la prima volta che era capitata una cosa così, anzi. Ogni volta che mi fermavo a pensare, fissando qualcosa, Justin riusciva sempre ad indovinare a cosa pensassi, manco leggesse nel pensiero; era solo un bravo osservatore, solo che il suo sguardo, soprattutto, negli ultimi tempi, mi sembrava indecifrabile o, almeno, sempre lo stesso: triste, malinconico e pieno di rabbia.
«Beccata» affermò, facendo una piccola risata.
Mi morsi il labbro, stringendo la penna. Iniziai ad innervosirmi; non sopportavo quando riusciva a capirmi, a leggermi. Ero una persona solitaria, che odiava aprirsi con gli altri –infatti, non so come Judit sia riuscita a conquistarmi. Lei è solare, a volte assillante, un po’ come suo cugino; l’unica cosa, era che non capiva le cose con uno sguardo, ma gliele dovevi spiegare, soprattutto nell’ultimo periodo, infatti mi stupivo sempre quando mi fermavo a pensare a quanto tempo io e lei eravamo amiche-, perciò mi arrabbiavo molto spesso con Justin.
«Be’, anche se fosse?» Domandai, voltandomi a guardarlo.
«Dimmi a cosa pensavi su di me» rispose, mettendo un braccio intorno alla mia spalla, continuando a sorridere.
Stupido.
Non capivo quei suoi atteggiamenti; era così confidenziale, però non si era mai spinto oltre alla stretta di mano, oppure al finto abbraccio che magari ci dovevamo dare davanti ai suoi, o miei, genitori, no. Non capivo come mai, ultimamente, si apriva così tanto.
E se avesse paura di rimanere solo, una volta morta Judit?
Bingo.
«Perché dovrei?» Chiesi, liberandomi dalla sua presa, riprendendo a disegnare.
«Perché riguarda me, quindi mi interessa» disse, tornando serio, osservandomi.
Gli rivolsi una veloce occhiata, per poi tornare con gli occhi a quello che stavo facendo, sperando che si alzasse e se ne andasse, in modo di evitare quella discussione.
Invece no.
Rimase lì, a fissarmi, aspettando una risposta.
«Jane, parla» mi incitò, strappandomi la penna dalle mani.
«Ehi!» Protestai, allungandomi per riprenderla, ma più mi allungavo, più si allontanava.  «Eddai» dissi, cercando di riprenderla.
Nell’alzarmi, il quaderno, cadde a terra facendo liberare tutti i fogli pizzicati al suo interno; si erano tutti sparsi per il corridoio, in particolare uno.
Quello.
«Guarda che cos’hai fatto!» Esclamai, iniziando a recuperare il tutto.
.
«Vuoi spiegare?» Chiese nuovamente, raccogliendo quel foglio.
Quel foglio in cui avevo scritto: “Dio, per favore, ascoltami: non portare via Judit, non fare di nuovo soffrire Justin”, calcando sulla parola ‘ascoltami’. Quello era solo frutto di altro dolore, delle prime notti passate insonne a pensare; a pensare a quanto sarebbe cambiato tutto quello, a quanto Justin avrebbe di nuovo sofferto e a quanto io avrei sofferto.
Ogni sera, mi inginocchiavo davanti al letto, incrociavo le mani e guardavo verso il cielo, iniziando a pregare. Non ero mai andata a messa, non avevo fatto la cresima, ma credevo in Dio, perché credevo che qualcuno lassù c’era, ed io lo chiamavo sempre, sperando che non portasse via Judit.
Sperando che non ci facesse soffrire.
E, ogni sera, speravo che mi ascoltasse; speravo che sentisse le mie preghiere, che facesse qualcosa per lei, speravo e non perdevo mai la speranza.
«E… e q-questo?» Balbettò, distaccando gli occhi dal foglio, puntandoli verso di me.
Stessi in silenzio, continuando a rimettere gli altri fogli nel quaderno. Non sapevo che cosa rispondere: dirgli la verità, oppure fare finta di niente?
«Potresti ridarmelo, per favore?» Domandai, indicando il foglio.
Lui scosse la testa, abbassando lo sguardo, fissando nuovamente il foglio; lo teneva stretto, e notai che si stava formando un piccolo sorriso sulle sue labbra, alla lettura di quelle parole. Però, nonostante quello, mi sentivo in soggezione, era come se mi stesse leggendo, se mi stesse guardando.
