Capitolo 6:
FACIN (Fai Amicizia Con Il Nemico)
Il piano FACIN, ovvero “Fai amicizia con il nemico”, iniziò ufficialmente la
mattina successiva, al suonare della sveglia.
Judith avrebbe anche potuto
dare il via alla missione la sera prima, subito dopo la chiacchierata con
Delia, ma aveva preferito rimandare e meditarci sopra durante la notte.
Non le piaceva andare in
battaglia senza una strategia ben studiata, non era da lei.
E quindi eccola lì, ferma
come un’idiota davanti alla stanza del suo quasi fratellastro – se Delia e suo
padre si fossero sposati lo sarebbe diventato e il solo pensiero le fece venire
la pelle d’oca – con una tazza di caffè caldo e fumante in mano.
Un’offerta di pace? Qualcosa
del genere.
Si mosse sul posto nervosa e
scosse la testa per spostare indietro una ciocca di capelli, mentre pensava ad un nome più decente per il suo piano; FACIN non si poteva
proprio sentire.
La maniglia della porta si
abbassò e Jude avvertì l’impellente voglia di gettare
all’aria la tazza e correre a nascondersi da qualche parte.
Si sentiva una completa
imbecille e non le piaceva che quell’orrenda sensazione le si
fosse attaccata alla pelle come una zecca.
Quando Daniel sbucò fuori
dalla sua camera, la ragazza rimase immobile e attese
paziente che lui la squadrasse confuso e sorpreso.
Sbatté le palpebre diverse
volte e si passò assonnato una mano sugli occhi, forse chiedendosi se la stesse
semplicemente immaginando o se fosse davvero lì.
Dopo aver constatato
che la ragazza non accennava proprio a sparire, incominciò ad esaminare con
aria circospetta il caffè che teneva in mano, alzando involontariamente un
sopracciglio in una muta domanda.
“Non è avvelenato.” Lo
rassicurò lei sarcastica, tendendo impacciata il braccio davanti a sé, “Senza
zucchero, vero?” Quella mattina, ad un passo dal metterci dentro due zollette,
si era ricordata di non aver mai visto il ragazzo metterne nella sua tazza.
L’aveva osservato più di quanto lei stessa avrebbe ammesso.
Lui ignorò
la sua offerta e si appoggiò con la spalla allo stipite della porta, “Come mai
tanta gentilezza? Che c’è sotto?” Socchiuse le palpebre e la scrutò diffidente.
Perché doveva essere così
dannatamente sospettoso? Non poteva semplicemente accettarlo e ringraziarla
come le persone normali?
Jude
si rigirò l’oggetto tra le mani e ripescò in fretta il discorso che si era
preparata in testa durante la notte, “Perché penso che siamo partiti con il
piede sbagliato. Non avrei dovuto
seguirti fino al locale ieri, mi…” Qualcosa le si
incastrò in gola ed era abbastanza certa che si trattasse del suo orgoglio.
Il ragazzo attese
pazientemente che proseguisse, anche se aveva già intuito che cosa stesse per
dirgli.
Il volto impassibile non l’aiutava di certo, le avrebbe fatto comodo un minimo di
reazione, almeno per sapere cosa gli stesse passando per la testa.
“Mi dispiace.” Ce l’aveva fatta, era stato meno difficile del previsto in
fondo, “Ho dato il peggio di me in questi giorni, non sono abituata ad avere
estranei in casa.”
Il pensare alla difficile
situazione familiare di Daniel la favorì nel procedere con il discorso: pensare
a lui come al ragazzo che aveva sofferto per la madre e non come a quello
arrogante che l’aveva irritata a morte le facilitava
il tutto.
“Ci tengo davvero a farmi
perdonare, quindi…pace?”
Pace? Aveva davvero detto
pace come una bambina dell’asilo? Quella parola non era prevista nel suo piano
d’azione, da dove era saltata fuori?
Quello che non si aspettava
era il sorriso che lui le rivolse, per nulla amichevole e più simile ad un ghigno che la fece rabbrividire inspiegabilmente, “È
sorprendente come la pietà sia riuscita a farti mettere da parte l’orgoglio.”
Replicò in tono sprezzante e cattivo.
“Come?” Aggrottò la fronte stranita,
di che stava parlando quel broccolo?
Il sorriso di Daniel si
spense di colpo, lo sguardo fisso su di lei sembrava volerla trapassare da
parte a parte, “No, grazie.”
No, grazie?!
La stava liquidando con un “no,
grazie”?! Il suo discorso era perfetto, lei era stata
gentile e disponibile e lui la stava…respingendo? Perché? Che diavolo di
problema aveva quel deficiente?! E cosa c’entrava la
pietà?
