Can I sleep with you?
Mi
consideravo un ragazzo popolare, uno di quelli
che se la tirava sempre, e di brutto anche. Non prendevo mai sul serio
i
sentimenti delle persone, avevo l’abitudine di passare il
tempo con loro,
usarle e poi farle a un lato appena mi fossi stufato. Spesso mi
dicevano che
non era giusto, che in questo modo le facevo soffrire, ma secondo la
mia logica
tutto ciò che piaceva a me era giusto.
Era raro che mi piacesse qualcuno per davvero e, se
succedeva, di
solito la cotta non durava più di qualche settimana.
Sembravo proprio un tipo
freddo e senza sentimenti, eh? Ma anch'io mi ero illuso di
poter cambiare,
seppure un poco. Mi ero illuso di poter cambiare grazie a Lui.
Ho già detto che fino a “quel” momento
mi piacevano solo le ragazze? Ma il
sentimento che provavo per lui era immenso. Purtroppo però,
io non ho mai
creduto nell’amore eterno e, si sa, se non hai fiducia in
qualcosa questa non
si può avverare. E così mi ritrovai di nuovo con
un amore finito tra le mani.
Ma, tutto sommato, ogni volta che ci ripenso mi viene un tuffo al
cuore. Quando
ricordo i bei momenti che abbiamo passato insieme non posso far altro
che
sentirmi felice
e, allo stesso tempo malinconico, perché per colpa mia tutto
ciò è andato a
rotoli.
Ma il mio non è stato un completo fallimento:
quell’amore ormai è finito, ma la
passione che mi travolgeva rimarrà per sempre con me, a
farmi compagnia.
-
Avevo l’abitudine di non dare retta a tutte le dichiarazioni
d’amore che ogni
giorno mi ritrovavo nel mio armadietto di scuola. Erano davvero tante e
ciò mi
faceva sentire bene; sinceramente, non credevo che ci fosse qualcuno
che ne
ricevesse più di me.
Ma il fato, o destino, volle che al poco tempo mi collocassero un
"vicino
di armadietto" alquanto irritante per il mio ego, ossia Mikoto Hotsuda;
ogni benedetta volta che apriva il suo di armadietto ne trovava
talmente tante
di lettere, di ogni tipo, che esse straripavano ed in confronto le mie
sembravano solo un paio di biglietti promozionali.
Non mi era mai passato per la testa che quelle in realtà non
fossero
dichiarazioni d’amore, ma qualcos’altro, e
ciò mi spingeva a rodere
dall'invidia ogni qualvolta le vedevo.
Non riuscivo a trovare in lui niente di particolare: era un ragazzo
normale,
come tutti, con i capelli e gli occhi neri e una statura alquanto
minuta. Non
riuscivo a capire come facesse a battermi in campo di conquiste.
E così, forse per invidia o forse perché stavo
già iniziando a provare qualcosa
per lui (e non me ne ero reso conto, mascherando il tutto sotto falsa
gelosia),
gli lasciai anch’io un bigliettino dove lo invitavo a uscire
con me. Ovviamente
non lo avevo firmato, ma lui riconobbe subito la mia calligrafia: non
per
niente era anche il mio compagno di banco.
Quando lo vide, mi guardò con occhi diffidenti e mi
squadrò da capo a piedi.
Credevo che volesse cantarmele di santa ragione, ma si
limitò a scuotere le
spalle e a chiedermi la data e il luogo dell’appuntamento.
Una volta che gli
risposi, mi voltò le spalle e, senza neanche salutarmi, se
ne andò.
Mi sentii ribollire il sangue dentro, ma forse fu quel gesto che
risvegliò in
me il mio lato masochista.
Ci dovevamo vedere quello stesso pomeriggio. Non era certo un tipo
espansivo
quel ragazzo, anzi.
Quando gli domandavo qualcosa si limitava a rispondere a monosillabi.
Oppure
proprio non rispondeva. Mi dava fastidio il fatto che avesse tanti
ammiratori
nonostante il suo palese caratteraccio e, a quel punto, mi iniziava a
sembrare
strano che gli dessi così tanto peso. Credevo fosse invidia,
ma già alla fine
dell’appuntamento ebbi avuto modo di ricredermi: stava
sbocciando l’amore. Almeno
da parte mia.
E, malgrado non se ne fosse nemmeno ancora andato, già mi
doleva il cuore al
pensare a quando ci fossimo separati. Volevo continuare a parlargli,
senza mai
smettere.
