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Autore: wordsaredeadlythings    07/06/2013    2 recensioni
Avevano fatto l’amore in ogni singolo anfratto di quella piccola casa. Sul letto, in cucina, sul tavolo, sul pavimento del soggiorno, sul divano. Si erano rifugiati lì dentro per giorni interi, quando fuori pioveva o nevicava e loro avevano solo voglia di sfogliare i canali TV uno per uno e commentare sarcasticamente ogni film horror dalla dubbia credibilità. Avevano consumato tonnellate di gelato e patatine fritte, nascosti sotto la trapunta del letto, sul tappeto davanti al divano, e Henry non poteva desiderare niente di meglio, perché quella era casa sua e quello era l’amore della sua vita.
Henry non voleva ancora credere che, tra le braccia di quella casa, in quel posto che aveva amato e che aveva accolto tutto il suo amore, in quello stesso luogo che per lui era perfetto, sarebbe successo tutto quello che era successo.

Perché la preoccupazione corrode quanto l'acido, e il dolore acceca la mente, ma l'amore può vincere su qualsiasi cosa.
Genere: Angst, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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~ Bravery ~

 
 
 
 
Henry viveva in quell’appartamento da secoli, ormai. Ci viveva da così tanto tempo che aveva quasi rimosso qualsiasi altra catapecchia o villa potesse esserci stata nel suo passato, perché niente era meglio di quella casa. Niente era meglio di varcare quella soglia e ritrovarsi davanti quella foto abbastanza inquietante di Doug, il suo vecchio pastore tedesco morto tanti anni prima che non riusciva nemmeno a contarli. Niente era meglio di tornare lì, perché quella era casa sua, indubbiamente. Amava quel posto, da morire.
Lo aveva amato anche quando si era rotto il tetto e aveva cominciato a piovere nella cucina, lo aveva adorato anche quando la muffa si era fatta spazio sulla parete destra della sua stanza, proprio vicino al termosifone, come un dipinto nero e grigio di un pittore affetto da depressione. L’aveva amata anche quando era tornato e la porta era rotta e si era accorto che non c’erano più i suoi comodini e la cassetta dove teneva la vecchia bussola del suo prozio Alfred.
Ma il momento in cui l’aveva amata di più era quando aveva messo quella copia delle chiavi nelle mani di Pete. Quando aveva visto i suoi occhi grigi brillare come quelli di un bambino, Henry aveva sorriso e si era sentito irrimediabilmente, oscenamente e schifosamente felice.
Avevano fatto l’amore in ogni singolo anfratto di quella piccola casa. Sul letto, in cucina, sul tavolo, sul pavimento del soggiorno, sul divano. Si erano rifugiati lì dentro per giorni interi, quando fuori pioveva o nevicava e loro avevano solo voglia di sfogliare i canali TV uno per uno e commentare sarcasticamente ogni film horror dalla dubbia credibilità. Avevano consumato tonnellate di gelato e patatine fritte, nascosti sotto la trapunta del letto, sul tappeto davanti al divano, e Henry non poteva desiderare niente di meglio, perché quella era casa sua e quello era l’amore della sua vita.
Henry non voleva ancora credere che, tra le braccia di quella casa, in quel posto che aveva amato e che aveva accolto tutto il suo amore, in quello stesso luogo che per lui era perfetto, sarebbe successo tutto quello che era successo.
 
*
 
Quando Pete aveva cominciato a sentirsi stanco, Henry aveva pensato che fosse solo per il troppo lavoro. Lavorava così tanto, dopotutto: l’affitto, le bollette e tutto il resto non si pagavano da soli, dopotutto.
« Forse dovresti chiedere un periodo di pausa » disse Henry, quando vide Pete rincasare e lanciarsi sul divano, con i muscoli a pezzi e gli occhi carichi di stanchezza, come ogni giorno da circa due settimane.
« Forse, sì. » borbottò lui, il viso schiacciato contro il cuscino. Poi si girò e Henry si sistemò a cavalcioni sopra di lui. « Ma abbiamo bisogno di soldi, lo sai. Tra un po’ scade la bolletta della luce e quella dell’acqua, e poi c’è l’affitto e la bolletta del gas e… »
« Posso provare a chiedere un aumento, forse me lo concedono. » tentò Henry, accarezzandogli il viso con la mano « Non riesco a vederti così stanco e stressato. »
E poi Pete sorrise e, santo cielo, Henry non capiva più un cazzo quando Pete sorrideva. Era come se nel suo cervello saltasse la luce, click, e poi tutto si spegneva, tutto diventava ovattato e silenzioso.
« Ti preoccupi sempre troppo, tu. » affermava lui, stringendogli la mano con dolcezza « Vedrai che ce la caveremo, passato il momento di bisogno chiedo una vacanza e andiamo al mare. »
« Ma è gennaio! »
« E allora? Il mare è sempre splendido. »
Henry sorrise. « Su questo hai pienamente ragione. »
E poi si baciavano, e, cavolo, Henry era veramente convinto che se la sarebbero cavata.
 