Per la
rabbia il braccio le stava tremando così forte da far oscillare pericolosamente
il liquido nero all’interno della scodella, “È tutto quello che sai dire? No, grazie?!” Sbraitò senza
curarsi di abbassare la voce.
Il suo adirarsi fece reagire
di riflesso anche Daniel, che le si avvicinò così rapidamente
da farla sussultare. Una goccia di caffè scivolò fuori dal bordo della tazza e
cadde nel vuoto, macchiando la moquette blu ai loro piedi.
Se non avesse avuto il viso del
ragazzo così vicino al suo e i suoi occhi furiosi puntati insistentemente
addosso, si sarebbe preoccupata di abbassare la testa per
controllare le condizioni del tessuto.
Odiava ammetterlo, ma averlo ad una distanza così ravvicinata le scombussolava la mente e
per un attimo il cervello incespicò su pensieri che non avevano nulla a che
fare con quella discussione. Come al fatto che i suoi occhi avessero delle
piacevoli screziature verdi in mezzo a tutto quel marrone…e che i pantaloni grigi
della tuta e quella maglietta nera a maniche corte non gli stessero
affatto male.
Deglutì a vuoto: avrebbe
voluto allontanarsi, ma se lo avesse fatto lui si sarebbe accorto dell’effetto
che aveva su di lei, della reazione che le stava provocando.
“E tu
invece? Non hai
altro da dire?” Le soffiò sulle guance, le parole ringhiate tra i denti come se
fossero insulti e le mani chiuse a pugno con forza.
Jude ammutolì e sbatté le palpebre
disorientata; non riusciva a capire perché si fosse arrabbiato così
tanto e così all’improvviso. Era fuori di testa, non
c’era altra spiegazione. O forse si era ubriacato di nuovo. Oddio, aveva a che
fare con uno squilibrato mentale, forse era il caso di gridare aiuto.
“Ma
di che stai parlando? Che altro dovrei dire, scusa? Se ti aspetti qualcosa di svenevole guarda che…”
“Ah, finiscila.” La interruppe
seccamente, “La storia raccontata da mia madre dev’essere
stata molto commovente se siamo a questi livelli di pateticità.” Insinuò con
voce fintamente stucchevole, i lineamenti contratti in una smorfia insofferente.
Le guance della ragazza persero
improvvisamente colore e la mascella quasi le si schiantò
a terra. Oh merda, sapeva tutto. Sapeva del discorso
con Delia. Le aveva sentite?
La gola le
si seccò e si ritrovò a boccheggiare senza sapere bene come rispondere. Aveva
deciso di sotterrare l’ascia di guerra e avvicinarsi a lui per aiutare Delia, solo
che non poteva certo dirgli quello. Però non riusciva nemmeno a tirar fuori
qualche altra risposta plausibile, era come se la lingua le
si fosse incollata al palato.
“Lascia stare l’offerta di
pace. E lascia perdere i sensi di colpa. Non ho
bisogno della tua pietà.” Non aggiunse altro, la sorpassò e andò al piano di sotto
lasciandola lì pietrificata al centro del corridoio.
Il suo primo tentativo di
avvicinarsi a lui era stato un fiasco totale. Non che avesse sperato di poter
diventare la sua migliore amica nel giro di due minuti, ma credeva che
quell’offerta potesse essere almeno un punto di partenza.
Sospirò e sfregò
distrattamente i polpastrelli sulla macchia nera di caffè formatasi poco prima
sulla T-shirt del suo pigiama. Aveva bisogno di un consiglio e di una nuova
strategia.
*****
“Cosa vuoi
che ti dica?” Jason si pulì la bocca con un tovagliolo, prima di rituffarsi sul
panino più schifoso che Jude avesse mai avuto
l’occasione di vedere.
Ketchup, senape, maionese, mostarda,
salsa rosa, Dio solo sapeva cosa c’era lì dentro. Lui era fatto così del resto,
gli piaceva sperimentare, mischiava sempre tutto.
Mangiava la pasta con il
ketchup e immergeva i biscotti al cioccolato nella minestra, lei e Meg ormai
non si scandalizzavano più per nulla.
“Non lo so,
qualsiasi cosa. Sei un ragazzo, aiutami a…socializzare con
quelli della tua specie!” Spiegò gesticolando con impazienza.
Jason rise e scosse la testa incredulo, “Specie? Non ho parole.”
Aveva bisogno di qualcosa che
la aiutasse ad avvicinarsi a Daniel senza che si insospettisse,
senza che pensasse che lo facesse per pietà o con secondi fini.
“Allora?” Sollecitò quando
vide che l’amico continuava ad ingozzarsi.
