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Autore: _Bec_    27/05/2013    16 recensioni
Daniel King, diciannove anni, viene costretto dal padre e dai suoi stessi sentimenti contrastanti verso la madre malata a vivere con quest'ultima e la sua nuova famiglia, composta da Richard e Jude, marito e figlia diciottenne "perfetti".
Non sarà semplice per Dan adattarsi ad una famiglia tanto diversa da lui, ma soprattutto, sarà difficile andare d'accordo con una madre che ha sempre odiato, a cui però potrebbero restare soltanto pochi mesi di vita.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Time is running out

Capitolo 6: FACIN (Fai Amicizia Con Il Nemico)

 

 

Il piano FACIN, ovvero “Fai amicizia con il nemico”, iniziò ufficialmente la mattina successiva, al suonare della sveglia.

Judith avrebbe anche potuto dare il via alla missione la sera prima, subito dopo la chiacchierata con Delia, ma aveva preferito rimandare e meditarci sopra durante la notte.

Non le piaceva andare in battaglia senza una strategia ben studiata, non era da lei.

E quindi eccola lì, ferma come un’idiota davanti alla stanza del suo quasi fratellastro – se Delia e suo padre si fossero sposati lo sarebbe diventato e il solo pensiero le fece venire la pelle d’oca – con una tazza di caffè caldo e fumante in mano.

Un’offerta di pace? Qualcosa del genere.

Si mosse sul posto nervosa e scosse la testa per spostare indietro una ciocca di capelli, mentre pensava ad un nome più decente per il suo piano; FACIN non si poteva proprio sentire.

La maniglia della porta si abbassò e Jude avvertì l’impellente voglia di gettare all’aria la tazza e correre a nascondersi da qualche parte.

Si sentiva una completa imbecille e non le piaceva che quell’orrenda sensazione le si fosse attaccata alla pelle come una zecca.

Quando Daniel sbucò fuori dalla sua camera, la ragazza rimase immobile e attese paziente che lui la squadrasse confuso e sorpreso.

Sbatté le palpebre diverse volte e si passò assonnato una mano sugli occhi, forse chiedendosi se la stesse semplicemente immaginando o se fosse davvero lì.

Dopo aver constatato che la ragazza non accennava proprio a sparire, incominciò ad esaminare con aria circospetta il caffè che teneva in mano, alzando involontariamente un sopracciglio in una muta domanda.

“Non è avvelenato.” Lo rassicurò lei sarcastica, tendendo impacciata il braccio davanti a sé, “Senza zucchero, vero?” Quella mattina, ad un passo dal metterci dentro due zollette, si era ricordata di non aver mai visto il ragazzo metterne nella sua tazza. L’aveva osservato più di quanto lei stessa avrebbe ammesso.

Lui ignorò la sua offerta e si appoggiò con la spalla allo stipite della porta, “Come mai tanta gentilezza? Che c’è sotto?” Socchiuse le palpebre e la scrutò diffidente.

Perché doveva essere così dannatamente sospettoso? Non poteva semplicemente accettarlo e ringraziarla come le persone normali?

Jude si rigirò l’oggetto tra le mani e ripescò in fretta il discorso che si era preparata in testa durante la notte, “Perché penso che siamo partiti con il piede sbagliato. Non avrei dovuto seguirti fino al locale ieri, mi…” Qualcosa le si incastrò in gola ed era abbastanza certa che si trattasse del suo orgoglio.

Il ragazzo attese pazientemente che proseguisse, anche se aveva già intuito che cosa stesse per dirgli.

Il volto impassibile non l’aiutava di certo, le avrebbe fatto comodo un minimo di reazione, almeno per sapere cosa gli stesse passando per la testa.

“Mi dispiace.” Ce l’aveva fatta, era stato meno difficile del previsto in fondo, “Ho dato il peggio di me in questi giorni, non sono abituata ad avere estranei in casa.”

Il pensare alla difficile situazione familiare di Daniel la favorì nel procedere con il discorso: pensare a lui come al ragazzo che aveva sofferto per la madre e non come a quello arrogante che l’aveva irritata a morte le facilitava il tutto.

“Ci tengo davvero a farmi perdonare, quindi…pace?”

Pace? Aveva davvero detto pace come una bambina dell’asilo? Quella parola non era prevista nel suo piano d’azione, da dove era saltata fuori?

Quello che non si aspettava era il sorriso che lui le rivolse, per nulla amichevole e più simile ad un ghigno che la fece rabbrividire inspiegabilmente, “È sorprendente come la pietà sia riuscita a farti mettere da parte l’orgoglio.” Replicò in tono sprezzante e cattivo.

