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Autore: Fiele    03/06/2013    1 recensioni
Fanfiction ispirata dalla doujinshi "To be human", in cui Veneziano, dal momento che l'Italia è unita e non ha bisogno di due rappresentanti, diventa umano lasciando la Nazione al fratello.
Ger/Ita, perché sono monotematica (lol).
Sapeva per certo che, se avesse udito quella voce implorarlo ancora, avrebbe ceduto. Dio, quanto gli sarebbe piaciuto cedere. Odiava essere debole, ma con Ludwig era diverso. Appartenergli, abbandonarsi a lui era un piacere incredibilmente dolce.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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1957.
 
 
Il giovane dal cappotto scuro era entrato nella libreria verso le cinque del pomeriggio, e non aveva voluto andar via fino a sera.
 
Era un giovane distinto, elegante, dai lineamenti perfetti ma contratti in un’espressione severa che gli dava più anni di quanti dovesse averne. I suoi occhi azzurri, duri e freddi come il ghiaccio, avevano guardato il ragazzino dietro alla cassa con uno sguardo che l’aveva trapassato da parte a parte, facendolo rabbrividire.
-Desidera?- aveva domandato il bambino, tentando di dominare la paura che quella figura gli incuteva.
L’uomo si era guardato intorno, facendo saettare lo sguardo tra gli scaffali ricolmi di libri polverosi.
-Cercavo Feliciano Vargas- aveva detto infine, con un forte accento tedesco. –Vive qui, non è vero?
-Papà è fuori per lavoro, al momento.
A quelle parole l’uomo aveva inarcato le sopracciglia. I suoi occhi erano stati oscurati da un’ombra di sorpresa. Sorpresa e anche qualcos’altro, qualcosa che Vincenzo non aveva compreso pienamente. Solo più tardi, molti anni dopo, avrebbe riconosciuto quello stesso sguardo negli occhi stanchi di un vecchio. Non era semplice tristezza: era la speranza che moriva, molto semplicemente.
-Posso aspettare- aveva detto poi, con voce atona. Dopo aver esitato un poco aveva aggiunto una domanda, apparentemente innocente e priva di interesse, per fare conversazione. –Come ti chiami, ragazzino?
-Vincenzo.
-Quanti anni hai?
-Dieci.
-Quanti…- a quelle parole lo sguardo del tedesco si era nuovamente adombrato –Quanti anni ha tuo padre?
Era una domanda curiosa, senza dubbio: anni dopo Vincenzo se ne sarebbe reso conto. All’epoca, tuttavia, era soltanto un bambino, perciò non lo realizzò.
-Trentadue.
Il sollievo aveva rilassato i muscoli contratti del volto dell’uomo. –Non è molto.
Non aveva aggiunto altro. Si era limitato a sedersi sulla sedia che Vincenzo gli aveva indicato ed aveva atteso, osservando con curiosità e – forse – lieve disprezzo l’ambiente circostante. La sua presenza elegante contrastava con la semplicità del negozio, e l’uomo sembrava esserne perfettamente consapevole. Pareva a disagio.
 
 
Verso le otto il campanello alla porta tintinnò con vivacità, annunciando il ritorno di suo padre.
-Vincenzo, sono…- le parole di Feliciano morirono ancor prima di uscire dalla sua gola, alla vista dell’uomo che lo aspettava in negozio. Il suo sorriso si spense all’istante.
L’uomo biondo accennò un sorriso, che in realtà non era altro che una fredda contrazione di muscoli. –Ciao.- si alzò in piedi: nonostante suo padre dovesse avere una decina di anni più di lui, lo sovrastava di un palmo.
Feliciano indietreggiò, divenendo improvvisamente pallido. Vincenzo osservò sgomento il padre perdere ogni controllo: immobile, la bocca leggermente aperta da cui non usciva alcun suono, guardava il tedesco con un lampo di terrore negli occhi.
-È passato…- l’uomo dallo sguardo di ghiaccio esitò, scegliendo con cura le parole –Qualche tempo dal nostro ultimo incontro.
Feliciano parve riprendere un po’ di colore; deglutì e riuscì ad annuire, stringendo i pugni. Finalmente parve ricordarsi della presenza di suo figlio: si voltò a fatica verso di lui e gli rivolse un sorriso tirato.
-Vincenzo, va’ di sopra a preparare la tavola. Io devo… dire due parole a questo signore.
La sua espressione dissuase il ragazzino da ogni proposito di protesta. Mormorò un assenso e scomparve dietro alla porta di legno che celava le scale; dopo aver salito qualche gradino, tuttavia, cambiò idea e tornò indietro: si avvicinò alla porta semichiusa e diede un’occhiata a ciò che stava accadendo all’interno del negozio.
 