Credevo fosse la volta buona per cambiare.
Immaginate quindi la mia felicità quando mi
invitò a passare la notte a casa
sua: mi vennero, letteralmente, “le farfalle nello
stomaco”. Il suo
appartamento era molto lontano dal posto in cui ci trovavamo ma con un
po’ di
buona volontà riuscimmo ad arrivarci senza troppi problemi.
Non vedevo l’ora di
vedere il posto dove viveva, di conoscere nuove cose su di lui che non
fossero
il suo sguardo e la sua voce monotona. È incredibile quanto
i tuoi sentimenti
possano cambiare nel giro di un paio d’ore, vero?
Ma, subito dopo aver varcato la soglia di casa, il suo atteggiamento
cambiò. Si
chiuse la porta alle spalle, senza far rumore, e senza preavviso me lo
ritrovai
avvinghiato al collo, le sue labbra contro le mie, che mi baciavano
violentemente.
Rimasi un attimo impietrito, indeciso sul da farsi, ma poi ruppi il
bacio e lo
respinsi. Lui mi guardò sorpreso, come se non si aspettasse
quella reazione.
Cos’è, si credeva talmente affascinante da
escludere l'eventualità che io
potessi non volere? Fu quello che pensai in un primo istante,
asciugandomi un
rivolo di saliva che mi colava ai lati della bocca. Lui però
chinò la testa di
lato e con voce atona mi domandò:
-Che cosa vuoi, allora? -
Che cosa voleva dire? Era stato lui a portarmi a casa sua e a baciarmi
e adesso
mi chiedeva pure che cosa volevo. In quel momento non capii le sue
parole e lui
se ne accorse. Con un sospiro svogliato mi fece accomodare sul divano e
mi
raccontò: tutte le letterine che riceveva ogni giorno,
quelle che mi facevano
ingelosire così tanto, in realtà non
erano altro che richieste che
venivano da poveri alunni arrapati bisognosi di andare a letto con
qualcuno. E
così, leggendo quella cartolina, lui aveva pensato
che anch’io avessi le
stesse intenzioni e ne era rimasto un po’ diffidente dato che
credeva che potessi
avere tutte le ragazze che volevo. E anche ragazzi, diciamocelo.
Ascoltai il suo racconto sempre più sorpreso e anche un
po’ geloso. In poche
parole era la puttanella della scuola e molto probabilmente
l’unico a non
esserselo ancora fatto ero solo io. Tuttavia c’era ancora
tempo per quello:
prima volevo costruire attorno a noi una relazione solida e poi magari
si
sarebbe potuto pensare anche al sesso. Così gli spiegai le
mie intenzioni. Era
strano per me ragionare in quel modo, dato che di solito tendevo a fare
l’inverso. E spesso il secondo passo non c’era
neanche.
Mikoto mi guardava con fare annoiato e quando finii di parlare, i suoi
occhi
erano vacui e privi di qualsiasi luce. Scrollò le spalle e
disse che per lui
andava bene, che presto mi sarei stancato di avere al mio fianco uno
che andava
a letto con chiunque glielo chiedesse.
E lo ammetto: malgrado lo amassi in pochi giorni mi ritrovai a voler
avere una
corda tra le mani. Dopo alcuni tradimenti, di cui mi assunsi la colpa
per non
aver messo in chiaro le cose fin dal principio, tutto sembrò
iniziare a
marciare a gonfie vele.
I giorni passavano felici, almeno per me. Non avevo la più
pallida idea di cosa
provasse Mikoto dato che il suo viso era sempre al limite
dell’apatia, ma
quando provavo a farglielo notare mi diceva che dovevo solo essergli
grato per
il fatto che non mi avesse ancora lasciato. A detta sua ero troppo
insopportabile e snervante. Ciò sortiva in me
l’effetto di mandare la mia ira
alle stelle e, allo stesso tempo, alimentava il mio amore.
Ma quando Mikoto iniziò a sciogliersi e a diventare
più gentile, qualcosa in me
scattò. Qualcosa come… indifferenza. Il mio amore
si stava raffreddando e
quello di Mikoto stava nascendo.