“Come?” Aggrottò la fronte stranita, di che stava parlando quel broccolo?

Il sorriso di Daniel si spense di colpo, lo sguardo fisso su di lei sembrava volerla trapassare da parte a parte, “No, grazie.”

No, grazie?!

La stava liquidando con un “no, grazie”?! Il suo discorso era perfetto, lei era stata gentile e disponibile e lui la stava…respingendo? Perché? Che diavolo di problema aveva quel deficiente?! E cosa c’entrava la pietà?

Per la rabbia il braccio le stava tremando così forte da far oscillare pericolosamente il liquido nero all’interno della scodella, “È tutto quello che sai dire? No, grazie?!” Sbraitò senza curarsi di abbassare la voce.

Il suo adirarsi fece reagire di riflesso anche Daniel, che le si avvicinò così rapidamente da farla sussultare. Una goccia di caffè scivolò fuori dal bordo della tazza e cadde nel vuoto, macchiando la moquette blu ai loro piedi.

Se non avesse avuto il viso del ragazzo così vicino al suo e i suoi occhi furiosi puntati insistentemente addosso, si sarebbe preoccupata di abbassare la testa per controllare le condizioni del tessuto.

Odiava ammetterlo, ma averlo ad una distanza così ravvicinata le scombussolava la mente e per un attimo il cervello incespicò su pensieri che non avevano nulla a che fare con quella discussione. Come al fatto che i suoi occhi avessero delle piacevoli screziature verdi in mezzo a tutto quel marrone…e che i pantaloni grigi della tuta e quella maglietta nera a maniche corte non gli stessero affatto male.

Deglutì a vuoto: avrebbe voluto allontanarsi, ma se lo avesse fatto lui si sarebbe accorto dell’effetto che aveva su di lei, della reazione che le stava provocando.

“E tu invece? Non hai altro da dire?” Le soffiò sulle guance, le parole ringhiate tra i denti come se fossero insulti e le mani chiuse a pugno con forza.

Jude ammutolì e sbatté le palpebre disorientata; non riusciva a capire perché si fosse arrabbiato così tanto e così all’improvviso. Era fuori di testa, non c’era altra spiegazione. O forse si era ubriacato di nuovo. Oddio, aveva a che fare con uno squilibrato mentale, forse era il caso di gridare aiuto.

Ma di che stai parlando? Che altro dovrei dire, scusa? Se ti aspetti qualcosa di svenevole guarda che…”

“Ah, finiscila.” La interruppe seccamente, “La storia raccontata da mia madre dev’essere stata molto commovente se siamo a questi livelli di pateticità.” Insinuò con voce fintamente stucchevole, i lineamenti contratti in una smorfia insofferente.

Le guance della ragazza persero improvvisamente colore e la mascella quasi le si schiantò a terra. Oh merda, sapeva tutto. Sapeva del discorso con Delia. Le aveva sentite?

La gola le si seccò e si ritrovò a boccheggiare senza sapere bene come rispondere. Aveva deciso di sotterrare l’ascia di guerra e avvicinarsi a lui per aiutare Delia, solo che non poteva certo dirgli quello. Però non riusciva nemmeno a tirar fuori qualche altra risposta plausibile, era come se la lingua le si fosse incollata al palato.

“Lascia stare l’offerta di pace. E lascia perdere i sensi di colpa. Non ho bisogno della tua pietà.” Non aggiunse altro, la sorpassò e andò al piano di sotto lasciandola lì pietrificata al centro del corridoio.

Il suo primo tentativo di avvicinarsi a lui era stato un fiasco totale. Non che avesse sperato di poter diventare la sua migliore amica nel giro di due minuti, ma credeva che quell’offerta potesse essere almeno un punto di partenza.

Sospirò e sfregò distrattamente i polpastrelli sulla macchia nera di caffè formatasi poco prima sulla T-shirt del suo pigiama. Aveva bisogno di un consiglio e di una nuova strategia.

 

 

*****

 

Cosa vuoi che ti dica?” Jason si pulì la bocca con un tovagliolo, prima di rituffarsi sul panino più schifoso che Jude avesse mai avuto l’occasione di vedere.

Ketchup, senape, maionese, mostarda, salsa rosa, Dio solo sapeva cosa c’era lì dentro. Lui era fatto così del resto, gli piaceva sperimentare, mischiava sempre tutto.

Mangiava la pasta con il ketchup e immergeva i biscotti al cioccolato nella minestra, lei e Meg ormai non si scandalizzavano più per nulla.

“Non lo so, qualsiasi cosa. Sei un ragazzo, aiutami a…socializzare con quelli della tua specie!” Spiegò gesticolando con impazienza.

