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Autore: Riflesso    29/05/2013    0 recensioni
Il sorriso sul volto del vecchio si distese ancora. Nella soffitta dove si era rifugiato, il sole del tardo pomeriggio penetrava a stento dalle persiane chiuse, illuminando il pavimento di scie dorate dove la polvere si alzava in un lenta danza ipnotica. La stanzetta bassa era ingombra di oggetti dimessi e impolverati... ma dietro le palpebre chiuse bussava il caldo sole dei suoi ricordi.
L'inizio è stato dato come tema di un contest
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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L'uomo sfogliava il diario, dalle pagine ingiallite e cartavetrate. Scorreva con le dita per leggere nonostante la vista ormai fosse affaticata. E quando non riuscì più a distinguere una riga dall'altra, un sorriso distese il suo volto rugoso, mentre la mente rincorreva il passato.
Chiuse gli occhi, appoggiandosi allo schienale della sedia a dondolo che cigolò appena, oscillando. Lasciò che i polpastrelli seguissero i segni sulla carta, accarezzandoli con amore, rincorrendo le lettere dalla grafia rotonda ed elegante che conosceva e amava. Anche senza guardare il foglio sapeva perfettamente cosa stava scritto in cima a quella pagina, tante erano le volte in cui aveva letto quei diari che avrebbe potuto citarne ampie parti a memoria.

Caro diario,
oggi ho conosciuto una persona...


Il sorriso sul volto del vecchio si distese ancora. Nella soffitta dove si era rifugiato, il sole del tardo pomeriggio penetrava a stento dalle persiane chiuse, illuminando il pavimento di scie dorate dove la polvere si alzava in un lenta danza ipnotica. La stanzetta bassa era ingombra di oggetti dimessi e impolverati... ma dietro le palpebre chiuse bussava il caldo sole dei suoi ricordi.

Era un pomeriggio d'estate. Lui, Giuseppe, aveva appena concluso la giornata di lavoro e con gli amici stava andando al solito bar per godersi uno dei pochi vizi che poteva concedersi: una birra in compagnia. La chiassosa combriccola di ragazzoni era ben conosciuta nel locale alla mano dove si incontravano quasi ogni sera e il proprietario era così abituato a vederli che non si lamentava neppure quando in cinque o sei potevano permettersi appena due birre... il gruppo di chiassosi italiani immigrati da poco era quasi un'attrazione per quel quartiere di periferia, dove comunque erano conosciuti come brave persone e volenterosi lavoratori.
Discutevano fra loro, ridendo e prendendosi bonariamente in giro mentre prendevano posto al solito tavolo all'esterno della bettola, dove l'odore dei vestiti da lavoro indossati per un intero giorno non sarebbe stato troppo di disturbo a nessuno.
- E tu da dove sei uscita?
L'esclamazione sorpresa, arrivava da Andrea, uno dei suoi amici. Il giovane si era bloccato nell'atto di sedersi e guardava con tanto d'occhi qualcuno dietro le sue spalle. Giuseppe si era girato incuriosito e... la sua espressione non aveva tardato ad emulare quella dell'amico.
Erano gli anni trenta e il mondo era ancora giovane e pieno di promesse... come quella ragazza che sorridente veniva verso di loro. Intimidita da tanti sguardi puntati addosso, aveva abbassato gli occhi scuri che andarono a nascondersi dietro i ricci corti che le incorniciavano il viso. Il suo sorriso disarmante, reso ancora più dolce dall'imbarazzo, non aveva però tardato a riaffacciarsi sui lineamenti delicati mentre la ragazza prendeva le ordinazioni e poi, più tardi, quando era tornata per servirli... sembrava che non potesse smettere mai di sorridere e Giuseppe non era riuscito più a staccare gli occhi da lei, incantato da ogni suo movimento ed espressione, dalla gentilezza che traspariva da lei in ogni minimo gesto.
Era rimasto silenzioso per tutto il tempo, seguendo con gli occhi l'andirivieni della nuova cameriera, storcendo il collo senza rendersene conto, per non perdersi neanche un suo passo, fino a che gli amici non avevano iniziato a prenderlo in giro. Ma a lui non era importato e con un sorriso ebete di scuse era poi tornato a fissare la bella ragazza.
Quel giorno aveva pensato che lei non lo avesse neppure visto... e invece...


Caro diario,
oggi ho conosciuto una persona... non l'ho proprio conosciuta, in realtà, visto che non so neppure come si chiama! Ero al bar ad aiutare lo zio ed è arrivato un gruppo di ragazzi, tutti sporchi e zozzi come caproni, tanto che se devo dire il vero la prima cosa che ho pensato è quanto puzzassero! Ma poi ho visto lui... non saprei descrivertelo, se non dicendo che è bello. Perfino con quella camicia lurida e rattoppata non riuscivo a smettere di guardarlo. Spero non se ne sia accorto... e spero di vederlo ancora. Zio ha detto che son lì tutte le sere e io mi sono offerta di aiutarlo anche domani.
Che vergogna! Sono proprio una sfrontata!


