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Autore: Julian Caulfield    27/05/2013    2 recensioni
"Ho paura di portarmi dietro la sua immagine che profuma di cadavere."
Matt Bellamy e le sue lacrime di mercurio, mentre il precipizio è sempre più vicino e le buone intenzioni sfumano nel nulla.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Matthew Bellamy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Falling Down.



Ad Andrea.




Io odio la morte.
Odio l’odore pestilenziale dei fiori del sagrato lasciati a marcire nei vasi, innaffiati più per senso di responsabilità che per amore.
Odio l’immondizia ammucchiata nel cestino accanto a me, scarti senza futuro compressi per essere nascosti agli occhi di chi ci vede ancora del buono (‘ma sì,  fanne del compost, aiuta la natura’ - ma vaffanculo anche a voi ambientalisti del cazzo, al vostro ottimismo dilagante e alla diligenza che mettete nel fare del bene per una Terra che prima o poi crollerà sotto i vostri piedi).
Odio l’acqua di colonia che le puttane da Chiesa usano per ungersi in tutti gli anfratti del loro corpo malaticcio per dare una vaga impressione di pulizia mentre siedono ai primi banchi con una compostezza fasulla come una banconota da 13 sterline, quasi a prendere polvere come suppellettili in attesa di essere valutate da un antiquario caritatevole.
Odio il tanfo che emanano i crisantemi avanzati, quelli raccolti in fasci stesi al sole, fiori dei morti che diventano morti a loro volta, in un circolo vizioso di desolazione.
Odio le foglie per terra, che non hanno più la voglia o la forza di rimanere al loro posto e si lasciano cadere senza pudore, nude in balia del vento, come se fosse più facile affidarsi alla corrente piuttosto che alle proprie forze.
Odio la gente che è morta dentro ancor prima di esserlo fuori, quella che prende tutto come uno spettacolo in cui fare da comparse, nell’abbagliante pièce dell’ipocrisia malcelata, l’unico pseudosentimento che riescono a tirar fuori dal loro cuore di acciaio.
Odio il nero, lo odio davvero. Lo odio lo odio lo odio, perché se i miei capelli tinti di corvino sono ancora attaccati alla mia testa, quelli rossi di Alice sono caduti tanto tempo fa; perché se prima lei aveva le labbra di corallo, ora sembrano un arto amputato in mezzo al campo di battaglia, con quel tono fumé che gli stilisti spacciano per fashion solo perché non lo hanno mai visto sulla bocca di qualcuno che amavano, specie mescolato ad un patetico rossetto glam rock; perché il nero ad Alice non era mai stato bene, ed ora lei si ritrova avvolta in un vestito color pece, che la fa sembrare ancor più anemica nonostante il fard sulle guance cerchi di camuffarlo, mentre io non riesco a nascondere quanto mi senta indifeso a vederla lì, morta.
Ho paura di cominciare ad odiare anche lei, prima che chiudano la bara, ho paura di portarmi dietro la sua immagine che profuma di cadavere, l’impressione che mi ha fatto vederla agghindata (lei non si truccava mai, cazzo, era talmente naturale), le vene impresse sulle palpebre, l’abito troppo largo per colpa della carne divorata dalla chemio. E poi il fetore dei mazzi di rose e crisantemi, che se prima mi potevo allontanare per non sentirne la scia, adesso me lo porterò dietro tutta la vita, nascosto in un angolo della mia psiche per massacrarmi dall’interno.
Ma non è il peggio. Il peggio deve ancora arrivare. So benissimo che quei coglioni abbarbicati sull’altare e nelle panche sono lì solo per dare mostra della loro umanità taroccata, mentre i genitori di Alice vorrebbero solo godersi il silenzio della scomparsa e scivolare dietro le quinte senza dover stringere la mano a sconosciuti in vena di condoglianze, e questo mi uccide, perché Alice non sarebbe mai stata d’accordo: lei si sarebbe cortesemente rifiutata di toccare le dita di un perfetto bugiardo, per quanto addolorata, lei non avrebbe retto il gioco. Ed io invece sono qui, con gli occhi che balzano dal visino di Alice, martoriato dall’insufficienza respiratoria e dalle metastasi troppo radicate nella cassa toracica, alle labbra tremanti di sua madre e alle spalle rinsecchite di suo padre, mentre ostentano gentilezza con la bestemmia stampata in fronte. Solo che il dolore annulla tutto, anche la forza di reagire a tutto quello che si odia nella vita.