Jason rise e scosse la testa incredulo, “Specie? Non ho parole.”

Aveva bisogno di qualcosa che la aiutasse ad avvicinarsi a Daniel senza che si insospettisse, senza che pensasse che lo facesse per pietà o con secondi fini.

“Allora?” Sollecitò quando vide che l’amico continuava ad ingozzarsi.

“Se vuoi fare amicizia con lui, sii semplicemente te stessa.” Spiegò con tranquillità, scrollando le spalle.

Jude sbuffò seccata, “Grazie tante.” Un consiglio più inutile di quello non avrebbe potuto darlo.

“Se tu iniziassi a comportarti diversamente si insospettirebbe e allontanerebbe. Non è credibile una Jude dolce e gentile.

“Ah ah, simpatico!” Ribatté con una finta espressione imbronciata sul volto. In realtà sapeva che l’amico aveva ragione, non era da lei essere carina e sdolcinata, si conosceva abbastanza bene per potersi definire acida e aggressiva.

“Invitalo alla festa di Seline domani stasera.” Propose Jason con un’altra scrollata, “Potrei parlarci io. Magari si sentirà più a suo agio a socializzare con qualcuno della sua… “specie”.” Mimò la parola con le dita sporche di ketchup, ridendo l’attimo dopo quando l’amica gli riservò un’occhiataccia.

“Stai scherzando? E poi odio le feste di Seline Evans, Jason, lo sai. Borbottò lei, infilzando una foglia d’insalata con forza.

Seline Evans era la più ridicola, triste e inutile cheerleader di tutta la scuola. Ovviamente era anche la più corteggiata, per qualche ragione a lei totalmente incomprensibile. Anche se la quarta abbondante di seno della ragazza sembrava essere un motivo più che valido per i suoi compagni.

Jude si chiedeva come diavolo facesse a non schiacciare le sue compagne con tutto quel peso, quando saliva in cima alla piramide.

“Non dovete mica prendervi a braccetto o mettervi lo smalto a vicenda, la saluti e poi la ignori per il resto della serata!”

A braccetto? Lo smalto a vicenda? Ma Jason che diavolo pensava che facessero le ragazze insieme per passare il tempo?

Abbassò lo sguardo sulle sue unghie curate ma prive di smalto e si morse il labbro indecisa.

Jude, provaci. Non mi sembra che tu abbia molte alternative, no? Magari ha davvero solo bisogno di qualcuno della sua età con cui socializzare, di farsi qualche amico.

Forse sì. Anche se con lei non si poteva certo dire che fosse stato particolarmente gentile e disposto a fare amicizia. Aveva anche lui la sua parte di colpa, l’aveva presa in giro e provocata fin dall’inizio.

Piegò la bocca pensierosa: chiedere a Daniel di andare ad una festa con lei? Non sarebbe sembrato… ambiguo? Lui avrebbe potuto credere che lo stesse invitando ad uscire e Jude non voleva assolutamente che lo pensasse, ci mancava solo quello! Sarebbe stato meglio mettere in chiaro fin da subito le cose e fargli capire che era solo una proposta da amica.

Scosse la testa ed arricciò di poco il naso, “Se anche lo invitassi…” S’ingobbì sul tavolo per sporgersi verso di lui, “Non accetterebbe mai” Concluse a bassa voce, senza il minimo dubbio o esitazione. Ne era convinta.

Poteva già sentire la sua voce mentre le rispondeva “No, grazie” con la stessa freddezza di quella mattina. Quando aveva cercato di avvicinarsi a lui era stato come sbattere contro ad un muro di cemento armato.

Si chiese cosa e quanto avesse effettivamente ascoltato di quella conversazione con Delia… aveva sentito la sua promessa finale alla donna? Ne dubitava.

Quella mattina Daniel le aveva detto semplicemente di non volere la sua pietà, quindi non sapeva che aveva cercato di avvicinarsi a lui per aiutare Delia. Pensava che lei lo facesse per compassione, doveva essersi perso la parte finale del discorso.

Jason inclinò la testa e si accigliò, “In quel caso ci avresti comunque provato.”

Giusto. Ormai aveva già messo in conto di dover mettere momentaneamente da parte almeno metà del suo orgoglio per conquistare la fiducia di Daniel, quindi non aveva molto da perdere.

Doveva aiutare Delia a qualunque costo, non poteva sopportare il ricordo delle sue lacrime e di quel debole sorriso che le aveva rivolto quando le aveva promesso di aiutarla.