Odiavo anche quando le persone guardavano i miei disegni, quello che scrivevo o, perfino, quando mi sentivano cantare.
«Te lo ridò solo se mi dici il perché di questo disegno, e a cosa stavi pensando prima» rispose, sedendosi sulla sedia «altrimenti, lo terrò io».
Finii di raccogliere i fogli, per poi sedermi accanto a lui. Basta mentire, era l’ora di dire la verità, tanto l’avrebbe capita comunque.
«Il motivo per cui ho fatto quel disegno è che penso che per quanto tu, a volte, possa essere odioso, non voglio che soffra, perché so già che hai perso tua sorella, e posso immaginare quanto tu possa soffrire per Judit…» Dissi, in modo confuso a causa dell’agitazione.
Mi stava guardando, cercando di capire se stessi mentendo o meno; come sempre, il suo sguardo, mi metteva in soggezione. Mi morsi il labbro ed abbassai lo sguardo, nervosa.
Non sapevo che cosa dire o fare, Justin non voleva rispondere. Iniziai a giocare con le mie mani, quando sentii una forte stretta intorno al mio corpo; inizialmente, non capii che cos’era ma, subito dopo, mi resi conto che erano due braccia, le braccia di Justin, e che lui mi stava abbracciando.
«G-grazie» sussurrò, accarezzandomi la schiena.
Potei giurare di aver sentito una goccia cadere sul mio collo, probabilmente proveniente dalle lacrime di Justin, ma non lo seppi con certezza perché fui troppo impegnata ad abbracciarlo, a stringerlo, a fargli capire che anche io avevo molta paura di rimanere senza Judit.
Da sola.
«I-io ci sarò Jane, lo prometto» disse, staccandosi lentamente.
E, anche in quel momento, potei giurare che, nel risedersi composto sulla sedia, si asciugò le lacrime con le mani, tirando su col naso. Ero sicura di tutto quello, ma stentavo a crederci.
Avevo sempre visto Justin come quel ragazzo forte che, anche nei momenti difficili, non si scomponeva mai, rimaneva serio, impassibile, non lasciava trapelare le sue emozioni. Ed io lo invidiavo, perché lui, con me, riusciva sempre a leggermi, a capire tutto.
Avrei dato qualsiasi cosa pur di sapere, in qualsiasi momento, che cosa pensava.
Ma, solo in quel momento, quando vidi le lacrime correre veloci sulle sue guance, era palese: aveva paura.
«Hai paura di rimanere solo, vero?» Domandai, avvicinandomi a lui.
Quella volta fu diversa, non fu come tutte le altre; solitamente, mi avrebbe riso in faccia, avrebbe fatto lo sbruffone e si sarebbe nascosto dietro la sua maschera da idiota, pur di non far capire che cosa provava, pur di non ammettere che sì, aveva paura.
Annuì, mordendosi il labbro. Mi avvicinai a lui e lo strinsi nuovamente, sussurrandogli cose dolci all’orecchio. Gli accarezzai i capelli e la guancia, cercando di farlo calmare, cercando di fargli capire che ci sarei stata.
A parole era tutto più difficile.
«Jus, io ci sarò. Lo prometto» sussurrai, continuando a coccolarlo.
I minuti passavano, e noi eravamo sempre lì, nella stessa posizione, nella stessa situazione. Nessuno dei due voleva perdere Judit, e nessuno dei due voleva soffrire. Ma, prima o poi, avremmo dovuto affrontare quel problema, prima o poi avremmo visto Judit morire, sotto i nostri occhi, senza che noi potessimo fare niente.
«L’altro giorno ho visto un cartello che parlava di un concorso» disse il castano, ad un certo punto.
«Che tipo di concorso?» Chiesi, incuriosita.
«Un concorso di canto. Ti ho sentita cantare e, credimi, sei bravissima» rispose, alzandosi in piedi per guardarmi meglio. «Perché non partecipi?».
Abbassai lo sguardo, fissando le mie scarpe rovinate.
Un concorso di canto? Certo, bell’idea ma… io non avevo mai preso lezioni di canto e, quando lo facevo, era solo per sfogarmi. Niente di più. Non avevo mai aspirato a diventare una cantante, oppure un qualcuno, un giorno.