“Se vuoi fare amicizia con
lui, sii semplicemente te stessa.” Spiegò con tranquillità, scrollando le
spalle.
Jude sbuffò seccata, “Grazie tante.” Un consiglio più
inutile di quello non avrebbe potuto darlo.
“Se tu iniziassi a comportarti diversamente si insospettirebbe e
allontanerebbe. Non è credibile una Jude dolce e gentile.”
“Ah ah,
simpatico!” Ribatté con una finta espressione imbronciata sul volto. In realtà
sapeva che l’amico aveva ragione, non era da lei essere carina e sdolcinata, si
conosceva abbastanza bene per potersi definire acida e
aggressiva.
“Invitalo alla festa di Seline domani stasera.” Propose Jason con
un’altra scrollata, “Potrei parlarci io. Magari si sentirà più a suo
agio a socializzare con qualcuno della sua… “specie”.” Mimò la parola con le
dita sporche di ketchup, ridendo l’attimo dopo quando l’amica gli riservò
un’occhiataccia.
“Stai
scherzando? E poi odio le feste di
Seline Evans, Jason, lo sai.”
Borbottò lei, infilzando una foglia d’insalata con forza.
Seline Evans era la più ridicola, triste e inutile cheerleader di tutta la scuola. Ovviamente
era anche la più corteggiata, per qualche ragione a lei totalmente
incomprensibile. Anche se la quarta abbondante di seno della ragazza
sembrava essere un motivo più che valido per i suoi compagni.
Jude si chiedeva come diavolo facesse a non schiacciare le
sue compagne con tutto quel peso, quando saliva in cima alla piramide.
“Non dovete mica prendervi a braccetto
o mettervi lo smalto a vicenda, la saluti e poi la ignori per il resto della
serata!”
A braccetto? Lo smalto a
vicenda? Ma Jason che diavolo pensava che facessero le
ragazze insieme per passare il tempo?
Abbassò lo sguardo sulle sue
unghie curate ma prive di smalto e si morse il labbro
indecisa.
“Jude,
provaci. Non mi sembra che tu abbia molte alternative,
no? Magari ha davvero solo bisogno di qualcuno della sua età con cui
socializzare, di farsi qualche amico.”
Forse sì. Anche se con lei
non si poteva certo dire che fosse stato particolarmente gentile e disposto a
fare amicizia. Aveva anche lui la sua parte di colpa, l’aveva presa in giro e
provocata fin dall’inizio.
Piegò la bocca pensierosa:
chiedere a Daniel di andare ad una festa con lei? Non
sarebbe sembrato… ambiguo? Lui avrebbe potuto credere che lo stesse invitando ad uscire e Jude non voleva assolutamente che lo pensasse, ci
mancava solo quello! Sarebbe stato meglio mettere in chiaro fin da subito le
cose e fargli capire che era solo una proposta da amica.
Scosse la testa ed arricciò di poco il naso, “Se anche lo invitassi…” S’ingobbì
sul tavolo per sporgersi verso di lui, “Non accetterebbe mai” Concluse a bassa
voce, senza il minimo dubbio o esitazione. Ne era convinta.
Poteva già sentire la sua
voce mentre le rispondeva “No, grazie” con la stessa freddezza di quella mattina.
Quando aveva cercato di avvicinarsi a lui era stato
come sbattere contro ad un muro di cemento armato.
Si chiese cosa e quanto
avesse effettivamente ascoltato di quella conversazione con Delia… aveva
sentito la sua promessa finale alla donna? Ne dubitava.
Quella mattina Daniel le aveva
detto semplicemente di non volere la sua pietà, quindi non sapeva che aveva
cercato di avvicinarsi a lui per aiutare Delia. Pensava che lei lo facesse per
compassione, doveva essersi perso la parte finale del discorso.
Jason inclinò la testa e si
accigliò, “In quel caso ci avresti comunque provato.”
Giusto. Ormai aveva già messo
in conto di dover mettere momentaneamente da parte almeno
metà del suo orgoglio per conquistare la fiducia di Daniel, quindi non aveva molto
da perdere.
Doveva aiutare Delia a
qualunque costo, non poteva sopportare il ricordo delle sue lacrime e di quel
debole sorriso che le aveva rivolto quando le aveva promesso di aiutarla.
***
Solitamente non amava
rientrare in quella casa, ogni volta che apriva la porta
sentiva l’aria mancargli, come se i muri si restringessero intorno a lui e lo
soffocassero. Sentiva di essere indesiderato, di non potersi muovere liberamente,
di dover prendere decisioni in base alle azioni degli altri abitanti; sentiva di
essere osservato come un animale allo zoo, percepiva gli occhi di Richard
Parker e di sua figlia costantemente su di sé, quasi si aspettassero
solo un suo passo falso.