 

 

***

 

Solitamente non amava rientrare in quella casa, ogni volta che apriva la porta sentiva l’aria mancargli, come se i muri si restringessero intorno a lui e lo soffocassero. Sentiva di essere indesiderato, di non potersi muovere liberamente, di dover prendere decisioni in base alle azioni degli altri abitanti; sentiva di essere osservato come un animale allo zoo, percepiva gli occhi di Richard Parker e di sua figlia costantemente su di sé, quasi si aspettassero solo un suo passo falso.

Era ufficialmente diventato un soggetto problematico da tener d’occhio e da compatire. Si sentiva il protagonista di un fottuto programma spazzatura sui problemi degli adolescenti, uno di quelli che facevano leva sulla pietà della gente per avere un buon numero di ascolti.

Sospirò e si passò stancamente una mano sul viso; era esausto e, benché l’idea di rivedere quella famiglia non lo entusiasmasse, era impaziente di rientrare per potersi fare una doccia e rilassarsi un po’.

Aveva accettato di lavorare fino a tardi quel giorno, accettava spesso di fare degli straordinari pur di passare del tempo fuori, pur di non dover restare con dei tizi che per lui erano poco più che sconosciuti.

Fu un sollievo vedere le luci del piano di sotto spente: vista l’ora dovevano già aver cenato senza aspettarlo. Forse erano persino già a letto.

Entrò silenziosamente nel buio ingresso e non si preoccupò di annunciare la sua presenza; se stavano davvero dormendo non aveva alcuna intenzione di svegliarli.

Ad attirare la sua attenzione, proprio mentre stava per dirigersi al piano di sopra, fu un tenue bagliore giallo proveniente dalla cucina.

Incuriosito, si affacciò e fece vagare lo sguardo per la stanza vuota, soffermandosi poi sul forno acceso e su un piccolo post-it azzurro attaccato sul vetro.

Si avvicinò stranito, a passi lenti e titubanti, quasi temesse che da lì uscisse una tigre pronta a sbranarlo.

Prese il pezzo di carta tra le dita e lo staccò, inchinandosi accanto alla luce per poter leggere meglio quanto vi era scritto.

 

So che preferiresti spararti alle palle piuttosto che cenare con noi.

Spero ti piaccia il polpettone, comunque. Buon appetito. J.

 

La grafia era tondeggiante e precisa, la parola “palle” era stata cancellata e poi riscritta accanto.

Daniel inarcò un sopracciglio e si diede dell’idiota quando sentì affiorargli un sorriso sulle labbra.

Accartocciò il biglietto nella mano e fissò il piatto all’interno dell’elettrodomestico senza sapere bene cosa fare.

Quello era chiaramente un altro tentativo della rompiscatole di rendersi simpatica e sistemare le cose con lui. Perché era così interessata a farlo? Sensi di colpa? Non poteva semplicemente lasciarlo perdere? Sarebbe stato più semplice ignorarsi a vicenda.

Dopo aver origliato la conversazione tra lei e Delia, aveva creduto che Judith lo avrebbe considerato uno stronzo insensibile che si rifiutava di perdonare la madre malata, invece era stata stranamente gentile con lui quella mattina, si era persino scusata.

La cosa lo aveva mandato su tutte le furie, si era sentito preso in giro da quel sorriso amichevole, si era sentito come un cane randagio a cui era stato offerto, per pietà, del cibo avanzato.

Non sapeva proprio che farsene della pietà della ragazza, di amici ne aveva già – pochi ma buoni – a New York e nessuno di loro lo era diventato per compassione. Non amava circondarsi di gente falsa e ipocrita – non amava in generale circondarsi di troppa gente –, al liceo ne aveva conosciuta e frequentata abbastanza. Errori del passato.

Allungò la mano libera e piegò la bocca indeciso, poi fece girare la manopola del forno per spegnerlo e si rialzò.

Non aveva fame e non voleva nulla da lei. Quel comportamento era sospetto e Daniel era piuttosto diffidente di natura, soprattutto con le persone che si dimostravano improvvisamente cortesi.

Lo avrebbero mangiato loro il giorno dopo, riunendosi a tavola e raccontandosi amabilmente le loro giornate come una famiglia, mentre lui sarebbe stato in disparte come sempre, preferibilmente al lavoro.

Andò al piano di sopra e, dopo aver raccolto dal letto i pantaloni della tuta e la maglietta che usava per dormire, si chiuse in bagno e si fece una doccia.

Doveva assolutamente portare i suoi vestiti in lavanderia il giorno dopo, era bastato un giorno perché i tessuti assorbissero gli odori del locale. Puzzavano di fritto, di carne abbrustolita e di sudore.