Quando cantavo era per liberarmi dal tutto dolore che avevo dentro.
«Quando sarebbe?» Domandai, alzando lo sguardo per fissarlo.
Si era posizionato davanti alla finestra che dava alla sala in cui, Judit, stava facendo la visita, anche se guardare dentro era impossibile dato che le tapparelle erano abbassate.
«Fra un mese» rispose serio, incrociando le mani dietro la sua schiena.
Appoggiai ordinatamente le mie cose sulla sedia, avvicinandomi a lui. Guardai la finestra, cercando di intravedere dentro, qualcosa. Ma tutto quello che vedevo era solo il dottore che continuava a muovere le dita sulla tastiera, velocemente. Quando cercai, invece, di guardare Judit, il cuore prese a battermi all’impazzata; avevo un cattivo, orribile presentimento: qualcosa era andato male.
Mi morsi il labbro, ignorando la mia conversazione con Justin. Se Judit mi avesse abbandonata già così presto, non avrei proprio saputo che fare.
Non ero ancora pronta a rimanere sola.
«Ehi, tutto bene?» Mi chiese Justin, girando lentamente il viso verso di me.
Ecco, mi aveva di nuovo capita.
«No» risposi semplicemente, graffiandomi le mani «non va affatto bene».
«Che succede?» Chiese ancora, a bassa voce, probabilmente per non farsi sentire dalle persone che stavano passando.
Scossi la testa, mordendomi nervosamente il labbro. Il mio sguardo continuava a saettare da Justin alla sala, dalla sala a Justin, come se non volessi per nulla al mondo perdermi qualche dettaglio, qualche particolare. Iniziai ad agitarmi quando il dottore si alzò e sospirò, come se ci fosse qualcosa che non andava.
Ed io me lo sentivo: era così.
«Jane, calmati: dimmi che succede» disse il ragazzo, afferrandomi per le spalle.
Inizialmente, non glielo volli dire; era già tanto che non avevo negato alla sua domanda precedente, non gli volevo dire tutto. Stavamo andando troppo oltre: gli abbracci, le promesse, le coccole.
Non mi riconoscevo più.
Mi morsi violentemente il labbro, sbattendo più volte le palpebre. Iniziavo ad impazzire, la paura si stava impadronendo di me, l’agitazione si stava divertendo a farmi andare fuori di testa, tanto ché sentii gli occhi pizzicarmi, segno che le lacrime stavano facendo capolineo.
«Jane, vuoi dirmi che cazzo succede?» Domandò nuovamente Justin, stringendo la presa.
Mi coprii il viso con le mani, cercando di farmi forza.
Se Judit mi avesse davvero abbandonata così presto, mi sarei arresa, a tutto e a tutti. Non avrei più avuto la forza di andare avanti. Sin da piccola, mi son sempre detta: “sei nata pronta Jane, ce la puoi fare, puoi fare tutto”, ma quella volta non fu così.
«Jane» mi chiamò nuovamente il canadese, stringendomi in un abbraccio.
A quel punto, scoppiai.
«Ho tanta paura, Justin. Paura di rimanere sola, paura di non farcela, ho paura di perdere Judit» sussurrai, stringendo la sua maglietta. «Ed ora ho un cattivo presentimento; il mio cuore sta battendo a mille, ho un peso in mezzo al petto. Sto impazzendo, non capisco più nulla» continuai, nascondendo il viso nel suo petto «non voglio che me la portino via, non ora».
Il ragazzo mi strinse ancora più forte a sé, mentre io continuavo a piangere.
Odiavo farmi vedere debole davanti agli altri, soprattutto davanti a Justin che aveva sempre fatto lo sbruffone, il ‘so tutti io’ con me, ma era ora di mettere da parte l’orgoglio e lasciarsi andare.
Lasciarsi curarele ferite.
«Sarebbe inutile dirti “andrà tutto bene”, perché nemmeno io ci credo» disse, accarezzandomi i capelli «ma una cosa la so: non sarai sola» continuò, alzandomi il viso.
«Sì, invece. La sai la mia situazione, sai che i miei genitori non mi considerano molto, sai tutto, è inutile negarlo» risposi, liberandomi dalla sua presa. «E sai anche che senza quella ragazza, che ora è lì dentro, sono persa. Quindi sì: sarò sola».