Che cosa dovevo fare? Mi rendevo conto che avremmo sofferto entrambi se
avessimo
continuato di quel passo, ma chiuderla lì arrivati a quel
punto era
impossibile. Una volta che io iniziavo qualcosa la portavo sempre a
termine,
anche a costo di far soffrire la gente. Anzi, mi divertiva quasi il
poter
costatare con i miei occhi gli effetti che sortivo
Ma con lui era diverso. A mano a mano che il mio amore si freddava, il
senso di
colpa cresceva. Non potevo sopportare il fatto di farlo soffrire
così tanto,
non senza prima avvisarlo almeno riguardo a cosa stesse andando
incontro.
Così una bella giornata di inizio primavera, più
o meno, gli porsi un pezzo di
carta e una matita e gli dissi di scriverci sopra il mio nome. Lui mi
guardò
curioso e io deviai lo sguardo. Non potevo vedere quegli occhi che
prima
sembravano senza vita e adesso erano tutto un luccichio grazie a me
senza
sentirmi in colpa.
-Hikaru, cosa significa questo? Perché vuoi che scriva il
tuo nome qui? - mi
chiese.
Io gli risposi che a tempo debito avrebbe capito e non aggiunsi
nient’altro,
mordendomi il labbro nervosamente e sperando che non continuasse a fare
domande.
Restammo in silenzio per un attimo e poi lui fece come gli avevo detto:
scrisse
il mio nome su quel benedetto foglio, a matita ovviamente. Gli dissi di
non
perderlo. Era come se avesse firmato un contratto a tempo determinato.
Il mio
cuore gli sarebbe appartenuto ancora per poco.
Sorrisi, soddisfatto. Ora potevo sollevarmi da ogni
responsabilità perché io,
seppur indirettamente, un avviso gliel’avevo dato.
E continuammo con le nostre uscite pomeridiane: uscivamo da scuola,
mangiavamo,
facevano un po’ di giri insieme e chiacchieravamo. Poi
andavamo a casa sua, a
seconda delle nostre voglie facevamo i compiti, guardavamo film o ci
dedicavamo
ad altre attività più interessanti, e la sera mi
fermavo a dormire da lui. Andò
avanti così, tutti i giorni con la stessa routine, per un
paio di mesi.
Aveva imparato a sorridere con più frequenza, anche se
restavano poche le volte
in cui accennava anche solo minimamente ad un riso vero e proprio. Ed
era
quella parte sua ancora un po’ proibita che mi teneva legato
a lui. Non mi
piacevano le cose che si concedevano subito: io volevo qualcuno che
avesse un
che di misterioso, il fascino del proibito che non avrei mai potuto
svelare, e
lui faceva proprio al caso mio.
Non si concedeva più a tutti quelli che incontrava come
prima, ma credo fosse
dovuto al fatto che gliel’avessi proibito, per ovvi motivi.
Con me continuava a
fare ancora un po’ il prezioso e quel suo atteggiamento
manteneva viva, seppur
leggermente, la fiamma del mio amore.
Lui ci mise poco ad accorgersi che iniziavo a comportarmi in modo
strano, che
non lo corteggiavo più come prima, ma non ci diede molto
peso. Credeva che
avessi qualcosa che mi preoccupasse e siccome aveva l’indole
di uno che si
faceva sempre i fatti propri, non mi chiese mai che
cos’avessi e non tentò
nemmeno di riconquistarmi. Forse se ci avesse provato sarebbe cambiato
qualcosa.
Giocammo a fare i bei fidanzatini ancora per qualche
tempo, ma, come
temevo, il giorno in cui si doveva mettere la parola fine a
quell’amore ormai a
senso unico venne. E in un modo tragico e doloroso, sia per me che per
lui. Ero a casa di Mikoto, come al solito, quando
all’improvviso mi
accorsi che il mio telefono squillava. Mi dissero che mia madre aveva
avuto un
incidente e che dovevo andare di corsa all’ospedale. Presi il
giubbotto e
uscii, sbattendo la porta, senza nemmeno salutare il povero ragazzo.
Mia madre era stata ricoverata d’urgenza ma, quando arrivai,
non mi fu permesso
di vederla.
“Allora che cavolo mi hanno chiamato a fare?” mi
chiesi tra me e me.
Provai a stare lì seduto in sala d’attesa ad
aspettare che i medici finissero,
ma i nervi mi stavano facendo saltare la testa e sentivo che se fossi
rimasto
fermo prima o poi sarei collassato.
