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Autore: Kayzen    06/06/2013    2 recensioni
Quando smisi di urlare per la mancanza di fiato mi accorsi che il bambino dagli occhi azzurri mi fissava immobile, aveva smesso di cantare e aveva poggiato a terra la sua chitarra. Lo vidi sollevarla da terra con una lentezza estenuante, per poi sbatterla a terra con un’inespressività terrificante. Con tre soli colpi la chitarra era distrutta. Ricordo ancora i tre tonfi, uno dopo l’altro, sembravano tre rintocchi di campane, l’unica sinfonia che avrei voluto sentire quel giorno. Il bambino dagli occhi azzurri si avvicinò e mi strinse forte, così forte che me lo ricordo ancora, così forte che se anche mi avesse stretto piano forse me lo sarei ricordata lo stesso, senza sapere il perché. Da quel giorno non lo vidi più, ma seppi che se per caso avessi rivisto quegli occhi mi sarei ricordata a chi appartenessero.
Genere: Fantasy, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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1. Capricorn.
 
So I run, hide and  tell myself:
 I’ll start again
with a brand new name
and eyes that see into infinity.
 
- Oh Maria! Maria dell’anima mia!
Maria dell’anima di nessuno, pensai.
- Maria dell’anima di nessuno – dissi.
- Piccola Maria, nessuno è dall’anima di nessuno, tutti sono dell’anima di tutti o di qualcuno.
- Joseph, sei il barbone schizofrenico più bastardo che io conosca.
- Ah, la mia piccola Maria combattiva. Sei tu ad essere schizofrenica con il mondo, non te ne sei ancora accorta? Vedi solo vuoto, ma quel vuoto può essere colmato, devi smettere di sognare solo con gli occhi chiusi –Joseph cominciò a ridere. Persino la sua risata aveva quel non so che di profetico, poteva essere collegata al suono armonioso di una predizione che si celava dietro le sue parole, ancora non so dire se si trattasse di una benedizione o di una maledizione.
- Io sto bene nel mio vuoto maledetto – dissi. Sorrisi e mi accesi una sigaretta. Joseph posò vicino a sé la bottiglia di vodka mezza vuota e si alzò con i suoi gessetti, pronto a disegnare sul muro un’altra delle sue visioni giornaliere. Era il mio migliore amico, l’unico amico che potessi vedere. La gente lo vedeva come un mezzo straccetto sporco e macilento, io come la migliore qualità di seta esistente al mondo. Di Joseph mi piaceva persino la bruttezza con la quale aveva imparato a convivere, quella tipica bruttezza che i barboni si portano dietro, quella sporcizia che li rende impresentabili agli occhi di chi è abituato al meglio e di chi non sa godersi neanche un minimo del peggio. Joseph a volte mi guardava negli occhi e mi diceva che ero una vera stronza, altri mi guardava negli occhi e mi diceva che ero una bella donna, altri mi guardava negli occhi e mi diceva che era uno schizofrenico del cazzo, ma che in me ci vedeva davvero qualcosa di buono, e quando lo diceva lo diceva sul serio, senza immaginarselo.
- Un giorno mi spiegherai il significato dei tuoi disegni.
- Una parte di te lo sa già –disse. Mi voltai di scatto e lo guardai dritto negli occhi. Aveva lo sguardo sincero, quello che usava solo quando non parlava a vanvera.
- Basta con queste cazzate Joseph.
- Vai via Lisa, vai via da questo inferno di infami assassini – trasalii quando osò pronunciare quel nome. Non lo faceva mai, sapeva che odiavo essere chiamata in quel modo.
- Credi solo tu che io possa sopravvivere là fuori. Qui è tutto più sicuro, sto bene così, non ho alcuna intenzione di farmi tagliare la testa. Qui sono dei bastardi infami, lo so, ma là fuori sono peggio.
- Tua madre si sbagliava quando diceva che avevi i coglioni.
Sentii l’adrenalina scorrermi nelle vene, e trasformarsi in un moto di rabbia che sfogai sull’unica persona che poteva veramente volermi bene. Presi uno dei gessetti che Joseph teneva sempre a terra cominciai a pasticciare con foga quei maledetti simboli che aveva disegnato sul muro. Lo vidi accasciarsi a terra in lacrime, urlare e tenersi la testa.