-Vattene via, Ludwig.- quel mormorio sommesso non sembrava affatto la voce di suo padre.
-Non hai cambiato idea, quindi?- il tono del tedesco era sempre duro, ma Vincenzo intuì una nota di sofferenza in quelle parole.
-No- la voce di Feliciano era incrinata, come se stesse per piangere. Piangere? Quello era suo padre. Suo padre sorrideva sempre. Chi era quell’uomo che riusciva a turbarlo tanto? –Se sei qui per tentare di farmi cambiare idea, sappi che…
-Volevo solo vederti- lo interruppe Ludwig, brusco. –Non hai scritto né fatto visita a nessuno di noi. Tuo fratello…
-Non è passato molto tempo, in fondo.- Vincenzo riuscì a distinguere la figura del padre voltare le spalle a quella del giovane tedesco, che però allungò una mano per toccargli una spalla. Con immenso stupore del figlio, Feliciano non si ritrasse: ciononostante sembrò piegarsi sotto quel tocco, come se gli provocasse dolore. –Per voi, almeno.
-Ma tu sei già più…- la voce di Ludwig si affievolì, incapace di terminare la frase.
-Vecchio?
Sembrava riluttante a pronunciare quella terribile parola: la sua voce tremò e si dissolse all’istante, creando un’atmosfera gelida che anche Vincenzo, che non capiva nulla, percepì.
Ludwig ritrasse la mano. Quel gesto fu più che eloquente.
-Vattene, per favore- ripeté Feliciano, senza voltarsi per guardarlo negli occhi. Sotto lo sguardo attonito di Vincenzo, una singola lacrima solcò la sua guancia.
Ludwig sospirò, e sembrò improvvisamente molto più vecchio.
-Scriverai, almeno?
-No.
-Non te ne importa davvero nulla?
Ora Feliciano stava letteralmente singhiozzando, ma ancora dava le spalle al tedesco. Tremava.
-M’importa più di quanto pensi- riuscì a dire in un sussurro -È meglio così, credimi.
 
 
L’uomo dall’impermeabile scuro se n’era andato senza aggiungere altro, e non aveva più fatto ritorno.
 
 
 
 
 
*
 
 
 
1993.
 
 
-Ti avevo chiesto di non tornare.
Feliciano sbatté con forza il portone in legno e ci si appoggiò, tentando di controllare il tremore nella voce. Invano: non ne aveva la forza. Era stato troppo rivedere Ludwig alla porta, giovane e impeccabile come anni prima. La verità l’aveva colpito come uno schiaffo: non era passato “tanto tempo” dal loro ultimo incontro, come si ripeteva spesso. No, per Germania quegli anni dovevano essere trascorsi in un battito di ciglia. Ebbe l’improvvisa consapevolezza di quello che lui, un tempo una Nazione, era diventato: un insetto fragile, insignificante, la cui vita sarebbe durata troppo poco.
Un uomo.
 
Si coprì il volto rugoso con le mani e singhiozzò, sentendo le ginocchia cedere. Cadde in terra, ed un dolore fin troppo acuto gli strappò un gemito: non era più giovane come un tempo. Ogni movimento era doloroso.
Ludwig, dall’altra parte del portone, bussò con prepotenza.
-Italia, ti prego…
-Non chiamarmi con quel nome!- si rese conto improvvisamente di quanto anche la sua voce dovesse essere cambiata. Un groppo in gola gli impedì per un attimo di continuare, e le parole che pronunciò furono dolorose e stridule. –Non devi vedermi. Non così… ti prego.- un altro singhiozzo gli scosse il petto.
-Non farebbe differenza per me, lo sai.
La voce di Ludwig era esattamente come la ricordava: severa, ma al tempo stesso calda e rassicurante. I ricordi dei momenti trascorsi con lui – le braccia forti che lo avvolgevano, i baci inizialmente colmi d’imbarazzo e poi di ardente desiderio, la tenerezza con cui l’aveva amato per la prima volta nella solitudine del rifugio sotterraneo, isolato dal mondo, mentre fuori le bombe distruggevano Berlino con un fragore che non raggiungeva i loro sensi inebriati – gli strapparono un altro gemito. Gli era mancato da morire, ma non poteva raggiungerlo: l’aveva perso per sempre.
-Voglio restare Veneziano nei tuoi ricordi- riuscì a dire, tremante –Voglio restare intatto, come… come l’ultima volta in cui ci siamo visti.
-Feli…
-Ricordami così, ti prego- lo interruppe. Sapeva per certo che, se avesse udito quella voce implorarlo ancora, avrebbe ceduto. Dio, quanto gli sarebbe piaciuto cedere. Odiava essere debole, ma con Ludwig era diverso. Appartenergli, abbandonarsi a lui era un piacere incredibilmente dolce.
No, ricordò, non posso permettermi di farlo.
Non era per Germania, no: si trattava di semplice egoismo. Amava Ludwig; non avrebbe sopportato che l’immagine che il tedesco aveva di lui si incrinasse nel vederlo. Nella sua memoria Feliciano sarebbe rimasto un giovane appena ventenne, in salute, senza il minimo segno di cedimento. L’avrebbe ricordato così, come quella volta a Berlino.
Ce l’avrebbe fatta, lo sapeva. Era sempre stato lui quello forte, e la situazione non era cambiata. Poteva illudersi che fosse così, ma sapeva per certo di essere debole come un tempo.
Forse anche di più.
Fuggiva. Fuggiva continuamente, ogni singolo giorno di quel che restava della sua vita. Era questo quello che facevano gli esseri umani, dunque? Si nutrivano di illusioni, voltandosi dall’altra parte di fronte all’evidenza della morte che incombeva sul loro capo?
Non aveva alcun senso dare valore ai giorni, se si era eterni. Aveva voluto provare l’ebbrezza del sentirsi finito, specialmente dopo la guerra. Gli era parsa una buona soluzione per porre un fine a tutta quella sofferenza.
Era stato uno stupido.
Era bastato sapere di avere i giorni contati perché si rendesse improvvisamente conto di quanto ancora desiderasse vivere. Come ogni umano, desiderava l’infinito.
Era stato uno stupido, sì. E un codardo – come sempre – perché non aveva nemmeno avuto il coraggio di guardare Ludwig negli occhi, l’ultima volta che si erano visti. Ogni parola che aveva pronunciato quel giorno, tentando invano di apparire distaccato, era stata più dolorosa di qualsiasi guerra. Aveva finalmente sentito la morte, tanto temuta dagli umani e, tuttavia, da lui in precedenza tanto agognata. Era morto un poco ad ogni parola.
 