Quando la stanchezza cominciò a presentarsi fin dalla mattina, fu allora che Henry cominciò a preoccuparsi seriamente. Pete si svegliava ed era come se non avesse dormito affatto, come se avesse passato la notte insonne. E chissà dove cazzo se ne andavano tutte quelle ore passate a dormire, chissà dove cazzo finivano, perché Pete sembrava un fottutissimo insonne.
« Non dovresti preoccuparti troppo. Sto bene, davvero. »
« No che non stai bene. » continuò Henry, appoggiato sul lavandino. Pete stava bevendo il suo cappuccino, quello che Henry gli prendeva tutte le mattine da quando aveva cominciato a svegliarsi stanco, da quando la preoccupazione si era fatta spazio nel suo cuore veloce come una lepre. « Sembra che tu non abbia dormito nemmeno un minuto. »
« Henry »
« Non chiamarmi con quel tono, cazzo. Lo sai anche tu che non va bene. »
« E’ solo lo stress, è un periodo difficile. »
Henry lo guardò, in silenzio. Osservò i suoi occhi grigi, il suo viso spigoloso con gli zigomi alti e il naso un po’ troppo grande ma comunque bellissimo, i capelli castani. Lo guardava e non faceva che amarlo, anche se la preoccupazione aveva già cominciato a corroderlo come il peggiore dei veleni.
« Domani passo alla caffetteria qui sotto e mi offro come commesso, dicono che pagano bene. »
« Ma così lavorerai anche di pomeriggio! »
« Esatto, e tu potrai prenderti una pausa e smetterla di fare duemila lavori contemporaneamente. »
« Ma non avremo più tempo di vederci… »
« Farò questo sacrificio. » Henry sospirò, avvicinandosi a lui. Lo avvolse con le braccia, premendo il petto sulla schiena di lui, per poi lasciargli un bacio appena sotto l’orecchio. « Hai bisogno di riposare. »
Pete sorrideva allora, strofinando la nuca sul petto di lui.
« Lo sai che ti amo, vero? »
« L’ho sempre saputo. »
 
*
 
Quando Pete perse cinque chili in due settimane senza seguire nessuna dieta, la preoccupazione nel cuore di Henry aveva già cominciato a trasformarsi, ad assumere contorni, una forma ben precisa. Era un mostro, un cazzo di mostro, come un Alien sputa acido che corrodeva tutto il resto.
« Pete, devi vedere un medico. »
« Per cinque chili in meno? Henry, la tua preoccupazione comincia a preoccupare me. »
« Non è normale. Non hai mai perso tanto peso così in fretta. Ti vedo le costole, cazzo! Da sotto la pelle! Non puoi andare avanti così. »
« Oh, ma andiamo, sii ragionevole! »
« Io? Io devo esserlo? » Henry digrignò i denti « Due settimane sono passate, e la tua stanchezza non ha fatto altro che aumentare e peggiorare. Mi sveglio e dormi, torno a casa e dormi, porca vacca, quando lo capirai che c’è qualcosa che non va? »
Aveva cominciato a tremare, e sentì gli occhi inumidirsi ad una velocità terrificante. Strinse le mani a pugno, più per non mostrare il tremolio al compagno che per vera rabbia.
Pete non l’aveva mai visto così incazzato e preoccupato e terrorizzato, anche. Lo guardò dritto negli occhi e affogò nell’oceano di preoccupazione che era diventato.
Pete allacciò le braccia intorno ad Henry, che subito rispose alla stretta, affondando il viso nell’incavo del suo collo, ubriacandosi del suo profumo. Glielo aveva regalato per Natale e, dio, quant’era buono, quanto gli stava bene addosso.
« D’accordo. » annuì « Se può farti sentire più tranquillo, visiterò un medico. »
Henry sospirò, e si divise da lui solo per baciarlo con forza.
 
*
 
Quando il dottore disse che c’era bisogno di un esame più approfondito, la preoccupazione di Henry divenne insaziabile: cominciò a divorarlo da dentro, a distruggerlo sempre di più. Ormai era diventato un cumulo di ossa, carne e preoccupazione, quella macchia nera e grigia, che come la muffa nella sua stanza, aveva preso possesso del suo intero essere.
E quando arrivarono i risultati dell’esame, Henry, semplicemente, si bloccò. Si bloccò totalmente. E si convinse che non era vero, mentre si sedeva sulla tazza del cesso di quella merda di ospedale, la gola che bruciava come se ci fosse un cazzo di deserto, gli occhi sbarrati, la lampadina del soffitto che lo illuminava dall’alto. E a nulla servì la voce di Pete che lo chiamava da fuori, la mano che bussava con timore e paura, perché la preoccupazione lo aveva paralizzato lì. Non servirono a niente nemmeno le parole del dottore che scivolavano nella sua mente, rimbalzando tra i suoi pensieri in continuazione. “L’abbiamo preso in tempo”, “Non tutto è perduto”, “Possiamo farcela”. Tutte parole del cazzo, perché non era vero.
Pete non aveva il cancro. Pete non poteva avere il cancro.
 