Uscì dal bagno e passò in silenzio davanti alla porta chiusa della stanza da letto di Delia, Richard e dell’odiosa rompiscatole.

Certo che era davvero deprimente andare a dormire alle dieci e mezza di sera, lui era abituato a restare alzato anche tutta la notte. Doveva abituarsi ancora agli orari assurdi di quel posto.

A fargli quasi venire un infarto fu un’ombra accanto alla sua camera. Gli ci volle qualche secondo per riconoscerla, l’altezza e l’esile corporatura non gli lasciavano molti dubbi.

“Non ti hanno mai detto che è un peccato sprecare il cibo?” Esordì così Judith, in tono leggero e colloquiale.

Perché diavolo girava così furtivamente e al buio davanti alla sua porta? E dove cavolo era prima? Quella ragazza era dannatamente inquietante.

A quanto poteva vedere dalla scarsa illuminazione aveva i capelli raccolti e indossava una maglia a maniche lunghe e un paio di pantaloncini corti che le lasciavano scoperte le lunghe gambe. Deglutì a vuoto e la sorpassò per entrare nella stanza senza degnarla di una risposta.

Accese l’abatjour sul comodino e aprì il primo cassetto con l’intenzione di tirare fuori la sua PSP.

“Potresti almeno rispondermi.”

Daniel finse uno sbadiglio e si buttò a pancia in su sul letto, in mano il dischetto del gioco Assassin’s Creed II Brotherhood.

La principessina si stava irritando. Poteva fingersi gentile quanto voleva, ma se ignorata finiva inevitabilmente con lo scaldarsi, Dan questo lo aveva capito.

Ok, bene, continua pure ad ignorarmi.” Sbottò piccata, incrociando le braccia al petto e fissandolo in cagnesco.

La prese in parola. Anche se, purtroppo, sentiva il suo sguardo su di sé, sentiva che lo stava osservando senza bisogno di alzare la testa per verificarlo.

Restarono in silenzio per un po’ e, per quanto cercasse di concentrarsi sul gioco, non riusciva proprio a non sentire il respiro affrettato di lei a pochi passi, non riusciva ad impedirsi di focalizzare la sua attenzione su quello. Tanto meno riusciva a fingere che lei non fosse lì, maledizione.

“Daniel?”

Sbatté le palpebre sorpreso e sollevò la testa. Non seppe dire cosa lo convinse a spostare lo sguardo su di lei; forse il modo in cui aveva pronunciato il suo nome – con una nota arrendevole, quasi dolce –, forse il fatto che lo avesse effettivamente appena chiamato per nome, cosa piuttosto rara.

Una luce vittoriosa le illuminò gli occhi quando si accorse di aver ottenuto la sua attenzione e lui si diede silenziosamente dell’idiota per esserci cascato così facilmente.

“Che vuoi? Non dovresti essere a nanna?” Disse infine, in tono sarcastico e con l’evidente intento di schernirla.

“Sono solo le dieci e mezza.” Replicò lei tranquilla, “Non dirmi che tu di solito vai a letto a quest’ora.” Lo sfidò corrugando la fronte.

Lui forzò un sorriso e trattenne un’imprecazione quando i soldati nemici lo uccisero nel gioco, “Tesoro, per me la serata alle dieci e mezza deve ancora iniziare.” A New York almeno. Lì alle dieci e mezza al massimo poteva iniziare la tombolata di beneficenza in chiesa.

“Bene. Perché vorrei parlarti.”

Di certo le serate che avrebbe potuto definire piacevoli non comprendevano quella seccatura. Se già il suo umore non era dei migliori, quella frase non fece che peggiorarlo.

“Dubito che possa interessarmi quello che hai da dirmi.”

Ma non aveva qualche cavolo di amico con cui uscire? Un ragazzo che la sopportasse? L’aveva scaricata pure la sua amica dai capelli rossi? Come biasimarla…

Jude fece un respiro profondo per cercare di calmarsi. Aveva rischiato di perdere il controllo e di augurargli di strozzarsi con quel polpettone dal primo momento in cui lo aveva incontrato in corridoio. Chi diavolo si credeva di essere? Con quell’aria arrogante…! Se ancora perdeva tempo dietro a lui era solo per Delia e per quella promessa che le aveva fatto.

“Senti, non avrei dovuto chiedere a tua madre di parlarmi del vostro rapporto, mi dispiace di averlo fatto e di aver invaso la tua privacy.” Iniziò a passeggiare per la stanza e a sfregarsi le mani tra loro con evidente nervosismo. “Ero curiosa” Ammise con riluttanza.

Sperava solo che quel patetico discorso risultasse credibile e servisse a qualcosa.

