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Autore: Antilla    31/05/2013    1 recensioni
Non importa che tu non l'abbia mai cercato o abbia smesso di farlo, quando l'amore arriva puoi solo dir di sì.
AU meeting. Detective!Blaine.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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When love comes. 
 

Le sale d’aspetto degli investigatori privati sono proprio come le si vedono  nei film.
I muri sono grigi, spenti, vuoti. 
Le persone tristi, angosciate, pensierose. 
I divani di pelle marrone sono consumati e sudici. 
L’aria puzza di malinconia, di disperazione e di un deodorante per ambienti alla lavanda.
Potresti entrare qui dentro sentendoti la persona più felice del mondo e uscirne insoddisfatto della vita e solo, come se fosse l’unico sopravvissuto alla distruzione del pianeta.
La cosa che mi fa sentire peggio è che non sono qui per mia volontà, perché non sono io ad aver bisogno di qualcosa.
Sono qui perché devo un favore a Rachel Berry; ero convinto se ne fosse dimenticata, considerato che è stato al secondo che mi ha lasciato una canzone di Barbra per il Glee, ma evidentemente stava solo cercando il momento giusto per far rivalere i suoi diritti.
Il suo piano è alquanto diabolico: far seguire Brody Weston, per scoprire se ha davvero, come lei suppone, una tresca con la professoressa July e così incastrarla.
Dire che la odia è come dire che a me piace la moda: riduttivo.
 
La segretaria che mi ha fatto entrare è una ragazza dai tratti orientali e dall’abbigliamento vintage, colorato e eccentrico, in netto contrasto col grigiore del posto in cui lavora. Mi aspettavo una sessantenne con gli occhiali grandi poggianti sulla punta del naso e il viso pieno di grinze. Ad accompagnarmi in questa sala è stata invece una giovane, probabilmente della mia età, con il sorriso grande e la pelle levigata.
Mi ha dato una buona impressione, anche se ha perso punti con l’abbinamento rosso/rosa da confetto.
 
Adocchio sul tavolino impolverato al centro della sala delle riviste; le controllo ad una a una per scoprire che la più recente risale a sei mesi fa. Mi do dello stupido ad aver pensato che avrei potuto trovare qualcosa di accettabile qui dentro. 
Non c’è nessun altro in questa stanza e la cosa mi fa aprire la mente a due possibilità. 
La prima è che non ci sono tanti ossessionati come Rachel Berry, la qual cosa mi fa tirare un sospiro di sollievo.
La seconda è che questo investigatore non è poi tanto bravo come diceva la ragazza della caffetteria di fronte il mio ufficio. Mi piace come fa il caffè e il fatto che mi passa sempre dei biscotti extra, ma forse coi consigli non è proprio ferrata.
 
Sono già diversi minuti che sono seduto su questa poltroncina tanto comoda quanto pulita e l’unica cosa che riesco a pensare è che darò fuoco a questo completo una volta tornato a casa. Mi maledico per aver indossato questi pantaloni: mi stanno d’incanto.
Sono perso nella contemplazione del mio impeccabile outfit, quando la ragazza rientra e mi dice che posso entrare, che mi sta già aspettando.
 
Le ginocchia mi tremano come quando ho fatto il colloquio per Vogue.com. In quel caso, la conversazione si spogliò dell’imbarazzo alla terza parola, ma stavolta ho la netta sensazione che le cose non andranno proprio allo stesso modo.
 
 
Quando metto piede nell’ufficio, gli occhi mi si chiudono di scatto.
La luce di questa stanza è abbagliante e non riesco a sopportare il cambio di luminosità. 
Riapro lentamente le palpebre e sembra che io mi sia catapultato in un’altra parte di NY, da un altro investigatore. 
Il pavimento è lucido e lindo,  i mobili puliti e messi nel posto giusto, le pareti perfettamente bianche e piene di foto mozzafiato, il ragazzo seduto alla scrivania bellissimo.
 