«No» mi interruppe, prendendomi una mano «non sarai sola, perché ci sarò io» disse, sorprendendomi.
Mi immobilizzai all’istante, trattenendo il respiro. A stento riuscivo a muovermi, talmente mi aveva sorpresa. Non riuscivo a dire nemmeno una sillaba una parola; semplicemente, stavo ferma, immobile a fissare il vuoto.
«Jane, ti senti bene?» Chiese il ragazzo, facendo un passo avanti.
Annuii lentamente, sedendomi su una sedia. Chiusi gli occhi, facendo un respiro. Perché mi stava accadendo tutto quello? Insomma, era solo una frase, una promessa… appunto, una promessa.
Più di una volta, il mio ex, Jason, mi aveva promesso cose che, alla fine, non aveva mai fatto veramente.
Mi aveva promesso che mi sarebbe sempre stato vicino, ma appena scoprì che Judit era malata, mi abbandonò; mi aveva promesso che non mi avrebbe mai più obbligatoa fare qualcosa contro la mia volontà –siccome, più di una volta, mi aveva costretta a fare sesso oppure a fare uso di sostanze stupefacenti, come canne e cocaina-, ma anche quella promessa fu infranta; mi aveva promesso che non si sarebbe più ubriacato e, di conseguenza, non mi avrebbe più tradito, ma non fu così; mi promise un sacco di cose a cui io, come una povera illusa, ci credetti.
Non ero una stupida, ero semplicemente innamorata.
E avevo paura, dinanzi a quella promessa. Avevo paura che anche Justin si sarebbe comportato come lui, che non mi sarebbe stato vicino, che se ne sarebbe andato.
«Oh, eccovi qui» una voce mi riportò alla realtà, distogliendomi dai miei pensieri.
Alzai lo sguardo e vidi il dottore che si avvicinò a noi, con la cartella della mia migliore amica in mano. Per prima cosa, guardai subito il suo viso, cercando di capire se c’era, davvero, qualcosa che non andava: era serio, non tralasciava nessuna emozione; i suoi occhi erano fermi sul foglio, ed il tono di voce con qui ci aveva chiamato era… preoccupato.
«Be’?» Dissi, impaziente.
«Eh… ragazzi» fece un sospiro, mettendo la cartellina sotto il braccio sinistro «purtroppo, la situazione è peggiorata» continuò, guardando sia me che il ragazzo.
Smisi di respirare, rimanendo a bocca aperta. Successivamente, deglutii, guardando il medico, per incitarlo a continuare.
«Mi dispiace ma siccome la situazione è peggiorata, non le rimarrà più di un mese di vita» concluse, rientrando nella sala.
In quell’istante, i miei occhi si riempirono di lacrime che, presto, iniziarono a scendere veloci. Non ci potevo credere no, non poteva essere vero. La mia Judit, no. No. No!
Non riuscivo a realizzare quello che ci aveva appena detto, com’era possibile che era peggiorata così, da un giorno all’altro?
Girai il viso verso Justin che stava impassibile a fissare il vuoto, con un espressione seria in viso. Non riuscivo, come al solito, decifrare come si sentisse, ma lo potevo immaginare: perso, ferito, arrabbiato.
Come me.
Forse, per una volta, io e Justin eravamo in sintonia, provavamo le stesse emozioni, le stesse cose; per una volta, entrambi, avevamo qualcosa in comune, anche se era orribile ma, almeno, lui poteva capire come mi sentivo io, e viceversa.
Sospirai, passandomi una mano fra i capelli.
Volevo dire qualcosa, ma avevo paura di dire qualcosa di sbagliato; volevo provare ad aiutarlo, ma sarebbe stato inutile se prima non aiutavo me stessa; volevo spezzare quel silenzio, ma non c’era niente che potessi fare se non abbracciarlo, stringerlo e consolarlo.
Così feci. Mi avvicinai a lui e, molto lentamente, lo abbracciai. Lo abbracciai, come non avevo mai abbracciato qualcuno in vita mia; lo abbracciai, lo strinsi, come non avevo mai pensato di fare, soprattutto con lui.
Lo abbracciai per non farlo sentire perso.
«Anche tu non sarai solo, Justin. Perché ci sarò io con te».
 