“Vorrei mettere comunque in chiaro una cosa….” Voltò la testa nella sua direzione, sforzandosi di guardarlo in faccia e di non lasciar vagare gli occhi sul suo corpo.

Da quando si era stravaccato scompostamente sul suo letto la maglietta gli si era alzata fin troppo, lasciando scoperta e ben visibile una porzione di pancia che stava tentando disperatamente di non guardare. Santo cielo, non poteva darsi un po’ di contegno?

Si schiarì la voce, “Tu non mi fai pena.” Precisò in tono conciso, le mani puntellate sui fianchi, “Posso dispiacermi per te e per quello che ti è successo, ma la pietà è un’altra cosa.”

Daniel alzò appena un sopracciglio, la bocca piegata in una smorfia insofferente, “Okay. Hai finito?” Chiese con calma.

“No.” Calò appena le palpebre irritata, “Se ho deciso di scusarmi e di chiederti di ricominciare è perché mi sono resa conto del mio comportamento scorretto nei tuoi confronti e ho voluto rimediare.” Oh, come suonava matura e decisa alle sue orecchie! Il suo discorso non faceva una sola piccola, minuscola piega.

“Non per compassione. Non sono tipo da compatire così facilmente gli altri.

Era vero. In genere era piuttosto dura e severa con chi aveva sofferto e non faceva nulla per rimboccarsi le maniche e andare avanti, con chi si compiangeva e basta. Lei aveva sofferto quando era rimasta sola con suo padre, eppure si era fatta forza e aveva proseguito la sua vita anche senza una figura materna accanto.

Lui la osservò per un po’, così intensamente da farla sentire tremendamente a disagio. Jude ebbe l’impressione che stesse cercando di leggerle dentro, di capire qualcosa in più di lei dopo quell’ultima frase.

Distolse lo sguardo e congiunse le mani a disagio, “Bene. Ho finito.” Sfregò la punta della pantofola sulla moquette, chiedendosi quanto stesse risultando patetica da uno a cento.

Di sfuggita, lo vide mettere da parte quell’odioso e stupido giochino nero che aveva in mano e socchiudere gli occhi in un modo che a lei parve quasi minaccioso.

Perché non diceva più nulla? Le andava bene anche una frase sarcastica. Non le piaceva essere squadrata in quel modo, si sentiva indifesa.

Aspettava una sua risposta, un segno, un qualcosa che le facesse capire se era riuscita anche solo a scalfire quel muro che lui aveva eretto tra di loro.

Quando Daniel, finalmente, parlò – con voce bassa e controllata, scandendo bene e lentamente le parole –, a Jude sembrò quasi che fossero passati minuti interi.

“Dov’è tua madre?”

Avvertì un guizzo nel petto, qualcosa smuoversi con una violenza che la sconvolse e la lasciò senza fiato.

Si era aspettata di tutto; una risata, una battuta, un insulto, uno sgarbato “sparisci”, aveva persino preso in considerazione l’idea che accettasse le sue patetiche scuse, ma non immaginava che Daniel le domandasse una cosa del genere.

Sentì un fastidioso pizzicore al naso e sbatté le palpebre per scacciare via quel velo umido che stava iniziando ad appannarle la vista.

Merda.

Era cresciuta senza una madre, doveva essere abituata a quel genere di domande.

Aveva sempre messo da parte il dolore, la rabbia e il rancore provati nei suoi confronti per lasciar posto ad una totale indifferenza. Quando le sue compagne di classe alle elementari le chiedevano dove fosse, lei rispondeva con una scrollata di spalle e un “non ce l’ho”. Come se fosse nata da suo padre, come se suo padre l’avesse concepita da solo. Sua madre non era niente, nemmeno un’entità astratta nella sua testa, non esisteva semplicemente. Non poteva odiare o sentire la mancanza di qualcosa che non esisteva, questo si era sempre ripetuta.

Si era fatta forza negli anni, anche e soprattutto per suo padre, aveva pianto da sola nella sua cameretta solo qualche volta da piccola, ma poi era andata avanti e aveva smesso di pensarci.

Si umettò appena le labbra, la gola secca e in fiamme così come le guance. Sapeva perché glielo aveva chiesto, per stabilire una sorta di equilibrio, di parità. Lei era a conoscenza di quanto successo tra lui e sua madre, lui no.

Ciò non cambiava comunque le cose, quella domanda l’aveva colta completamente alla sprovvista come uno schiaffo in pieno viso. Non aveva avuto il tempo di proteggersi, di prepararsi una reazione, una frase da dire.