Mi prendo qualche secondo per osservare bene tutto, per guardare meglio lui.
Capelli corti, neri e ricci, non perfettamente pettinati, ma ordinati. Carnagione olivastra, pelle probabilmente setosa  al punto giusto. Ciglia lunghe e incurvate, Labbra carnose e rosa, quasi certamente ottime da mordere. 
Occhi grandi, a mandorla, verdi, marroni, dorati. Occhi puntati nei miei. Occhi che mi scrutano.
 
<Mi scusi.> dico, ormai certo di aver passato il limite tra guardare e fissare.
<Non si preoccupi.> risponde gentile  <Nessuno se lo aspetta così, quest’ufficio.> conclude.
 
Io non mi aspettavo così il signor Anderson a dire il vero, ma forse è meglio che lui non lo sappia questo; mi limito ad annuire e a guardarmi la punta delle mie perfette scarpe.
 
<Si accomodi.> mi invita finalmente, quando capisce che non ho intenzione di schiodarmi da lì senza che mi venga chiesto.
La sedia su cui mi siedo non ha nulla a che vedere con quella della sala d’aspetto. Questa è morbida, comoda e sa di buono. Sono convinto che anche il signor Anderson sappia di buono. 
Forse lui sa di aria pulita di campagna, di granelli di sabbia all’alba, di neve fresca sui dirupi in montagna.
Sarebbe meglio se sapesse di cheesecake ai lamponi. È la mia preferita.
 
***
 
Sta per entrare l’ennesimo cliente e il mio talento perde un altro pezzo. 
Mi sento sempre così ogni volta che qualcuno di nuovo fa ingresso da quella porta: il lavoro e la fatica fatti se ne vanno per far spazio alla necessità di mangiare.
 
Volevo arrivare lontano con la mia fotografia, volevo fare grandi cose e ampie mostre. Desideravo girare il mondo e scoprirne gli angoli più nascosti, le prospettive più distorte, le bellezze più profonde. Sognavo di cercare fuori di me tutto quello che dentro non avevo trovato. Scattare foto significava colmare il mio vuoto.
Ora scattare foto significa solo riempire il mio portafogli.
 
C’è chi nasce con l’idea di fare l’investigatore privato; molti miei compagni del college puntavano solo a quello, cancellando dalle loro menti la parola Arte. Purtroppo io non sono mai stato come loro, non ho mai ambito a farmi i fatti degli altri, a scoprire chi fossero i traditori di questa città: se devo essere sincero, l’idea mi ha sempre fatto un po’ pena. Ma quando non fanno altro che sbatterti la porta in faccia, ti rendi conto che la vita non è sempre come la vuoi e che delle volte bisogna semplicemente arrendersi. 
Quando l’ho fatto ho smesso di vivere e ho cominciato a sopravvivere.
 
Poco fa Tina mi ha detto che stava per entrare Kurt Hummel.
<Il solito marito disperato> ho commentato io, come sempre. È solita ridere a queste parole. Oggi invece mi ha solo sorriso e mi ha fatto l’occhiolino. 
Non ci ho fatto caso.
Ma ora che però questo Kurt è entrato, capisco perfettamente.
 
È bello da star male.
Si ferma anche lui sulla porta, come fanno tutti, ma invece di aprirsi in un’espressione allibita, sembra compiaciuto di quello che vede, quasi contento. Io lo divento istantaneamente quando il suo sguardo si posa su di me.
Mi toglie il fiato.
Abbandono il cinismo, metto la timidezza da un lato -  ho quasi venticinque anni e ancora non me ne sono sbarazzato -, e lo invito ad accomodarsi. Lo fa senza esitare. 
Mi presento e gli chiedo di raccontarmi tutto. 
Sembra titubante all’inizio, se ne sta sulle sue, ma dopo la terza parola diventa un treno in corsa: deciso, lineare, sicuro.
Mi incanto ad ascoltarlo e per quanto siano in centinaia a dirmi che “È per un’amica” io a lui credo. Ha la sincerità stampata negli occhi, la verità tra i palmi delle mani che non fa che toccarsi.
La sua voce è alta ma dolce; se parlasse più lentamente sarebbe una perfetta sinfonia. 
Racconta di un’amica pazza con qualche rotella mancante, del suo odio per la sua docente – ammetto di essermi perso il passaggio sulla moda per lui – e di questo ragazzo, che è poi quello che dovrei seguire, a sua detta, completamente innocente.
 