Chissà perché, ma Giuseppe non ci leggeva neppure un po’ di vergogna in quelle parole. Semmai una vena di compiacimento.
Da quel giorno non aveva mancato una sera di farsi vedere al bar... ma era passata più di una settimana prima di avere il coraggio di chiederle anche solo il nome.
- Evelyn
Pronunciò ad alta voce assaporando il suono del suo nome, che gli rotolava sulla lingua evocando la dolcezza della persona che lo portava. Mormorò qualcosa, come se parlasse a qualcuno, tenendo ostinatamente gli inutili occhi chiusi... ma non c'era nessuno con lui nella soffitta in penombra: solo lui e i vecchi diari e forse il topo che aveva fatto il nido dietro la cassapanca... se non se n'era già andato con tutta la sua famiglia sentendo l'abbandono pervadere la casa.
Riaprì gli occhi e il sorriso scomparve dalle rughe che continuavano imperterrite a deturpare il volto una volta bello e forte. Della mascella volitiva che aveva tanto amato la sua Evelyn non rimaneva che un riflesso distorto e rinsecchito, così come le mani grandi e forti che l'avevano abbracciata, mesi e mesi dopo quel loro primo incontro, disfatte e distorte dall'artrite e da una vita di lavoro.

Una risata subito soffocata arrivò dal piano di sotto. Giuseppe se ne sentì ferito.
Non voleva arrabbiarsi e sapeva che lì così si usava, con quella specie di festa per commiato... odiava quella tradizione! Sentiva il bisogno di star solo, di rifugiarsi nel silenzio e nei ricordi almeno ancora un poco.
Dopo, forse, sarebbe sceso dabbasso: se quelle persone erano lì era anche per rispetto a lui ma, davvero, non riusciva ad accettarlo.
- Evelyn, Evelyn... ma che mondo di pazzi!
Mormorò parlando a nessuno. Le dita contorte si strinsero sui braccioli della sedia per far forza. Le ginocchia gemettero nello sforzo di sostenere il corpo dopo tanta immobilità e per un attimo rimase fermo, per metà sulle gambe e per metà sulla sedia, cercando l'equilibrio. La schiena curva, il corpo consumato... del suo metro e ottanta aveva perso almeno venti centimetri e diversi chili, soprattutto nell'ultimo penoso mese. Di lui rimaneva un giungo storto pronto a cedere del tutto.
Ed esattamente come un ramo troppo vecchio e secchio si sentiva: inutile e senza scopo.
Borbottando fra se accennò qualche passo verso la cassa.

- Sai dove tengo i miei quaderni?
Gli aveva chiesto l'adorata moglie poco più di un mese prima. Ovviamente Giuseppe lo sapeva: dopo una vita assieme certe cose non ti sfuggono...


Si avvicinò con lentezza e con gesti infinitamente cauti ripose il prezioso diario, scegliendone un altro per poi ripercorrere all'inverso i faticosi pochi passi che lo separavano dalla sedia.
Con un sospiro riuscì finalmente a sedersi.
Girò la prima pagina e cercò di distinguere la calligrafia di Evelyn che riempiva il foglio. Maiuscole piene di baffi e svolazzi, come piaceva a lei, e lettere piccole piccole, vicine vicine... la sua calligrafia era esattamente come la sua donna, piena di slanci e tenerezza.
Ma purtroppo riusciva a distinguere appena lo scritto. Più che altro lo immaginava. Una lacrima si formò all'angolo dell'occhio destro e si impigliò nelle rughe... Giuseppe non ci fece caso. Richiuse gli occhi e tornò fra i suoi ricordi, accarezzando le pagine del suo tesoro
 