Lui attese paziente e impassibile che rispondesse; se si fosse o no accorto di quel tentennamento non lo diede a vedere.

“Se n’è andata quando avevo tre anni, non la ricordo.” Mormorò infine, in tono neutro e senza un briciolo di emozione nella voce.

Per lei era facile, all’occorrenza, scacciare il ricordo di sua madre in un angolino buio della sua mente, un angolo nascosto e insignificante da cui si teneva alla larga.

Sperò che non le chiedesse altro, con quell’ultima precisazione aveva voluto proteggersi da un qualsiasi altro tentativo di chiedere spiegazioni. Non la ricordava, era la pura e semplice verità. Non avrebbe saputo rispondere a nessuna domanda su di lei.

Daniel abbassò lo sguardo e rimase in silenzio per una quantità di tempo che Jude iniziò a trovare insopportabile, probabilmente meditando sulle sue parole e cercando una risposta adatta alla situazione. Poi sospirò piano, passandosi una mano sul viso.

Ecco fatto, ora sarebbe arrivato il tipico “mi dispiace” di convenienza, quello di chi non sapeva che altro dire, quello di chi poco si dispiaceva in realtà. Una persona su dieci intendeva davvero quelle parole quando le pronunciava. Lei stessa faceva spesso parte di quei nove decimi.

Non dire mi dispiace, ti prego.

L’avrebbe guardata come una patetica bambina cresciuta senza mamma e in cerca di coccole, avrebbe pensato questo di lei, che fosse patetica. E in effetti lo era, che cosa le era venuto in mente di rispondere? Perché lo aveva fatto? Non poteva inventare qualche cavolata o eludere la domanda?

Lui parve valutare l’ipotesi di dire qualcosa – Judith osservò le sue labbra schiudersi con il cuore in gola –, forse di chiederle altro, poi ci ripensò e scosse la testa. “Scuse accettate. Buonanotte.” Ritornò al suo stupido giochino senza degnarla di un’ulteriore occhiata.

Tutto lì?

La ragazza cercò di affogare con forza la delusione – stupida, infantile e immotivata – che provò dentro di sé. Era frustrante essere congedata in quel modo, specie dopo essersi aperta così con lui e quasi umiliata per ottenere un minimo di reazione.

Gli fu comunque tacitamente grata per non aver pronunciato quelle due paroline inutili che tanto odiava, non avrebbe sopportato di sentirsele rivolgere da lui.

Conficcò le unghie nei palmi delle mani e si morse l’interno guancia, sentendosi stupida per aver sperato…

Cosa?

Che lui si sarebbe comportato diversamente dopo quella confessione?

Aveva accettato le sue scuse, era già qualcosa.

Il suo modo di fare irritante la indisponeva da morire, ma doveva ammettere a se stessa che una parte di lei, a malincuore, lo trovava tremendamente stuzzicante.

Daniel aveva eretto un muro fra di loro, c’era una barriera che le impediva di avvicinarsi. Era così dannatamente enigmatico, misterioso, scostante… l’opposto di quella cozza appiccicosa e stressante di Edward Russo; era una sfida e a lei tutto sommato le sfide erano sempre piaciute.

“Un’ultima cosa.” Si ricordò improvvisamente, stringendosi nelle spalle. Maledetto Jason e le sue idee.

“Domani sera c’è una festa a casa di una mia amica. Cioè, non è proprio un’amica, è più una compagna di scuola. Un’odiosa compagna di scuola, in realtà. In effetti non so nemmeno perché abbia intenzione di andarci. Comunque pensavo di…” Non credeva che si potesse morire d’imbarazzo prima di allora, stava balbettando, santo cielo! E stava davvero per chiedergli di andarci con lei, dopo il modo da cafone in cui l’aveva liquidata! Ad una festa! Che cosa avrebbero pensato quelle pettegole della sua scuola se si fosse presentata con

“Okay, come ti pare.” Daniel alzò il braccio sinistro e mosse pigramente la mano per salutarla. O più precisamente per scacciarla.

Lei richiuse la bocca di scatto e strinse la mascella con forza. Idiota.

Saltargli addosso e strozzarlo non era un’opzione contemplabile. Doveva resistere e sopportare. Per Delia. Non importava se suo figlio le istigava violenza, lei era superiore a tutto. Tutto.

Si immaginò seduta sul tappeto del soggiorno, le gambe incrociate, le mani poggiate sulle ginocchia, il pollice e l’indice uniti, gli occhi chiusi.

Ommmm.

Che lo yoga sia con me, pensò, sbuffando dalle narici e rilassando i muscoli tesi.

