Cap.
II. Bianco come la neve
Le campane del monastero avevano suonato a morto per tutto il
giorno come aveva ordinato. E per tutto il giorno le avevano accompagnate,
alternandosi, quelle delle chiese di San Pietroburgo.
Rinchiuso nella sua stanza, Yuri Ivanov stava finendo di
preparare la valigia: quella sera stessa sarebbe partito con il primo volo per
il Giappone.
Kei…ancora non riusciva a crederci. Si erano sentiti solo pochi
giorni prima per scambiarsi gli auguri di Natale…
“-Yuri…Yuri…apri, ti prego!
Il capitano della Neo Borg socchiuse gli occhi, gettandoli sulla
sveglia: le 5.00! Nemmeno il sole in Russia si svegliava a quell’ora: perché
avrebbe dovuto farlo lui?!
Sperava solo che Boris avesse un valido motivo per giustificare
quel risveglio… Si alzò, avviandosi a passi incerti verso la porta, la voce
ancora impastata di sonno.
-Arrivo, Boris…- Cercò a tentoni la maniglia, continuando a
sbadigliare. Ma il volto che si trovò di fronte fece sparire in lui ogni
traccia di sonnolenza: gli occhi gonfi e rossi, lo sguardo stravolto. Cos’era
successo di così grave?
-Yuri…è morto…- Il blader non capiva. Prendendolo per le spalle,
lo costrinse a guardarlo in faccia e a dargli una spiegazione.
-Chi, Boris? Chi è morto?
Per qualche inspiegabile ragione, l’ansia aveva cominciato a
farsi strada. Temeva la risposta dell’amico, la temeva come non aveva mai
temuto nient’altro nella sua vita.
-Kei…
Non fu più di un sussurro, ma a Yuri parve una scossa. Staccò le
mani da Boris, lasciandosi poi cadere sfatto sul letto. Non era possibile…si
erano sentiti da poco…come poteva essere morto?
-Come…
-Un’auto…l’ha investito…ieri sera…- balbettò l’altro tra i
singhiozzi.
-Fai suonare le campane. Voglio sentirle per tutto il giorno.
Boris uscì, sia per eseguire l’ordine che per permettergli di
sfogare il suo dolore.”
A diciotto ore di distanza non aveva ancora esaurito le sue
lacrime. Aveva prenotato il volo, fatto la valigia e telefonato a Takao: una
voce rotta dal pianto gli aveva risposto all’altro capo del filo, una voce che
non pareva nemmeno quella del campione del mondo. La morte di Kei aveva
appianato tutto: qualsiasi contrasto o divergenza ci potessero essere stati,
scomparvero in quei pochi minuti di conversazione.
Il giovane Hiwatari non era stato un modello di onestà, simpatia
o solarità, ma era stato il suo compagno: insieme a lui avevano scalato le
classifiche dei tornei russi, insieme a lui aveva partecipato al campionato.
Non meritava una fine del genere.
Sentendo bussare alla porta, si asciugò gli occhi con la manica
della giacca.
-Avanti.
-Yuri…- Anche Sergey era distrutto: lui e il giapponese non
erano mai riusciti ad andare d’accordo, ma quella notizia lo aveva sconvolto.
–Io, Boris ed Ivan…vorremmo venire con te…Kei era anche…uno di noi.
-Va bene. Siete già pronti?
-Si.
-Allora andiamo.
Quando aprirono le porte, si trovarono ai piedi dei mazzi di
fiori: ancora gigli, rose, crisantemi. Tutti bianchi come neve. I ragazzi ne
avevano portati dentro a decine durante tutto il giorno: era l’ultimo saluto
della Russia al suo campione.
-Mi scusi, signor Ivanov.
Yuri si volse verso un ragazzetto, avvolto in un cappotto
enorme.
-Le volevo chiedere se poteva portare anche le nostre
condoglianze.
Un sorriso triste comparve sulle labbra del blader, che abbassò
lo sguardo accarezzando la testa del bambino.
-Lo farò, non preoccuparti. Non dimenticherò il lutto del mio
paese.
Il piccolo accennò un saluto, avviandosi poi verso casa. Yuri lo
seguì con gli occhi, finché non scomparve nella nebbia.
Per molti quello non sarebbe stato un felice Natale.