 
 

Tre settimane dopo.

 
 
 
Venni svegliata da un fracasso infernale, che equivaleva al rumore delle pentole. Sbadigliai, alzandomi con i gomiti sul letto, aprendo piano gli occhi: il sole mi accarezzava le guance, segno che qualcuno era entrato in camera mia ed aveva aperto le finestre e, fortunatamente, mi aveva lasciato dormire.
Mi strofinai gli occhi, alzandomi, quando mi ricordai che era l’11 maggio, ovvero: il mio compleanno. Sorrisi, stiracchiandomi.
L’unica cosa bella del mio compleanno era che, come ogni anno, tutti mi trattavano come una principessa, potevo fare quel che volevo, mi facevano i regali e, soprattutto, mi organizzavano una festa.
Programma perfetto.  
Con il sorriso stampato in volto scesi le scale, recandomi al piano di sotto. Appena misi piede in cucina, tutti i presenti –che erano i miei genitori, mio fratello Greg, Judit e… Justin- urlarono un “Buon diciassettesimo compleanno!”.
«Grazie a tutti» dissi, continuando a sorridere.
Judit si avvicinò a me, abbracciandomi. La strinsi piano, era diventata più debole; indossava un vestito a fiori e dei sandali, in testa aveva una bandana perché aveva perso tutti i capelli, non ne era rimasto nemmeno uno.
Mi si strinse il cuore al pensiero che non le potevo più fare le trecce, quelle adorate trecce.
«Auguri, Jane» mi sussurrò, continuando a stringermi.
Sorrisi, con gli occhi lucidi.
Quello era l’ultimo compleanno che avrei passato con lei, non ci sarebbe stata nemmeno alla festa dei diciotto anni. Quei famosi ed importanti diciotto anni.
«Grazie, piccola» dissi, continuando a stringerla.
«Questo è per te» mi disse, porgendomi una piccola scatola.
Sorrisi, prendendola per poi aprila: conteneva un medaglione che si apriva, il quale all’interno aveva la foto mia e di Judit e, di fianco, la scritta: “Sarò per sempre con te, sarò il tuo angelo”. Scoppiai a piangere, buttandomi su di lei.
La strinsi, la strinsi più forte che mai –stando, ovviamente, attenta a non farle troppo male-, come se in quel momento stesse per scomparire, mentre le lacrime correvano veloci sulle mie guance.
I dottori avevano detto un mese massimo, ma erano passate tre settimane e lei era ancora lì, forte e viva. Perché la mia piccola Judit era forte, lo era sempre stata.
In tutti quei mesi mi sono sempre chiesta se avesse paura di morire, non trovando una risposta concreta. Avevo provato a mettermi nei suoi panni, ad immaginarmi io, malata di leucemia, con pochi mesi di vita, ma non riuscivo mai, veramente, a trovare una risposta… giusta.
E non avevo nemmeno il coraggio di chiederglielo.
Il perché, di preciso, non lo sapevo, sapevo solo che se lo avrei fatto, magari, l’avrei spaventata di più di quanto lo era già, ed io non lo avrei sopportato; se glielo avrei chiesto, avrei versato molte altre lacrime amare, forse le ultime.
«È-è bellissima» sussurrai, asciugandomi le lacrime. «Me la metti?» Chiesi, girandomi di spalle.
Annuì, afferrando le estremità, per poi agganciarla intorno al mio collo. Una volta che mi disse “ecco fatto”, aprii di nuovo quel medaglione, osservando la nostra foto.
Ritraeva me e lei l’anno prima, ad un parco; eravamo sedute su una panchina mentre ci guardavamo sorridenti, almeno, io ridevo per una faccia buffa che aveva appena fatto. I suoi capelli erano raccolti in una treccia lunga e rossa, mentre i suoi occhi erano felici e vivaci, tutto era diverso, più felice.
Dopo aver guardato quella foto, mi immaginai me stessa il giorno, la settimana, il mese o l’anno dopo a quello stesso parco, a quella stessa panchina, seduta lì, nello stesso posto; mi immaginavo tutto in bianco e nero, con gli alberi spogli e l’infelicità dipinta sulla mia faccia ed il cuore a pezzi.
Mi immaginavo io, lì, da sola.
«La terrò sempre con me, lo prometto» dissi, abbracciandola un ultima volta, per poi andare a ringraziare i miei genitori.
«Questo è per te» mi dissero, consegnandomi la busta.
Sorrisi, aprendola. Dentro c’era un foglio piegate, il quale, subito dopo, aprii, leggendo attentamente.
Era l’iscrizione al concorso che mi aveva detto Justin.
Gliel’avevo accennata qualche settimana prima, dicendo che mi sarebbe piaciuto partecipare ma non avevo i soldi, siccome l’iscrizione era di 75 dollari, ed io, purtroppo, non li avevo. Ma loro sì. E quello che il mio compleanno.
«Oddio, grazie, grazie, grazie» urlai, saltando ed abbracciandoli.
«Non devi ringraziare noi, ma Justin: lui ci ha convinto» dissero, indicando il ragazzo.
Mi fermai, girandomi a guardarlo: era fermo vicino alla finestra, in disparte. Gli sorrisi, avvicinandomi a lui. Inizialmente, volevo abbracciarlo, ma una sensazione di vergogna mi assalì, così mi limitai a sorridergli ancora, sussurrando un “grazie”. Lui disse un “prego” e mi sorrise, guardandomi tornare vicino alla cugina, la quale presi per mano e portai in camera, per cambiarmi e prepararmi alla festa.
 