Col cavolo che gli avrebbe chiesto di andarci con lei! Ma cosa si era messa in testa? Jason l’aveva contagiata con la sua idiozia, aveva ficcato della segatura nel suo cervello.

“Volevo solo dirti che dovrai arrangiarti con la cena perché Delia e mio padre saranno fuori. Buonanotte.” Sibilò gelida, uscendo svelta e silenziosa dalla stanza. Non sbatté nemmeno la porta dietro di sé, gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla arrabbiata se lo avesse fatto e non se lo meritava.

Idiota. Che se ne andasse al diavolo! Non era mica una santa lei e non aveva alcuna intenzione di mettersi in ridicolo più di quanto già non avesse fatto, aveva ancora una dignità da preservare!

Si buttò sul suo letto con foga, facendo finire a terra il ridicolo diario su cui ogni tanto scribacchiava i suoi sfoghi.

Aveva più la forma di un’agenda che di un diario dei segreti vero e proprio: niente cuori, niente pelo, niente rosa; quel colore nero e serioso la faceva sentire meno ragazzina e meno stupida quando scriveva su quelle pagine delle sue giornate.

Sbuffò e lo rimise al suo posto, sotto il materasso. Lo teneva nascosto sotto il materasso del suo letto di solito, ma non le era sembrata una buona idea lasciarlo in camera con quel cretino.

Incrociò le braccia sul cuscino e vi appoggiò il mento, lanciando un’occhiata alla figura addormentata di Delia sul letto matrimoniale accanto.

Non poteva deluderla, le aveva fatto una promessa. E, Dio, si sarebbe sentita troppo in colpa a non mantenerla se Delia nonostante le cure non fosse riuscita a… non riusciva nemmeno a pensarlo.

Avrebbe aiutato una donna a riavvicinarsi a suo figlio, avrebbe aiutato quella che per lei era sempre stata come una madre, a qualsiasi costo.

Non si era mai affezionata così tanto a nessuna delle fidanzate di suo padre, non ricordava di aver pensato a nessuna di loro come ad una donna con cui potersi confidare e da prendere come modello.

Sbadigliò. Un passo in avanti con coso lo aveva fatto tutto sommato: aveva accettato le sue scuse, era comunque un inizio. Le cose sarebbero andate meglio di giorno in giorno, anche perché peggio di così dubitava che potessero andare.

Ci avrebbe pensato il giorno dopo alla prossima mossa, ora era decisamente troppo stanca.

 

 

 

*Note della ritardataria, altresì chiamata “autrice”*

 

Ehm… dunque… ecco, direi di cominciare con un “ciao a tutte!”, sempre che ci sia ancora qualcuno che mi stia leggendo. Sono in ritardo, lo so, ma vi risparmierò una sequela di giustificazioni che non vi interessano per parlare un po’ di questo capitolo.

Un po’ di passaggio, ma sappiate che il prossimo capitolo, quello della festa, sogno di scriverlo da quando ho iniziato la storia. Ho quella scena in mente da anni e, per come è nella mia testa, è stupenda (mi sono innamorata così tanto del personaggio di Daniel proprio grazie a quello che succederà nel prossimo capitolo). Poi magari verrà fuori una merda quando lo scriverò eh – probabile, conoscendomi xD

Comunque, tornando a questo, sono stata un po’ cattiva con Jude, vero? Cioè, lui la tratta proprio con freddezza e non sembra minimamente interessato a lei.

Lei, invece, un pochino interessata lo è. Sicuramente non solo per la promessa fatta a Delia. Ma non dimentichiamoci di Evan, il fratello di Meg di cui è cotta, che nel prossimo capitolo verrà presentato ben bene. Peggio di Beautiful! :D

Poooi. Jude dice qualcosa su sua madre: naturalmente non si capisce molto di quello che è successo, se è morta o se è viva, perché se n’è andata; potrebbe esserle capitato di tutto. Anche questo si saprà più avanti.

Forse questo capitolo non sarà valsa l’attesa, non so davvero più in che modo scusarmi per il ritardo.

Spero con tutto il cuore che vi sia piaciuto e vi ringrazio infinitamente per i vostri meravigliosi commenti. Non so cos’ho fatto per meritarli, ma… GRAZIE, davvero.

Risponderò alle vostre recensioni man mano, come ho fatto per il capitolo scorso. E come sto cercando di fare un po’ in tutte le mie storie, giusto perché mi sembra meglio rispondervi singolarmente per dirvi quanto vi sono grata per le vostre parole e per il tempo che mi dedicate :)

Un bacione grandissimo! E giuro che non passerà più così tanto tempo per il prossimo capitolo, ne passerà mooolto di meno!

Bec

   
 
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