Decisi così di andare fuori a prendere una boccata
d’aria fresca.. e mi bagnai
tutto. Pioveva a dirotto e io non avevo neanche qualcosa che avesse la
vaga
forma di un ombrello o che ne potesse prendere il posto. Ma per quel
che
m’importava…
Camminai fino al parco e una volta arrivato mi sedetti
sull’altalena, che
scricchiolò sotto il mio peso. Ero zuppo d’acqua,
ma non avevo la forza neanche
per camminare, figuriamoci per andare a comprarmi qualcosa di asciutto
da
qualche parte.
Ma poi la pioggia s’interruppe. O meglio: fui
riparato dalla pioggia.
Da un ombrello che, molto caritatevolmente, Mikoto mi porgeva. Nella
mano ne
stringeva un altro, per lui. Lo accettai e lui si sedette
nell’altalena accanto
alla mia, che però non scricchiolò. Ci credo, lui
era praticamente un puffo!
Tentò di consolarmi e, per la prima volta in vita mia,
piansi di fronte a
qualcuno. Lui mi lasciò singhiozzare sulla sua spalla,
appena umida per la pioggia.
Quando mi fui calmato, mi arruffò i capelli e mi sorrise con
il sorriso più
dolce che avessi mai visto fino a quel momento.
E fu quel sorriso che spense definitivamente la mia passione. Lo capii
solo in
quel momento: io ero stato con lui solo per
il mistero e il
fascino che emanava ma ora che erano scomparsi per fare posto ad altri
sentimenti più inutili, come la compassione,
l’amore ecc., non rimaneva più
niente per cui potessi amarlo.
Lo salutai cordialmente e me ne andai, lasciandolo di nuovo da solo e
confuso.
Sapevo che era un brutto modo per ripagare una persona che si
preoccupava per me
e che mi amava con tutta se stessa, ma cos’altro potevo fare?
Sarebbe stato da
ipocriti continuare con quella relazione pur sapendo che era finita.
Quando finalmente, dopo qualche giorno, dimisero mia madre
dall’ospedale e io
potei tornare tranquillamente a scuola, me lo ritrovai davanti che mi
aspettava
al cancello dell’ingresso. Quando mi vide sorrise, e mi venne
incontro come
farebbe un cucciolo al ritorno del suo padrone. Ma notò
quasi subito che il mio
atteggiamento verso di lui era cambiato, troppo.
Mi scrutò con occhi interrogativi.
Io lo guardai con fare freddo e arrogante. Non volevo, ma era
l’unico modo per
fargli capire che era finita. Guardando da un’altra parte,
gli restituii
l’ombrello e frugai nella tasca del mio pantalone, in cerca
di qualcosa. La mia
mano riemerse poco dopo con una gomma.
Lui la strinse tra le dita esili e, guardandomi, o meglio,
analizzandomi a
fondo, capì immediatamente il significato di quel gesto.
I suoi occhi divennero subito più cristallini e
scappò via prima che potessi
vedere altro. Era una situazione quantomeno buffa: io avevo pianto
senza
vergogna davanti a lui, ma adesso lui non voleva piangere davanti a me.
Però,
lo ammetto, ero stato troppo crudele: avrei dovuto avere almeno un
po’ più di
delicatezza.
Più tardi mi ritrovai il biglietto di carta su cui sopra un
tempo c’era scritto
il mio nome nell’armadietto. Era tutto consunto e il mio nome
era sbiadito, ma
non cancellato del tutto. Si distingueva appena qualche lettera.
Seppi solo in seguito che Mikoto non aveva usato la gomma che gli avevo
dato
per cancellare il mio nome. Ci aveva pianto sopra, per questo il foglio
era
consunto e la scritta era ancora appena leggibile. Forse me lo aveva
restituito
con ancora un accenno del mio nome, con il messaggio che se avessi
cambiato
idea lui sarebbe stato lì ad aspettarmi; ma dubitavo
fortemente che quello
fosse il mio caso.
Ero sicuro che, mentre piangeva e sfogava il suo dolore, aveva
capito
esattamente il senso delle mie azioni...
“ Il tuo nome è stato scritto a
matita per poterti cancellare una volta
finita”
Era una frase che forse avevo sentito da qualche parte e
l’avevo fatta mia per
questa occasione.
Sbiancai. Ero stato davvero troppo crudele. Ma era meglio
così: ci eravamo
risparmiati entrambi un sacco di pene.
Dentro di me, però, suonava comunque una vocina allarmata
che strillava:
La verità: non lo sapevo nemmeno io.