Era ufficialmente diventato
un soggetto problematico da tener d’occhio e da
compatire. Si sentiva il protagonista di un fottuto programma spazzatura sui
problemi degli adolescenti, uno di quelli che facevano
leva sulla pietà della gente per avere un buon numero di ascolti.
Sospirò e si passò
stancamente una mano sul viso; era esausto e, benché l’idea di rivedere quella
famiglia non lo entusiasmasse, era impaziente di
rientrare per potersi fare una doccia e rilassarsi un po’.
Aveva accettato di lavorare
fino a tardi quel giorno, accettava spesso di fare degli straordinari pur di passare del tempo fuori, pur di non dover restare con dei
tizi che per lui erano poco più che sconosciuti.
Fu un sollievo vedere le luci
del piano di sotto spente: vista l’ora dovevano già aver cenato senza
aspettarlo. Forse erano persino già a letto.
Entrò silenziosamente nel
buio ingresso e non si preoccupò di annunciare la sua presenza; se stavano
davvero dormendo non aveva alcuna intenzione di
svegliarli.
Ad attirare la sua
attenzione, proprio mentre stava per dirigersi al piano di sopra, fu un tenue bagliore
giallo proveniente dalla cucina.
Incuriosito, si affacciò e
fece vagare lo sguardo per la stanza vuota, soffermandosi poi sul forno acceso
e su un piccolo post-it azzurro attaccato sul vetro.
Si avvicinò stranito, a passi
lenti e titubanti, quasi temesse che da lì uscisse una tigre pronta a sbranarlo.
Prese il pezzo di carta tra
le dita e lo staccò, inchinandosi accanto alla luce per poter
leggere meglio quanto vi era scritto.
So che preferiresti spararti alle
palle piuttosto che cenare con noi.
Spero ti piaccia il polpettone,
comunque. Buon appetito. J.
La grafia era tondeggiante e
precisa, la parola “palle” era stata cancellata e poi riscritta accanto.
Daniel inarcò un sopracciglio
e si diede dell’idiota quando sentì affiorargli un sorriso sulle labbra.
Accartocciò il biglietto nella
mano e fissò il piatto all’interno dell’elettrodomestico senza sapere bene cosa
fare.
Quello era chiaramente un
altro tentativo della rompiscatole di rendersi simpatica e sistemare le cose
con lui. Perché era così interessata a farlo? Sensi di colpa? Non poteva
semplicemente lasciarlo perdere? Sarebbe stato più
semplice ignorarsi a vicenda.
Dopo aver origliato la
conversazione tra lei e Delia, aveva creduto che Judith lo avrebbe considerato uno
stronzo insensibile che si rifiutava di perdonare la madre malata, invece era
stata stranamente gentile con lui quella mattina, si era persino scusata.
La cosa lo aveva mandato su
tutte le furie, si era sentito preso in giro da quel sorriso amichevole, si era
sentito come un cane randagio a cui era stato offerto,
per pietà, del cibo avanzato.
Non sapeva proprio che
farsene della pietà della ragazza, di amici ne aveva già – pochi ma buoni – a New
York e nessuno di loro lo era diventato per compassione. Non amava circondarsi
di gente falsa e ipocrita – non amava in generale circondarsi di troppa gente
–, al liceo ne aveva conosciuta e frequentata abbastanza. Errori del passato.
Allungò la mano libera e
piegò la bocca indeciso, poi fece girare la manopola
del forno per spegnerlo e si rialzò.
Non aveva fame e non voleva
nulla da lei. Quel comportamento era sospetto e Daniel era piuttosto diffidente
di natura, soprattutto con le persone che si dimostravano improvvisamente
cortesi.
Lo avrebbero mangiato loro il
giorno dopo, riunendosi a tavola e raccontandosi amabilmente le loro giornate
come una famiglia, mentre lui sarebbe stato in disparte come sempre,
preferibilmente al lavoro.
Andò al piano di sopra e,
dopo aver raccolto dal letto i pantaloni della tuta e la maglietta che usava
per dormire, si chiuse in bagno e si fece una doccia.
Doveva assolutamente portare
i suoi vestiti in lavanderia il giorno dopo, era bastato un giorno
perché i tessuti assorbissero gli odori del locale. Puzzavano di fritto, di
carne abbrustolita e di sudore.
Uscì dal bagno e passò in
silenzio davanti alla porta chiusa della stanza da letto di Delia, Richard e
dell’odiosa rompiscatole.
Certo che era davvero
deprimente andare a dormire alle dieci e mezza di
sera, lui era abituato a restare alzato anche tutta la notte. Doveva abituarsi
ancora agli orari assurdi di quel posto.