 
 
La sera dello spettacolo, quattro giorni dopo.
 
 
 
«Sono Janelle Elizabeth Collins» dissi al buttafuori che, controllando la lista, sorrise e mi fece entrare con i miei genitori.
Purtroppo, Judit aveva avuto un calo, quindi Justin preferì portarla all’ospedale e rimanere lì con lei, costringendomi ad andare allo spettacolo, siccome non ci volevo andare e volevo rimanere accanto a lei.
Ma ormai ero lì, dietro le quinte. Mi avevano dato il numero sei su venti partecipanti, eravamo in troppi e tutti, erano molto più bravi di me. Me lo sentivo. Io, dopotutto, non avevo mai preso lezioni di canto, però, come mi diceva mio papà –che, sin dall’età di otto anni, suonava vari strumenti musicali- ero intonata, ed avrei fatto bella figura.
Quella sera, lo stesso magone che avevo il giorno in cui ero in ospedale con Justin, si era ripresentato, ed era lì, in mezzo al petto. Mi metteva tanta agitazione, ansia, paura; sia di sbagliare che per Judit.
E, quel brutto presentimento, fece nuovamente capolinea.
Deglutii, abbassando lo sguardo. Un addetto mi venne a consegnare il microfono quando, il numero cinque, salì sul palco segno che pochi minuti e sarebbe toccato a me.
Ansia.
Continuai a stringerlo, a rigirarlo fra le mani, preoccupata per Judit. Se non ci fossero stati gli addetti allo staff alle mie calcagna per mettermi a posto gli auricolari, collegare bene il microfono e se non ci fossero stati lì, fra il pubblico, i miei genitori, me ne sarei andata a gambe levate.
Sarei andata da lei, che aveva bisogno di me.
Ancora non riuscivo a capacitarmi con quale forza, con quale coraggio ero andata lì, sapendo che la mia migliore amica malata di leucemia era in ospedale, per colpa di un calo che poteva mettere fine a tutto. Forse, erano state le sue parole: “Ti prego, Jane. Vai e canta, fallo per me. Anche se non sarò lì, fra il pubblico, sarò con te nel cuore. Chiuderò gli occhi e mi sembrerà di sentire le tue parole qui, come se tu fossi di fianco a me. Ti prego, vai”, seguite da un espressione poco chiara di Justin, con gli occhi lucidi.
Sapevo solo che non avevo più esitato, mi ero sistemata il cappotto ed ero uscita dall’ospedale, salendo in macchina e dirigendomi nel locale.
«Grazie, Taylor. Ed ora, la numero sei: Janelle Collins!» Il presentatore annunciò il mio nome sul palco, facendomi agitare nuovamente.
Sospirai, salendo le scalette che portavano al palco. Appena ci misi piede, mi sentii molto in soggezione. Cercavo di riconoscere le facce dei miei genitori fra il pubblico, ma vedevo solo buio, nero.
«Tesoro, vuoi dire qualcosa prima di iniziare?» Mi disse il presentatore, avvicinando il microfono alle mie labbra.
Annuii, schiarendomi la voce.
«Volevo solo dire che, dedico questa canzone a tutte quelle persone che hanno bisogno di essere ascoltate, da qualcuno. Quel qualcuno potrebbe essere Dio, potrebbe essere l’amico, il genitore, il cugino. Ma che hanno bisogno di essere ascoltate» dissi, facendo un passo indietro, segno di aver finito.
«Oh, che presentazione» commentò il presentatore, sorridendo. «Be’, non perdiamo altro tempo e… via!» Disse, uscendo da dietro le quinte.
Iniziai a cantare, guardando in alto.