E allora mi ritrovo così, solo di fronte a lei, a guardarla un’ultima volta, a costo di ricordarmi la faccia congestionata della mia migliore amica piuttosto che i dettagli dei nostri diciott’anni, quelli che ti fanno capire quanto vale una persona. Forse tra un giorno, un mese, un anno, le cose andranno meglio: mi torneranno in mente le lenzuola che sapevano di violetta, le sue mani che impugnavano libri e plettri come se fossero armi, la penna d’oca che usava per scrivere i biglietti di auguri  ad ogni mio compleanno, la sua ossessione per la pulizia, la sua lunatica inclinazione per la letteratura francese e le notti passate con la birra in pugno, immaginando di poter bruciare Teignmouth per liberarci dalla nausea di noi provincialotti, di diventare eroi della nostra traiettoria ascendente a costo di combattere tutta la nostra porca esistenza.
Alice ha lottato, ma lo ha fatto per sopravvivere, non più per vivere. Il suo Paese delle Meraviglie si è sgretolato nel momento in cui l’ago le ha trapassato la vena per la prima volta e le sue cellule hanno iniziato a battersi per vincere su quelle fuori controllo. Ha lottato per non farsi distruggere da qualcosa di più forte di lei e si è fatta annientare dopo una battaglia lunga un secolo, ed è per questo che mi pesa già così tanto vederla immobile: forse non c’è nessuna speranza di vittoria per me, e ormai l’unico faro che mi permetteva di sperare si è spento in un fottuto ospedale sotto i miei occhi e non vuole saperne di riaccendersi. E fa malissimo, e mi pugnala al cuore senza che io possa difendermi, e paradossalmente tenere compagnia alla mia piccola Alice non è poi un’idea così infernale a conti fatti. Però purtroppo le ho promesso di vivere per entrambi, gliel’ho giurato su tutti i buoni sentimenti che mi sono rimasti e tradirla è l’ultima delle mie ambizioni, ammesso che me ne sia rimasta qualcuna in mezzo alle lacrime che mi colano come mercurio in mezzo alle ciglia mentre il feretro viene calato ormai chiuso nella fossa.
So solo che voglio tornare a casa a suonare la nostra canzone, per urlare a un dio in cui non credo più di tanto e chiedergli di raderla davvero al suolo, questa maledettissima città opaca, illudendomi di vedere la piccola Alice sana come un pesce guizzare di vita tra le pieghe di un plaid scozzese. E invece sono qui a canticchiarla senza voce, l’omaggio finale alla mia musa, mentre cado sempre più giù, molto più in fondo della tomba, più piano delle foglie che disprezzavo, e mi lascio andare sperando che qualcuno mi raccolga dalla fossa di apatia e desolazione giovanile in cui sto scivolando e mi salvi da questi miei diciott’anni privi di luci guida.
Perché in fondo, più che quella fisica, io odio la morte della speranza.




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One shot nata dall'ascolto di Falling Down, la perla di Showbiz, quella che mi ha fatto versare le lacrime più sincere della mia vita in un momento decisamente da dimenticare. Vi prego di perdonare questo sfogo neanche lontanamente revisionato e/o corretto.

DISCLAIMER: Il povero Bellamy è il capro espiatorio delle mie emozioni da circense, non ha nulla a che vedere con tutto ciò che scrivo, né sa della mia esistenza.
Alice è Alice, solo lei, una mia piccola creatura senza futuro, e come tale deve rimanere.


__exogenesis
  
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