A fargli quasi venire un
infarto fu un’ombra accanto alla sua camera. Gli ci volle qualche secondo per
riconoscerla, l’altezza e l’esile corporatura non gli lasciavano molti dubbi.
“Non ti hanno mai detto che è
un peccato sprecare il cibo?” Esordì così Judith, in tono leggero e
colloquiale.
Perché diavolo girava così
furtivamente e al buio davanti alla sua porta? E dove cavolo era prima? Quella ragazza era dannatamente inquietante.
A quanto poteva vedere dalla
scarsa illuminazione aveva i capelli raccolti e indossava una maglia a maniche
lunghe e un paio di pantaloncini corti che le lasciavano scoperte le lunghe
gambe. Deglutì a vuoto e la sorpassò per entrare nella stanza senza degnarla di
una risposta.
Accese l’abatjour sul
comodino e aprì il primo cassetto con l’intenzione di tirare fuori la sua PSP.
“Potresti almeno
rispondermi.”
Daniel finse uno sbadiglio e
si buttò a pancia in su sul letto, in mano il
dischetto del gioco Assassin’s Creed
II Brotherhood.
La principessina si stava
irritando. Poteva fingersi gentile quanto voleva, ma se ignorata finiva inevitabilmente
con lo scaldarsi, Dan questo lo aveva capito.
“Ok, bene,
continua pure ad ignorarmi.” Sbottò piccata, incrociando le braccia al
petto e fissandolo in cagnesco.
La prese in parola. Anche se,
purtroppo, sentiva il suo sguardo su di sé, sentiva che lo stava osservando senza
bisogno di alzare la testa per verificarlo.
Restarono in silenzio per un
po’ e, per quanto cercasse di concentrarsi sul gioco, non riusciva proprio a
non sentire il respiro affrettato di lei a pochi passi, non riusciva ad impedirsi di focalizzare la sua attenzione su quello.
Tanto meno riusciva a fingere che lei non fosse lì, maledizione.
“Daniel?”
Sbatté le
palpebre sorpreso e sollevò la testa. Non seppe dire cosa lo convinse a
spostare lo sguardo su di lei; forse il modo in cui aveva pronunciato il suo
nome – con una nota arrendevole, quasi dolce
–, forse il fatto che lo avesse effettivamente appena chiamato per nome,
cosa piuttosto rara.
Una luce vittoriosa le
illuminò gli occhi quando si accorse di aver ottenuto la sua attenzione e lui
si diede silenziosamente dell’idiota per esserci cascato così facilmente.
“Che vuoi? Non dovresti essere a nanna?”
Disse infine, in tono sarcastico e con l’evidente intento di schernirla.
“Sono solo le dieci e mezza.” Replicò lei tranquilla, “Non dirmi che tu di solito
vai a letto a quest’ora.” Lo sfidò corrugando la fronte.
Lui forzò un sorriso e
trattenne un’imprecazione quando i soldati nemici lo uccisero nel gioco,
“Tesoro, per me la serata alle dieci e mezza deve
ancora iniziare.” A New York almeno. Lì alle dieci e mezza
al massimo poteva iniziare la tombolata di beneficenza in chiesa.
“Bene. Perché vorrei
parlarti.”
Di certo le serate che avrebbe potuto definire piacevoli non comprendevano quella
seccatura. Se già il suo umore non era dei migliori, quella frase non fece che
peggiorarlo.
“Dubito che possa
interessarmi quello che hai da dirmi.”
Ma non aveva qualche cavolo di amico con cui uscire? Un
ragazzo che la sopportasse? L’aveva scaricata pure la sua amica dai capelli
rossi? Come biasimarla…
Jude fece un respiro profondo per cercare di calmarsi.
Aveva rischiato di perdere il controllo e di augurargli di strozzarsi con quel
polpettone dal primo momento in cui lo aveva incontrato in corridoio. Chi diavolo si credeva di essere? Con quell’aria arrogante…!
Se ancora perdeva tempo dietro a lui era solo per
Delia e per quella promessa che le aveva fatto.
“Senti, non avrei dovuto
chiedere a tua madre di parlarmi del vostro rapporto, mi dispiace di averlo
fatto e di aver invaso la tua privacy.” Iniziò a passeggiare per la stanza e a
sfregarsi le mani tra loro con evidente nervosismo. “Ero curiosa” Ammise con
riluttanza.
Sperava solo che quel
patetico discorso risultasse credibile e servisse a
qualcosa.
“Vorrei mettere comunque in
chiaro una cosa….” Voltò la testa nella sua direzione, sforzandosi di guardarlo
in faccia e di non lasciar vagare gli occhi sul suo corpo.