Le altre persone avrebbero voluto essere ascoltate da qualcuno, ma io volevo essere ascoltata da Dio. Volevo dirgli di non portarmi via Judit, anche se era impossibile, così provai a dirgli di ascoltarmi, di trattare la mia migliore amica bene in Paradiso, o in qualsiasi altro posto andasse.
 
 
 

Listen,
I am alone at a crossroads
I'm not at home, in my own home
And I tried and tried
To say whats on my mind
You should have known
Oh,
Now I'm done believing you
You don't know what I'm feeling
I'm more than what, you made of me
I followed the voice
you gave to me
But now I gotta find, my own.

 
 


«LISTEN!» Nel momento dell’assolo più importante della canzone, scoppiai a piangere, ma continuai lo stesso a cantare.
Scoppiai a piangere, consapevole che Judit mi stava abbandonando.
Scoppiai a piangere, consapevole che non avrei più avuto una migliore amica.
Scoppiai a piangere, consapevole che i pomeriggi li avrei passati da sola.
Scoppiai a piangere, consapevole che non avrei più avuto una vicina di banco o una persona con cui passare la ricreazione.
Scoppiai a piangere, consapevole che la mia vita non sarebbe più stata la stessa, sapendo che quella sera, Judit mi stava abbandonando.
Per sempre.
Una volta finita la canzone, tutti si alzarono a battermi le mani, mentre le lacrime correvano ancora più velocemente sulle mie guance. Non volli dire niente né al presentatore, né al pubblico, corsi giù dal palco, andando a chiedere ai miei genitori di portarmi da lei.
Acconsentirono e, velocemente, ci mettemmo in macchina, diretti verso l’ospedale. Durante tutto il tragitto, mia mamma mi stringeva, consolandomi, mentre io continuando a piangere. Non riuscivo ad essere forte, a rimanere forte, sapendo che la cosa, forse, più importante della mia vita mi stava abbandonando.
Lasciandomi sola.
Mio padre fermò la macchina davanti all’entrata, permettendomi di entrare nell’ospedale. Non chiesi niente a nessuno, corsi direttamente nella sua camera, la numero sei del terzo piano.
Aprii la porta, precipitandomi vicino al lettino. Fuori c’erano i genitori di Judit che piangevano, facendomi capire tutto; mi precipitai vicino al lettino, dove la ragazza era ferma, fredda e molto pallida con gli occhi chiusi. Justin, seduto nella sedia di fianco le stringeva la mano, piangendo.
In quel momento urlai, scoppiando nuovamente a piangere più forte, quasi mi stessero facendo del male.
No, me lo avevano già fatto.
Mi accasciai contro il muro, stringendomi le ginocchia, continuando a piangere. Il ragazzo mi corse vicino, abbracciandomi.
Lo strinsi, lo strinsi fortissimo. Piangemmo insieme, condividemmo il dolore insieme, l’uno nelle braccia dell’altro.
«Lei se n’è andata Justin, ci ha lasciato soli» dissi, stringendo la sua maglietta.
Non rispose, si limitò a stringermi più forte. Il mio cuore batteva all’impazzata, non riuscivo a fare nient’altro che piangere.
Sentii il rumore dei tacchi di mia madre sul pavimento. Alzai lo sguardo, giusto in tempo per vederla entrare in stanza con gli occhi lucidi, per poi guardare me e Justin a terra, mentre piangevamo.
Lei era morta, e ci aveva abbandonato. Per sempre.
 