- Ti ricordi che litigata per il suo nome?
Evelyn era distesa a letto. Fra il bianco delle lenzuola d’ospedale sembrava anche più pallida e smagrita, ma il suo viso splendeva e gli occhi vivi lo scrutavano in cerca dell’appoggio a quell’attimo di gioia da condividere.
Non poteva che sorridere in risposta, nonostante la schiena dolorante per le troppe ore passate su quella scomoda sedia, al suo fianco, nonostante le gambe intorpidite, la stanchezza e la preoccupazione. Quando sua moglie sorrideva così, per lui il mondo attorno impallidiva concentrando tutta la luce e il colore su di lei.
- Come potrei dimenticarlo?
Aveva risposto con  voce rotta. Con il passare degli anni si era fatta esile e bassa, mentre quella di lei gli pareva immutata. Sempre bellissima, sempre vivace e dolce... tante volte si era chiesto come potesse una donna tanto splendida aver scelto proprio lui, che non era diventato altro che un vecchio brontolone macilento.
- Volevi chiamarlo Antonio, come tuo papà. Ma come si fa a chiamare un bambino con un nome tanto strano?!
Evelyn aveva incrociato le braccia scheletriche sul petto, mettendo su un broncio offeso... lo stesso di cinquant’anni prima, e Giuseppe rise di gusto, amandola esattamente come allora.
A lei, Americana, i nomi usuali della sua famiglia italiana sembravano talmente assurdi che anche allora non aveva voluto sentire ragioni.
Stavano leggendo assieme i diari della moglie, come gli aveva chiesto, rivivendo tutta la loro vita attraverso quegli scritti. Sesant’anni di relazioni puntuali e alle volte veementi degli accadimenti di ogni giorno. Quella pagina in particolare raccontava sul loro diverbio riguardo il nome da dare al bambino, il loro primo figlio, che poi sarebbe stato loro malgrado l’unico.
- E tu che volevi chiamarla Mariarosa, allora?
La punzecchiò il marito, ridendo sotto i baffi e già pregustando lo scatto consueto che sempre seguiva quella battuta. Non venne deluso: Evelyn sbuffò e gesticolando spiegò con la forza di sempre:
- Non volevo affatto chiamarla Mariarosa, ma Rosmary, come la mamma!
Si erano infine accordati su un compromesso alquanto curioso perfino per loro: se fosse nato un bambino l’avrebbero chiamato come il padre di lui, ma all’inglese... se avessero avuto una femmina avrebbe preso invece il nome della madre di lei italianizzato. Quando infine Anthony era nato quelle discussioni erano state semplicemente eclissate dalla loro gioia.
Lo sapevano e lo ricordavano entrambi e per questo potevano oggi riderne. E lo fecero, con il trasporto e lo slancio che possono esserci solo nei momenti che precedono un addio.
Quando Evelyn si era fatta improvvisamente seria, Giuseppe aveva avuto paura e le aveva cercato la mano. Guardandola negli occhi che si appannavano impercettibilmente, aveva intrecciato le dita con le sue, lunghe e delicate. Fragili.
- Sai perché ho voluto che leggessimo insieme queste sciocchezze?
Chiese lei con un sorriso. Giuseppe scosse la testa, non fidandosi a parlare. Sentiva un nodo salirgli nella gola e la paura prenderlo al petto. Strinse di più la piccola mano, ma non troppo per non farle male, accarezzandola piano con il pollice perché sentisse il suo affetto.
- Perché voglio che mi ricordi com’ero allora... non questo relitto che sono diventata.
Con la mano libera indicò se stessa. Sembrava così stanca e triste.
Giuseppe la guardò, ma non vide nessun relitto. Su quel letto d’ospedale, con i fini capelli bianchi che le facevano corona sul cuscino, incorniciando un viso scavato dalla pelle troppo fine e delicata... su quel letto c’era solo la donna che amava, la stessa che aveva incontrato in un bar un giorno d’estate e che l’aveva incantato con un solo sguardo, la stessa che aveva un giorno stretto con mani forti, che aveva portato in grembo suo figlio, con cui aveva discusso, riso, tribolato nei tempi più bui, condividendo una vita di sacrifici e gioie.
Gli occhi dolci e tristi della sua donna non avevano nulla da invidiare a quelli scuri dalle lunghe ciglia che aveva incontrato il primo giorno,  semplicemente perché erano gli stessi.
Avrebbe voluto dirle questo e tante altre cose, per rassicurarla e vederla ancora una volta sorridere, ma mentre la coscienza l’abbandonava riuscì solo a mormorarle ancor una volta quanto l’amasse tenendole la mano.
 
Giuseppe si riscosse dal suo torpore e aprendo gli occhi si guardò attorno. Era quasi buio: doveva essersi assopito.
Dal basso non arrivavano più i rumori della veglia funebre. Non doveva esserci più nessuno che rideva e mangiava alla memoria della sua Evelyn... sapeva di essere ingiusto con quella gente che dopotutto era lì per testimoniare l’affetto che li legava ed era grato ad Anthony per essersi sobbarcato tutti i preparativi.
Lui, davvero, non ce la faceva.
Sospirò e fece forza sui braccioli della sedia per tirarsi in piedi... di nuovo quel gesto lo vece sentire vecchio e inutile... e solo. Lasciò perdere e rinunciò al tentativo, tornando ad appoggiarsi allo schienale.
Le lacrime avevano preso a scorrere liberamente sul viso, ormai indomabili dopo giorni passati a trattenersi, fino a prorompere in singhiozzi che scuotevano le spalle già curve.
Un mormorio che era un richiamo, una preghiera, che si riduceva ad un unico nome da invocare...
- Evelyn
Il dolore della perdita si ingigantì, prendendo consistenza nel suo petto, scuotendolo fin nelle viscere fino a che non divenne fisico. Ma nonostante il male nulla poteva distoglierlo dalla sua anima straziata.
 Il cuore mancò un battito e poi due. Infine tacque, riunendoli ancora una volta, per sempre.
  
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