 
10 anni prima:
 
Era da ore che il bambino con gli occhi azzurri mi fissava, mi fissava e strimpellava quel catorcio che aveva come chitarra. Mi ripeteva sempre la stessa frase, era così dannatamente fissato con le sue parole. La ripeteva senza cantarla, poi la cantava, e ricordo che provavo una rabbia cieca quando lo faceva. Lo ricordo perché aveva la voce più bella che avessi mai sentito, sembrava un angelo maledetto, e le sue parole mi sembravano quasi una sorta di inno peccaminoso, impronunciabile. Lo odiavo perché quando cantava sentivo di essere felice, e odiavo esserlo, odiavo esserlo perché quando se ne andava mi sentivo uno straccio, un misero straccio triste abbandonato alla sua misera realtà. Non sembrava che lui avesse una realtà migliore della mia, ma lo vedevo quello squarcio di felicità che si portava dietro, insieme alla sua musica, ovunque andasse. Cantava ininterrottamente quel giorno, non smetteva mai, come al solito, neanche quando gli dicevo di smetterla, quando gli dicevo che era un maledetto relitto fastidioso. Quello stesso giorno chiamarono al telefono e mi chiesero se fossi Maria Wilson, quando risposi di si mi dissero di avere coraggio perché mia madre era volata nel cielo insieme agli angeli. Avevo solo 10 anni, ed ero solo una stupida bambina che aveva gettato a terra il telefono, e che aveva cominciato ad urlare, senza versare una sola lacrima. Quelle lacrime le sento ancora, le sento ancora dentro, nella profondità del mio animo oppresso, sono il vuoto più incolmabile e soffocante che possa esistere. Quando finii di urlare per la mancanza di fiato mi accorsi che il bambino dagli occhi azzurri mi fissava immobile, aveva smesso di cantare e aveva poggiato a terra la sua chitarra. Lo vidi sollevarla da terra con una lentezza estenuante, per poi sbatterla a terra con un’inespressività terrificante. Con tre soli colpi la chitarra era distrutta. Ricordo ancora i tre tonfi, uno dopo l’altro, sembravano tre rintocchi di campane, l’unica sinfonia che avrei voluto sentire quel giorno. Il bambino dagli occhi azzurri si avvicinò e mi strinse forte, così forte che me lo ricordo ancora, così forte che se anche mi avesse stretto piano forse me lo sarei ricordata lo stesso, senza sapere il perché. Da quel giorno non lo vidi più, ma seppi che se per caso avessi rivisto quegli occhi mi sarei ricordata a chi appartenessero.
 
Mia madre mi lasciò un baule, e dentro al baule c’erano una lettera, un vecchio ciondolo, e dei nuovi documenti. Mi chiedeva di scappare dalla sua città, perché diceva che era l’inferno, e mi chiedeva di recarmi in un inferno più accogliente, in una dannata cittadina immersa nel bosco più cupo dell’America. Nel nuovo documento il mio nome era Lisa Ainsworth, avrei solo dovuto appiccicare una nuova fotografia e tutto si sarebbe risolto. Aprì quel baule 10 anni dopo la sua morte, e decisi di appiccicare quella maledetta foto il giorno stesso che Joseph mi disse che non avevo coglioni. Misi tutto ciò che possedevo in una valigia e andai alla stazione per salutarlo un ultima volta. Non c’era nessuno, c’erano solo quei dannatissimi simboli disegnati sulla parete, e neanche un misero segno che potesse testimoniare il pasticcio che avevo fatto sul muro la sera prima.
- E’ morto. Lo hanno trovato morto alla vecchia discarica – mi disse un passante, uno di cui non riconobbi neanche la faccia.
Mi avvicinai alla parete e fissai attentamente i simboli che vi erano disegnati, sembrava mi deridessero, ma decisi di fissarli con attenzione solo perché erano l’unico ricordo di Joseph che mi rimaneva. La voce registrata annunciava un ritardo del treno di dieci minuti. Decisi di sedermi a terra, nello stesso posto in cui si sedeva sempre Joseph e di riempire parte di quell’incolmabile vuoto che mi attanagliava l’anima versando parte delle lacrime che avrei dovuto versare da un pezzo.

  
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