Da quando si era stravaccato
scompostamente sul suo letto la maglietta gli si era alzata fin troppo, lasciando
scoperta e ben visibile una porzione di pancia che stava tentando
disperatamente di non guardare. Santo cielo, non
poteva darsi un po’ di contegno?
Si schiarì la voce, “Tu non
mi fai pena.” Precisò in tono conciso, le mani
puntellate sui fianchi, “Posso dispiacermi per te e
per quello che ti è successo, ma la pietà è un’altra cosa.”
Daniel alzò
appena un sopracciglio, la bocca piegata in una smorfia insofferente, “Okay. Hai finito?” Chiese con calma.
“No.” Calò appena le palpebre irritata, “Se ho deciso di scusarmi e di
chiederti di ricominciare è perché mi sono resa conto del mio comportamento
scorretto nei tuoi confronti e ho voluto rimediare.” Oh, come suonava matura e
decisa alle sue orecchie! Il suo discorso non faceva una sola piccola,
minuscola piega.
“Non per compassione. Non
sono tipo da compatire così facilmente gli altri.”
Era vero. In genere era piuttosto
dura e severa con chi aveva sofferto e non faceva nulla per rimboccarsi le
maniche e andare avanti, con chi si compiangeva e basta. Lei aveva sofferto
quando era rimasta sola con suo padre, eppure si era fatta forza e aveva
proseguito la sua vita anche senza una figura materna accanto.
Lui la
osservò per un po’, così intensamente da farla sentire tremendamente a disagio. Jude ebbe l’impressione
che stesse cercando di leggerle dentro, di capire qualcosa in più di lei dopo
quell’ultima frase.
Distolse lo
sguardo e congiunse le mani a disagio, “Bene. Ho finito.” Sfregò la punta della pantofola sulla
moquette, chiedendosi quanto stesse risultando
patetica da uno a cento.
Di sfuggita, lo vide mettere
da parte quell’odioso e stupido giochino nero che aveva in mano e socchiudere
gli occhi in un modo che a lei parve quasi minaccioso.
Perché non diceva più nulla?
Le andava bene anche una frase sarcastica. Non le piaceva essere squadrata in
quel modo, si sentiva indifesa.
Aspettava una sua risposta,
un segno, un qualcosa che le facesse capire se era riuscita
anche solo a scalfire quel muro che lui aveva eretto tra di loro.
Quando Daniel, finalmente, parlò
– con voce bassa e controllata, scandendo bene e lentamente le parole –, a Jude sembrò quasi che fossero passati minuti interi.
“Dov’è tua madre?”
Avvertì un guizzo nel petto,
qualcosa smuoversi con una violenza che la sconvolse e la lasciò senza fiato.
Si era aspettata di tutto; una
risata, una battuta, un insulto, uno sgarbato “sparisci”,
aveva persino preso in considerazione l’idea che accettasse le sue patetiche
scuse, ma non immaginava che Daniel le domandasse una cosa del genere.
Sentì un fastidioso pizzicore
al naso e sbatté le palpebre per scacciare via quel velo umido che stava
iniziando ad appannarle la vista.
Merda.
Era cresciuta senza una
madre, doveva essere abituata a quel genere di domande.
Aveva sempre messo da parte
il dolore, la rabbia e il rancore provati nei suoi confronti per lasciar posto ad una totale indifferenza. Quando le sue compagne di classe
alle elementari le chiedevano dove fosse, lei rispondeva con una scrollata di
spalle e un “non ce l’ho”. Come se fosse nata da suo
padre, come se suo padre l’avesse concepita da solo.
Sua madre non era niente, nemmeno un’entità astratta nella sua testa, non
esisteva semplicemente. Non poteva odiare o sentire la mancanza di qualcosa che
non esisteva, questo si era sempre ripetuta.
Si era fatta forza negli anni,
anche e soprattutto per suo padre, aveva pianto da sola nella sua cameretta solo
qualche volta da piccola, ma poi era andata avanti e aveva smesso di pensarci.
Si umettò appena le labbra,
la gola secca e in fiamme così come le guance. Sapeva perché glielo aveva
chiesto, per stabilire una sorta di equilibrio, di parità. Lei era a conoscenza
di quanto successo tra lui e sua madre, lui no.
Ciò non cambiava comunque le
cose, quella domanda l’aveva colta completamente alla sprovvista come uno
schiaffo in pieno viso. Non aveva avuto il tempo di proteggersi, di prepararsi
una reazione, una frase da dire.
Lui attese paziente e
impassibile che rispondesse; se si fosse o no accorto di quel tentennamento non lo diede a vedere.
