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Autore: Moonlight Waltz    05/06/2013    3 recensioni
[Storia che partecipa al contest "A sentence to dream" indetto da Kirame27 e Mary DB]
"Era insolito che mi piacesse qualcuno veramente e, anche se succedeva, di solito non durava più di qualche settimana. Sembravo proprio un tipo freddo e senza sentimenti, eh?
Ma anch'io mi ero illuso di poter cambiare, seppure un poco. Mi ero illuso di poter cambiare grazie a lui. L’ho detto che fino a “quel” momento mi piacevano solo le ragazze? Il sentimento che provavo nei suoi confronti era immenso.
Purtroppo però io non avevo mai creduto nell'amore eterno e, si sa, se non hai fede in qualcosa questa non si avvera. E così mi ritrovai di nuovo con un amore finito tra le mani"
Genere: Drammatico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Can I sleep with you?

Mi consideravo un ragazzo popolare, uno di quelli che se la tirava sempre, e di brutto anche. Non prendevo mai sul serio i sentimenti delle persone, avevo l’abitudine di passare il tempo con loro, usarle e poi farle a un lato appena mi fossi stufato. Spesso mi dicevano che non era giusto, che in questo modo le facevo soffrire, ma secondo la mia logica tutto ciò che piaceva a me era giusto.
Era raro che mi piacesse qualcuno per davvero e, se succedeva, di solito la cotta non durava più di qualche settimana. Sembravo proprio un tipo freddo e senza sentimenti, eh? Ma anch'io mi ero illuso di poter cambiare, seppure un poco. Mi ero illuso di poter cambiare grazie a Lui. 
Ho già detto che fino a “quel” momento mi piacevano solo le ragazze? Ma il sentimento che provavo per lui era immenso. Purtroppo però, io non ho mai creduto nell’amore eterno e, si sa, se non hai fiducia in qualcosa questa non si può avverare. E così mi ritrovai di nuovo con un amore finito tra le mani.

Ma, tutto sommato, ogni volta che ci ripenso mi viene un tuffo al cuore. Quando ricordo i bei momenti che abbiamo passato insieme non posso far altro che sentirmi felice
e, allo stesso tempo malinconico, perché per colpa mia tutto ciò è andato a rotoli. 
Ma il mio non è stato un completo fallimento: quell’amore ormai è finito, ma la passione che mi travolgeva rimarrà per sempre con me, a farmi compagnia.

-

Avevo l’abitudine di non dare retta a tutte le dichiarazioni d’amore che ogni giorno mi ritrovavo nel mio armadietto di scuola. Erano davvero tante e ciò mi faceva sentire bene; sinceramente, non credevo che ci fosse qualcuno che ne ricevesse più di me.
Ma il fato, o destino, volle che al poco tempo mi collocassero un "vicino di armadietto" alquanto irritante per il mio ego, ossia Mikoto Hotsuda; ogni benedetta volta che apriva il suo di armadietto ne trovava talmente tante di lettere, di ogni tipo, che esse straripavano ed in confronto le mie sembravano solo un paio di biglietti promozionali.
Non mi era mai passato per la testa che quelle in realtà non fossero dichiarazioni d’amore, ma qualcos’altro, e ciò mi spingeva a rodere dall'invidia ogni qualvolta le vedevo. 
Non riuscivo a trovare in lui niente di particolare: era un ragazzo normale, come tutti, con i capelli e gli occhi neri e una statura alquanto minuta. Non riuscivo a capire come facesse a battermi in campo di conquiste.
E così, forse per invidia o forse perché stavo già iniziando a provare qualcosa per lui (e non me ne ero reso conto, mascherando il tutto sotto falsa gelosia), gli lasciai anch’io un bigliettino dove lo invitavo a uscire con me. Ovviamente non lo avevo firmato, ma lui riconobbe subito la mia calligrafia: non per niente era anche il mio compagno di banco.
Quando lo vide, mi guardò con occhi diffidenti e mi squadrò da capo a piedi. Credevo che volesse cantarmele di santa ragione, ma si limitò a scuotere le spalle e a chiedermi la data e il luogo dell’appuntamento. Una volta che gli risposi, mi voltò le spalle e, senza neanche salutarmi, se ne andò. 
Mi sentii ribollire il sangue dentro, ma forse fu quel gesto che risvegliò in me il mio lato masochista.