 
-Italia, puoi ancora tornare.
Non era vero, lo sapeva. Era soltanto un’inutile speranza a cui si aggrappava per non disperare. Lo sapevano entrambi.
 
Nonostante ciò, non poteva ammetterlo: sarebbe stato troppo.
-Non voglio tornare- si costrinse a dire, con un tono di voce più calmo. Lacrime di amarezza gli solcarono le guance ormai scavate, seguendo le linee di quelle rughe che mai avrebbe pensato di avere. –Sto bene qui. Non tornerei indietro, se anche potessi farlo.
Così mentiva ancora, fingendo di accettare la sua condizione, di non disperarsi all’idea della morte.
Era così umano.
 
Udì il tedesco sospirare e maledisse tutti i confini che impedivano loro di parlarsi sinceramente. C’era ancora così tanto da dire; eppure quelle parole sarebbero rimaste inespresse in eterno. No, “eterno” non era la parola adatta: quelle parole erano morte ancor prima di nascere.
Di nuovo, era così umano. Orribilmente, disgustosamente umano.
 
-Mi mancherai. Avrei dovuto dirtelo prima- Ludwig esitò, come se volesse aggiungere qualcosa.
Ma non aggiunse altro.
 
-Prometti di ricordarmi, almeno?- singhiozzò l’italiano in un sussurro. Il dolore gli trafiggeva il petto; come se fosse stata una lama, sentiva il sangue ed il calore defluire dal corpo, lasciandolo freddo e…
 
morto.
 
-Lo prometto.- Ludwig era forte, molto più forte di lui. L’avrebbe superato, anche se la sua voce un tempo impassibile era incrinata e ricordava quella di un vecchio che ha visto troppa morte.
Sarebbe sopravvissuto.
 
Feliciano sorrise. Germania sarebbe sopravvissuto e l’avrebbe ricordato. Sarebbe vissuto nei ricordi di Ludwig non come un vecchio debole e codardo, ma come il giovane allegro che aveva amato.
 
 
Era tutto ciò che un umano poteva desiderare, dopotutto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



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È scandaloso che il mio blocco dello scrittore debba terminare per farmi scrivere oneshot a caso e poi ritorni quando mi tornano in mente tutte le long che devo portare avanti. Scandaloso. Comunque sia, ieri ho ascoltato la canzone “Io lavoro all’inferno” che, nonostante non c’entri assolutamente nulla con tutto ciò, mi ha ispirato questa oneshot. Capita, lol.
Le ripetizioni sono volute, per rendere l’idea di Feliciano che continua a ripetersi una falsa verità tentando di convincersi. Qualsiasi altro errore è causato dalla lezione di Latino, perché è noiosa e nonostante ciò riesce a distrarmi. E tipo non sento più la mia beta da quando è partita per l’Islanda un secolo fa, lol.

Il nome “Vincenzo” è assolutamente casuale, mi sembrava ci stesse bene. Feliciano lavora in una libreria per via di un mio complesso viaggio mentale causato dalla lettura de “L’ombra del vento” (prima di leggere quel dannato libro io ero convinta di saper scrivere. Piango). Ho deciso di mantenere questa scelta perché l’Italia può vantare grandi autori.

Che dire, grazie mille per aver letto. Al solito, i commenti (anche e soprattutto se si tratta di critiche costruttive) sono più che graditi <3 

p.s. Che io non so mettere i titoli è risaputo. 
  
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