“Se n’è andata quando avevo
tre anni, non la ricordo.” Mormorò infine, in tono neutro e senza un briciolo
di emozione nella voce.
Per lei era facile,
all’occorrenza, scacciare il ricordo di sua madre in un angolino buio della sua
mente, un angolo nascosto e insignificante da cui si teneva alla larga.
Sperò che non le chiedesse
altro, con quell’ultima precisazione aveva voluto proteggersi da un qualsiasi
altro tentativo di chiedere spiegazioni. Non la ricordava, era la pura e
semplice verità. Non avrebbe saputo rispondere a nessuna domanda su di lei.
Daniel abbassò lo sguardo e rimase
in silenzio per una quantità di tempo che Jude iniziò
a trovare insopportabile, probabilmente meditando sulle sue parole e cercando
una risposta adatta alla situazione. Poi sospirò piano, passandosi una mano sul
viso.
Ecco fatto, ora sarebbe arrivato
il tipico “mi dispiace” di convenienza, quello di chi non sapeva che altro
dire, quello di chi poco si dispiaceva in realtà. Una persona su dieci
intendeva davvero quelle parole quando le pronunciava. Lei stessa faceva spesso
parte di quei nove decimi.
Non dire mi dispiace, ti prego.
L’avrebbe guardata come una
patetica bambina cresciuta senza mamma e in cerca di coccole, avrebbe pensato
questo di lei, che fosse patetica. E
in effetti lo era, che cosa le era venuto in mente di rispondere? Perché
lo aveva fatto? Non poteva inventare qualche cavolata o eludere la domanda?
Lui parve valutare l’ipotesi
di dire qualcosa – Judith osservò le sue labbra schiudersi con il cuore in gola
–, forse di chiederle altro, poi ci ripensò e scosse la testa. “Scuse accettate. Buonanotte.” Ritornò al suo stupido giochino
senza degnarla di un’ulteriore occhiata.
Tutto lì?
La ragazza cercò di affogare
con forza la delusione – stupida, infantile e immotivata – che provò dentro di
sé. Era frustrante essere congedata in quel modo, specie dopo essersi aperta
così con lui e quasi umiliata per
ottenere un minimo di reazione.
Gli fu comunque tacitamente
grata per non aver pronunciato quelle due paroline inutili che tanto odiava, non avrebbe sopportato di sentirsele rivolgere da
lui.
Conficcò le unghie nei palmi
delle mani e si morse l’interno guancia, sentendosi
stupida per aver sperato…
Cosa?
Che lui si sarebbe comportato
diversamente dopo quella confessione?
Aveva accettato le sue scuse,
era già qualcosa.
Il suo modo di fare irritante
la indisponeva da morire, ma doveva ammettere a se stessa che una parte di lei, a malincuore, lo trovava tremendamente
stuzzicante.
Daniel aveva eretto un muro fra di loro, c’era una barriera che le impediva di
avvicinarsi. Era così dannatamente enigmatico, misterioso, scostante… l’opposto
di quella cozza appiccicosa e stressante di Edward Russo; era una sfida e a lei
tutto sommato le sfide erano sempre piaciute.
“Un’ultima cosa.” Si ricordò
improvvisamente, stringendosi nelle spalle. Maledetto Jason e le sue idee.
“Domani
sera c’è una festa a casa di una mia amica. Cioè, non è proprio un’amica, è più una compagna di scuola. Un’odiosa
compagna di scuola, in realtà. In effetti non so
nemmeno perché abbia intenzione di andarci. Comunque pensavo di…” Non credeva
che si potesse morire d’imbarazzo prima di allora, stava balbettando, santo cielo! E stava davvero per chiedergli di andarci con
lei, dopo il modo da cafone in cui l’aveva liquidata! Ad una festa! Che cosa avrebbero pensato quelle pettegole
della sua scuola se si fosse presentata con…
“Okay, come ti pare.” Daniel
alzò il braccio sinistro e mosse pigramente la mano per salutarla. O più
precisamente per scacciarla.
Lei richiuse la bocca di
scatto e strinse la mascella con forza. Idiota.
Saltargli addosso e
strozzarlo non era un’opzione contemplabile. Doveva
resistere e sopportare. Per Delia. Non importava se suo figlio
le istigava violenza, lei era superiore a tutto. Tutto.
Si immaginò seduta sul tappeto del soggiorno, le gambe
incrociate, le mani poggiate sulle ginocchia, il pollice e l’indice uniti, gli
occhi chiusi.
Ommmm.
Che lo yoga sia con me, pensò, sbuffando dalle narici e rilassando i muscoli
tesi.
Col cavolo che gli avrebbe
chiesto di andarci con lei! Ma cosa si era messa in
testa? Jason l’aveva contagiata con la sua idiozia, aveva ficcato della
segatura nel suo cervello.