 
 

Cinque mesi dopo.

 
 
 
«Sicura?» Mi chiese il canadese, guardandomi.
Chiusi gli occhi, sospirando. Strinsi il medaglione, stringendo la sua mano mentre entrammo nel parco. Ci dirigemmo verso la panchina in cui avevamo scattato la foto io e Judit, quella presente nel medaglione.
Il ragazzo si sedette sulla panchina, invitandomi a fare lo stesso, nel posto in cui ero seduta esattamente due anni prima.
Era nuvoloso in cielo, gli alberi erano spogli ed il freddo d’ottobre gelava i nostri cuori, anche se il mio era già gelato da un bel po’.
Stavo in silenzio, fissando il terreno.
A scuola tutti seppero della morte di Judit, e solo pochi, stranamente, vennero a fare le condoglianze a me e Justin. Da quando era morta la mia migliore amica, però il mio rapporto con Justin si era intensificato molto, tanto che ci eravamo scambiati un bacio, ma niente di più.
«Lo so che può sembrare strano, ma ecco il tuo regalo di compleanno» mi disse, dandomi una scatola di piccole dimensioni.
«Sei in ritardo di cinque mesi, stupido canadese» gli feci notare, togliendo il fiocco.
Era un anello. Un piccolo anello d’argento, semplice, niente di che.
«Guarda all’interno» disse, alzando le sopracciglia.
Gli lanciai una piccola occhiata, prima di fare come mi aveva detto; all’interno, c’era incisa una scritta: “Non sarai mai sola, io sarò sempre con te”.
Mi buttai addosso al ragazzo, stringendolo forte.
«Grazie, è bellissimo» dissi, stringendolo.
«L’unica cosa bella qui, sei tu» rispose, dandomi un bacio a stampo.
 
 
 

Con tutte le persone presenti sulla faccia della Terra, non avrei mai immaginato di tornare in quel posto con lui. Mai.


 



 

Ciao a tutte!
Cercherò di non dilungarmi molto, dirò lo stretto necessario.
Questa è la prima storia che posto nella sezione Justin Bieber, le altre sono tutte sui One Direction, quindi saluto le beliebers e chi è frequentemente in questa sezione. Poi, vorrei precisare che io non sono esperta di leucemia, quindi se trovate qualche errore/fatto strano scusatemi; inoltre, non volevo offendere nessuno con questa storia, anche se non mi pare che scrivendola abbia offeso qualcuno, ma non si sa mai. Per finire, scusate se ci sono errori grammaticali/ortografici, evidentemente non ho riletto con attenzione; se, in una recensione, me li fate notare, sarò felice di correggerli.
Ringrazio Cristina (Harmony394 su efp), per la pazienza nelle mie frequenti domande di aiuto, lol. E poi ringrazio chiunque abbia letto. 
Be', mi lascereste qualche recensione? Ne sarei felice. Passate anche nelle mie altre storie presenti! I contatti li trovare nella biografia.
Au revoir!


JSmith_



 

   
 
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber / Vai alla pagina dell'autore: JSmith_