Ci dovevamo vedere quello stesso pomeriggio. Non era certo un tipo espansivo quel ragazzo, anzi.
Quando gli domandavo qualcosa si limitava a rispondere a monosillabi. Oppure proprio non rispondeva. Mi dava fastidio il fatto che avesse tanti ammiratori nonostante il suo palese caratteraccio e, a quel punto, mi iniziava a sembrare strano che gli dessi così tanto peso. Credevo fosse invidia, ma già alla fine dell’appuntamento ebbi avuto modo di ricredermi: stava sbocciando l’amore. Almeno da parte mia.
E, malgrado non se ne fosse nemmeno ancora andato, già mi doleva il cuore al pensare a quando ci fossimo separati. Volevo continuare a parlargli, senza mai smettere.
Credevo fosse la volta buona per cambiare.
Immaginate quindi la mia felicità quando mi invitò a passare la notte a casa sua: mi vennero, letteralmente, “le farfalle nello stomaco”. Il suo appartamento era molto lontano dal posto in cui ci trovavamo ma con un po’ di buona volontà riuscimmo ad arrivarci senza troppi problemi. Non vedevo l’ora di vedere il posto dove viveva, di conoscere nuove cose su di lui che non fossero il suo sguardo e la sua voce monotona. È incredibile quanto i tuoi sentimenti possano cambiare nel giro di un paio d’ore, vero?
Ma, subito dopo aver varcato la soglia di casa, il suo atteggiamento cambiò. Si chiuse la porta alle spalle, senza far rumore, e senza preavviso me lo ritrovai avvinghiato al collo, le sue labbra contro le mie, che mi baciavano violentemente.

Rimasi un attimo impietrito, indeciso sul da farsi, ma poi ruppi il bacio e lo respinsi. Lui mi guardò sorpreso, come se non si aspettasse quella reazione. Cos’è, si credeva talmente affascinante da escludere l'eventualità che io potessi non volere? Fu quello che pensai in un primo istante, asciugandomi un rivolo di saliva che mi colava ai lati della bocca. Lui però chinò la testa di lato e con voce atona mi domandò:
-Che cosa vuoi, allora? - 
Che cosa voleva dire? Era stato lui a portarmi a casa sua e a baciarmi e adesso mi chiedeva pure che cosa volevo. In quel momento non capii le sue parole e lui se ne accorse. Con un sospiro svogliato mi fece accomodare sul divano e mi raccontò: tutte le letterine che riceveva ogni giorno, quelle che mi facevano ingelosire così tanto,  in realtà non erano altro che richieste che venivano da poveri alunni arrapati bisognosi di andare a letto con qualcuno. E così, leggendo quella cartolina, lui aveva pensato che anch’io avessi le stesse intenzioni e ne era rimasto un po’ diffidente dato che credeva che potessi avere tutte le ragazze che volevo. E anche ragazzi, diciamocelo.
Ascoltai il suo racconto sempre più sorpreso e anche un po’ geloso. In poche parole era la puttanella della scuola e molto probabilmente l’unico a non esserselo ancora fatto ero solo io. Tuttavia c’era ancora tempo per quello: prima volevo costruire attorno a noi una relazione solida e poi magari si sarebbe potuto pensare anche al sesso. Così gli spiegai le mie intenzioni. Era strano per me ragionare in quel modo, dato che di solito tendevo a fare l’inverso. E spesso il secondo passo non c’era neanche.
Mikoto mi guardava con fare annoiato e quando finii di parlare, i suoi occhi erano vacui e privi di qualsiasi luce. Scrollò le spalle e disse che per lui andava bene, che presto mi sarei stancato di avere al mio fianco uno che andava a letto con chiunque glielo chiedesse.
E lo ammetto: malgrado lo amassi in pochi giorni mi ritrovai a voler avere una corda tra le mani. Dopo alcuni tradimenti, di cui mi assunsi la colpa per non aver messo in chiaro le cose fin dal principio, tutto sembrò iniziare a marciare a gonfie vele.