“Volevo
solo dirti che dovrai arrangiarti con la cena perché Delia e mio padre saranno
fuori. Buonanotte.” Sibilò gelida,
uscendo svelta e silenziosa dalla stanza. Non sbatté nemmeno la porta dietro di
sé, gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla arrabbiata se lo avesse fatto
e non se lo meritava.
Idiota. Che se ne andasse al
diavolo! Non era mica una santa lei e non aveva alcuna intenzione di mettersi
in ridicolo più di quanto già non avesse fatto, aveva ancora una dignità da
preservare!
Si buttò sul suo letto con
foga, facendo finire a terra il ridicolo diario su cui ogni tanto scribacchiava
i suoi sfoghi.
Aveva più la forma di
un’agenda che di un diario dei segreti vero e proprio: niente cuori, niente pelo, niente rosa; quel colore nero e serioso la faceva
sentire meno ragazzina e meno stupida quando scriveva su quelle pagine delle
sue giornate.
Sbuffò e lo rimise al suo
posto, sotto il materasso. Lo teneva nascosto sotto il materasso del suo letto
di solito, ma non le era sembrata una buona idea lasciarlo in camera con quel
cretino.
Incrociò le braccia sul
cuscino e vi appoggiò il mento, lanciando un’occhiata alla figura addormentata
di Delia sul letto matrimoniale accanto.
Non poteva deluderla, le
aveva fatto una promessa. E, Dio, si sarebbe sentita
troppo in colpa a non mantenerla se Delia nonostante le cure non fosse riuscita
a… non riusciva nemmeno a pensarlo.
Avrebbe aiutato una donna a
riavvicinarsi a suo figlio, avrebbe aiutato quella che per lei era sempre stata
come una madre, a qualsiasi costo.
Non si era mai affezionata così tanto a nessuna delle fidanzate di suo padre, non
ricordava di aver pensato a nessuna di loro come ad una donna con cui potersi
confidare e da prendere come modello.
Sbadigliò. Un passo in avanti
con coso lo aveva fatto tutto sommato: aveva accettato le sue scuse, era comunque un
inizio. Le cose sarebbero andate meglio di giorno in giorno, anche perché
peggio di così dubitava che potessero andare.
Ci avrebbe pensato il giorno
dopo alla prossima mossa, ora era decisamente troppo
stanca.
*Note della ritardataria, altresì chiamata “autrice”*
Ehm… dunque… ecco, direi di
cominciare con un “ciao a tutte!”, sempre che ci sia ancora qualcuno che mi
stia leggendo. Sono in ritardo, lo so, ma vi
risparmierò una sequela di giustificazioni che non vi interessano per parlare
un po’ di questo capitolo.
Un po’ di passaggio, ma
sappiate che il prossimo capitolo, quello della festa, sogno di scriverlo da
quando ho iniziato la storia. Ho quella scena in mente da anni e, per come è nella mia testa, è stupenda (mi sono innamorata così
tanto del personaggio di Daniel proprio grazie a quello che succederà nel
prossimo capitolo). Poi magari verrà fuori una merda quando lo scriverò eh –
probabile, conoscendomi xD
Comunque, tornando a questo,
sono stata un po’ cattiva con Jude, vero? Cioè, lui
la tratta proprio con freddezza e non sembra minimamente interessato a lei.
Lei, invece, un pochino interessata lo è. Sicuramente non solo per la
promessa fatta a Delia. Ma non dimentichiamoci di Evan,
il fratello di Meg di cui è cotta, che nel prossimo capitolo verrà
presentato ben bene. Peggio di Beautiful! :D
Poooi. Jude dice qualcosa su sua
madre: naturalmente non si capisce molto di quello che è successo, se è morta o
se è viva, perché se n’è andata; potrebbe esserle capitato di tutto. Anche
questo si saprà più avanti.
Forse questo capitolo non
sarà valsa l’attesa, non so davvero più in che modo
scusarmi per il ritardo.
Spero con tutto il cuore che
vi sia piaciuto e vi ringrazio infinitamente per i vostri meravigliosi
commenti. Non so cos’ho fatto per meritarli, ma… GRAZIE, davvero.
Risponderò alle vostre
recensioni man mano, come ho fatto per il capitolo scorso. E come sto cercando
di fare un po’ in tutte le mie storie, giusto perché mi sembra meglio
rispondervi singolarmente per dirvi quanto vi sono grata per le vostre parole e
per il tempo che mi dedicate :)
Un bacione grandissimo! E
giuro che non passerà più così tanto tempo per il
prossimo capitolo, ne passerà mooolto di meno!
Bec