Mi permetto di sorridere quando finisce di raccontare: non lo faccio mai coi clienti. Di solito sono sempre serio e professionale,  neanche una volta che mi sia fatto scappare qualcosa di emotivo o personale.
Ma Kurt Hummel è diverso. Lui non è un mio cliente, lui è un mio…amico?
No, forse amico è troppo poco. Lui è Qualcuno. 
No, non uno contro cui sbatti camminando sulla settima con un caffè in mano. Lui è davvero qualcuno. Lui sarà qualcuno, spero, per me.
 
<Sono tue queste foto?> chiede, indicando le pareti tutt’intorno. Credo lo dia quasi per scontato, come se abbia già rivisto me in esse.
C’è qualcosa tra di noi, lo avverto chiaramente, che va oltre, molto oltre, la relazione libero professionista-cliente.
C’è qualcosa che si sta insinuando sotto pelle, come un virus che infetta entrambi.
<Sono mie, sì.> rispondo. 
<Perchè non fai solo queste Bl.. Posso chiamarti Blaine?>

 

Mi limito ad annuire, mentre nella mia mente si formula la risposta che tengo per me.
 
“Perché non fai solo la mia musa, Ku..Posso chiamarti Kurt?
 
*** 
 
Esco da quest’angolo di paradiso dopo un’ora. Forse due. Blaine, così si chiama il signor Anderson che mi aspettavo antipatico e senza capelli, mi ha fulminato con il suo sorriso, mi ha incenerito il cuore.
Gli ho raccontato di tutto. Di Rachel, di Brody, di me.
Gli ho raccontato anche quello che non gli serviva sapere, come il mio posto di lavoro o il mio colore preferito. 
Ho descritto, parlato, narrato, e mai una volta che lui abbia perso l’attenzione – forse solo quando gli ho detto della moda.
Ha ascoltato, pazientato, capito. 
Gli ho dato le chiavi di una porta. 
Non ha avuto il bisogno di usarle: l’ha trovata aperta.
 
Domani sera vado con lui in missione, così la chiamo io, perché <Certo. Ci sono attimi che nemmeno una foto può catturare, può far condividere.>
Domani sera vado con lui perché forse ho trovato il mio posto. 
Quello che nemmeno stavo cercando.
 
*** 
 
Ho sempre pensato che la vita fosse ingiusta, che mi avesse tolto la mia arte, la mia fotografia. Ho sempre sostenuto che mi avesse messo lo sgambetto e che, facendomi cadere, mi avesse negato la possibilità di riempire quel vuoto che sento dentro. Giusto in mezzo al petto.
Un’ora fa, o forse due, ho scoperto che se quella stronza ti toglie qualcosa, poi te la ridà in un’altra forma. 
 
Kurt ha chiuso la porta dietro di se pochi minuti fa e ora non faccio che fissarla con la speranza che  la riapra. Desidero che mi menta dicendo di aver dimenticato qualcosa sulla scrivania o che non ricorda l’orario dell’appuntamento.
Ah, sì. Abbiamo un appuntamento. Una specie di appuntamento.
Domani sera viene con me, perché <Posso vivere con te l’istante in cui fermi il tempo?>.
Domani sera viene con me perché, senza saperlo, ho trovato quello che avevo smesso di cercare. 
 
Fine.
  
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