Prima del suo fortissimo, quasi nauseante, profumo di rose, molto prima delle sue mani prive di scrupoli e dei suoi pensieri neri, molto prima delle sue labbra avide e disilluse, e all’origine di tutto questo, ci fu un contatto casuale, quasi banale, ma sufficiente a spalancare un abisso nel mondo ovattato di carte telate e pastelli in cui l’esistenza ingiustificata di Naminè si era consumata fino a quel momento. E non fu la trama sottile, setosa della sua pelle, ma la consistenza plastica dei muscoli tesi sotto di essa, l’intreccio perfetto di fibre organiche e prontezza, potere, tanto vivo e reale che Naminè non ebbe neanche il tempo di riflettere su quanto approssimativa e opinabile fosse la realtà dell’esistenza di lui. Nel suo mondo bidimensionale di linee curve, macchie di colore e superfici sterminate e immacolate, la solidità del braccio di Marluxia, la determinazione e il livore, la rabbia e il possesso che lo percorrevano, erano una novità assoluta, affascinante e terribile. La sua mano piccola, quasi evanescente, si trattene per un tempo appena superiore a quello della casualità sull’avambraccio teso dell’assassino, e quando l’abisso azzurro dei suoi occhi inghiottì la pietra dura di quelli bugiardi di Marluxia, entrambi compresero, senza conferme ulteriori, che qualcosa di cruciale si era compiuto, e che ogni passo futuro, per quanto incerto e imprevedibile, avrebbe portato su di sé il marchio indelebile dell’ irreparabilità.