I giorni passavano felici, almeno per me. Non avevo la più pallida idea di cosa provasse Mikoto dato che il suo viso era sempre al limite dell’apatia, ma quando provavo a farglielo notare mi diceva che dovevo solo essergli grato per il fatto che non mi avesse ancora lasciato. A detta sua ero troppo insopportabile e snervante. Ciò sortiva in me l’effetto di mandare la mia ira alle stelle e, allo stesso tempo, alimentava il mio amore.
Ma quando Mikoto iniziò a sciogliersi e a diventare più gentile, qualcosa in me scattò. Qualcosa come… indifferenza. Il mio amore si stava raffreddando e quello di Mikoto stava nascendo. 
Che cosa dovevo fare? Mi rendevo conto che avremmo sofferto entrambi se avessimo continuato di quel passo, ma chiuderla lì arrivati a quel punto era impossibile. Una volta che io iniziavo qualcosa la portavo sempre a termine, anche a costo di far soffrire la gente. Anzi, mi divertiva quasi il poter costatare con i miei occhi gli effetti che sortivo

Ma con lui era diverso. A mano a mano che il mio amore si freddava, il senso di colpa cresceva. Non potevo sopportare il fatto di farlo soffrire così tanto, non senza prima avvisarlo almeno riguardo a cosa stesse andando incontro.
Così una bella giornata di inizio primavera, più o meno, gli porsi un pezzo di carta e una matita e gli dissi di scriverci sopra il mio nome. Lui mi guardò curioso e io deviai lo sguardo. Non potevo vedere quegli occhi che prima sembravano senza vita e adesso erano tutto un luccichio grazie a me senza sentirmi in colpa.
-Hikaru, cosa significa questo? Perché vuoi che scriva il tuo nome qui? - mi chiese.
Io gli risposi che a tempo debito avrebbe capito e non aggiunsi nient’altro, mordendomi il labbro nervosamente e sperando che non continuasse a fare domande. Restammo in silenzio per un attimo e poi lui fece come gli avevo detto: scrisse il mio nome su quel benedetto foglio, a matita ovviamente. Gli dissi di non perderlo. Era come se avesse firmato un contratto a tempo determinato. Il mio cuore gli sarebbe appartenuto ancora per poco.
Sorrisi, soddisfatto. Ora potevo sollevarmi da ogni responsabilità perché io, seppur indirettamente, un avviso gliel’avevo dato.
E continuammo con le nostre uscite pomeridiane: uscivamo da scuola, mangiavamo, facevano un po’ di giri insieme e chiacchieravamo. Poi andavamo a casa sua, a seconda delle nostre voglie facevamo i compiti, guardavamo film o ci dedicavamo ad altre attività più interessanti, e la sera mi fermavo a dormire da lui. Andò avanti così, tutti i giorni con la stessa routine, per un paio di mesi.
Aveva imparato a sorridere con più frequenza, anche se restavano poche le volte in cui accennava anche solo minimamente ad un riso vero e proprio. Ed era quella parte sua ancora un po’ proibita che mi teneva legato a lui. Non mi piacevano le cose che si concedevano subito: io volevo qualcuno che avesse un che di misterioso, il fascino del proibito che non avrei mai potuto svelare, e lui faceva proprio al caso mio.
Non si concedeva più a tutti quelli che incontrava come prima, ma credo fosse dovuto al fatto che gliel’avessi proibito, per ovvi motivi. Con me continuava a fare ancora un po’ il prezioso e quel suo atteggiamento manteneva viva, seppur leggermente, la fiamma del mio amore.
Lui ci mise poco ad accorgersi che iniziavo a comportarmi in modo strano, che non lo corteggiavo più come prima, ma non ci diede molto peso. Credeva che avessi qualcosa che mi preoccupasse e siccome aveva l’indole di uno che si faceva sempre i fatti propri, non mi chiese mai che cos’avessi e non tentò nemmeno di riconquistarmi. Forse se ci avesse provato sarebbe cambiato qualcosa.

Giocammo a fare i bei fidanzatini ancora per qualche tempo, ma, come temevo, il giorno in cui si doveva mettere la parola fine a quell’amore ormai a senso unico venne. E in un modo tragico e doloroso, sia per me che per lui. Ero a casa di Mikoto, come al solito, quando all’improvviso mi accorsi che il mio telefono squillava. Mi dissero che mia madre aveva avuto un incidente e che dovevo andare di corsa all’ospedale. Presi il giubbotto e uscii, sbattendo la porta, senza nemmeno salutare il povero ragazzo.
Mia madre era stata ricoverata d’urgenza ma, quando arrivai, non mi fu permesso di vederla.
“Allora che cavolo mi hanno chiamato a fare?” mi chiesi tra me e me.
Provai a stare lì seduto in sala d’attesa ad aspettare che i medici finissero, ma i nervi mi stavano facendo saltare la testa e sentivo che se fossi rimasto fermo prima o poi sarei collassato.
Decisi così di andare fuori a prendere una boccata d’aria fresca.. e mi bagnai tutto. Pioveva a dirotto e io non avevo neanche qualcosa che avesse la vaga forma di un ombrello o che ne potesse prendere il posto. Ma per quel che m’importava…
Camminai fino al parco e una volta arrivato mi sedetti sull’altalena, che scricchiolò sotto il mio peso. Ero zuppo d’acqua, ma non avevo la forza neanche per camminare, figuriamoci per andare a comprarmi qualcosa di asciutto da qualche parte.
Ma poi la pioggia s’interruppe. O meglio: fui riparato dalla pioggia. Da un ombrello che, molto caritatevolmente, Mikoto mi porgeva. Nella mano ne stringeva un altro, per lui. Lo accettai e lui si sedette nell’altalena accanto alla mia, che però non scricchiolò. Ci credo, lui era praticamente un puffo!
Tentò di consolarmi e, per la prima volta in vita mia, piansi di fronte a qualcuno. Lui mi lasciò singhiozzare sulla sua spalla, appena umida per la pioggia. Quando mi fui calmato, mi arruffò i capelli e mi sorrise con il sorriso più dolce che avessi mai visto fino a quel momento.
E fu quel sorriso che spense definitivamente la mia passione. Lo capii solo in quel momento: io ero stato con lui solo per il mistero e il fascino che emanava ma ora che erano scomparsi per fare posto ad altri sentimenti più inutili, come la compassione, l’amore ecc., non rimaneva più niente per cui potessi amarlo.
Lo salutai cordialmente e me ne andai, lasciandolo di nuovo da solo e confuso. Sapevo che era un brutto modo per ripagare una persona che si preoccupava per me e che mi amava con tutta se stessa, ma cos’altro potevo fare? Sarebbe stato da ipocriti continuare con quella relazione pur sapendo che era finita.
Quando finalmente, dopo qualche giorno, dimisero mia madre dall’ospedale e io potei tornare tranquillamente a scuola, me lo ritrovai davanti che mi aspettava al cancello dell’ingresso. Quando mi vide sorrise, e mi venne incontro come farebbe un cucciolo al ritorno del suo padrone. Ma notò quasi subito che il mio atteggiamento verso di lui era cambiato, troppo.
Mi scrutò con occhi interrogativi.
Io lo guardai con fare freddo e arrogante. Non volevo, ma era l’unico modo per fargli capire che era finita. Guardando da un’altra parte, gli restituii l’ombrello e frugai nella tasca del mio pantalone, in cerca di qualcosa. La mia mano riemerse poco dopo con una gomma.
Lui la strinse tra le dita esili e, guardandomi, o meglio, analizzandomi a fondo, capì immediatamente il significato di quel gesto.
I suoi occhi divennero subito più cristallini e scappò via prima che potessi vedere altro. Era una situazione quantomeno buffa: io avevo pianto senza vergogna davanti a lui, ma adesso lui non voleva piangere davanti a me. Però, lo ammetto, ero stato troppo crudele: avrei dovuto avere almeno un po’ più di delicatezza.
Più tardi mi ritrovai il biglietto di carta su cui sopra un tempo c’era scritto il mio nome nell’armadietto. Era tutto consunto e il mio nome era sbiadito, ma non cancellato del tutto. Si distingueva appena qualche lettera.
Seppi solo in seguito che Mikoto non aveva usato la gomma che gli avevo dato per cancellare il mio nome. Ci aveva pianto sopra, per questo il foglio era consunto e la scritta era ancora appena leggibile. Forse me lo aveva restituito con ancora un accenno del mio nome, con il messaggio che se avessi cambiato idea lui sarebbe stato lì ad aspettarmi; ma dubitavo fortemente che quello fosse il mio caso.
Ero sicuro che, mentre piangeva e sfogava il suo dolore, aveva capito esattamente il senso delle mie azioni...

“ Il tuo nome è stato scritto a matita per poterti cancellare una volta finita

Era una frase che forse avevo sentito da qualche parte e l’avevo fatta mia per questa occasione.
Sbiancai. Ero stato davvero troppo crudele. Ma era meglio così: ci eravamo risparmiati entrambi un sacco di pene.
Dentro di me, però, suonava comunque una vocina allarmata che strillava:
La verità: non lo sapevo nemmeno io.

  
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