*
 
Quando accettò la realtà dei fatti e Pete cominciò le cure, Henry si disse che non avrebbe pianto più. Dormiva in un motel vicino all’ospedale, e aveva lasciato il numero del suo cercapersone al dottore che lo aveva in cura, facendosi promettere che lo avrebbe contattato. Negli occhi azzurri del dottore aveva visto quella scintilla che sembrava urlare “Non doveva capitare”, e Henry era completamente d’accordo. Perché non doveva capitare e basta, perché non era giusto.
Ma, si sa, il signore ai piani alti non gradiva granché i tipi come lui e Pete, no? Quindi perché non mandare tristezza e preoccupazione e rabbia e lacrime laddove prima c’era solo gioia? Ma sì, perché no?
Henry diede un pugno al muro, digrignando i denti. Guardò dentro la stanza di Pete: l’orario di visita era finito un’ora e mezzo fa, ma aveva chiesto al dottore di poter rimanere un altro po’. Aveva bisogno di vederlo, perché quel letto di quel motel faceva schifo, era sporco ed era freddo, vuoto.
« Coraggio. » sussurrò, sfiorando il vetro con le mani. « Coraggio. »
E chissà chi aveva bisogno di più coraggio, tra lui e Pete.
 
*
 
« Il dottore dice che le cure stanno andando bene » mormorò Henry, guardando gli occhi saturi di stanchezza di Pete. Ormai riusciva a contargli le costole ad una ad una. « Il tumore si è rimpicciolito un po’. Se continuiamo così andrà tutto bene. »
Sorrise, Henry, ma era un sorriso falso come quel Picasso appeso alla parete. Le sue labbra tremarono con forza, mentre sorrideva, e sentì le lacrime farsi capolino sui suoi occhi, ma non permise loro di andare oltre: Pete aveva bisogno di ottimismo, di sorrisi, di gioia. Non di lacrime. Henry non poteva e non doveva piangere, non lì, non davanti a lui.
Pete gli strinse la mano con un po’ più di forza, sorridendo appena, ma quel sorriso fu più radioso di qualsiasi altra cosa al mondo.
« Alla fine non ti ci ho portato più al mare. Mi dispiace. »
« Non importa. » Henry sorrise appena, ma era un sorriso vero, questa volta. Fragile ma vero. « Ci andremo quando sarai guarito, quando tutto questo sarà finito. »
« Il dottor Dorian mi ha detto che dormi in un motel qui all’angolo, è vero? »
« Non preoccuparti di questo tesoro, ora preoccupati solo della malattia. »
« Voglio che tu torni a casa, Henry »
Henry sentì quelle poche parole che gli frullavano in testa incepparsi in gola. Come poteva dirglielo che non voleva tornare in quella casa? Che aveva iniziato ad odiarla a morte? Che la odiava perché aveva accolto una felicità enorme che ora si era trasformata in un incubo? Come poteva dirgli che aveva paura di tornare lì perché, se ci fosse entrato, avrebbe visto come sarebbe la vita senza di lui, senza il suo Pete? Che quella visione lo spaventava, lo terrorizzava a tal punto che il suo cervello era staccato da tutto il resto? Come cazzo faceva a dirgli tutto questo.
« Ehy. » Pete gli strinse la mano più forte « Io ti amo, tu mi ami: questo basta. Ce la faremo, vedrai. Andrà tutto bene. »
Henry lo guardò e si stupì di scoprire quello che non aveva mai creduto possibile: lo amava ancora di più, e più forte di prima. Perché forse l’amore non smette mai di crescere, e in fin dei conti non puoi mai dire che non puoi amare più di così, perché puoi, eccome se puoi. Solo che non te ne rendi conto.
Henry sfiorò le sue labbra contro le dita di Pete, per poi alzarsi ed uscire: il turno di visita era finito mezz’ora prima ma, come al solito, non riusciva ad andarsene. E nessuno gli aveva mai detto che doveva andarsene, perché lì tutti riuscivano a capire.
Henry uscì dall’ospedale, capendo che la preoccupazione poteva aver anche ricoperto tutte le pareti della sua anima, ma il suo amore per Pete andava oltre le pareti, lo inglobava completamente.
 
 
*
 
 
“Ehy, ciao,
Ho deciso di scriverti questa lettera perché ne avevo bisogno: sono a casa ed è tutto terribilmente silenzioso, e avevo bisogno di sfogarmi un po’, quindi ho deciso di scarabocchiare qualche parola su questo quadernino, e spero non ti dispiaccia che siano parole per te. Le leggerai quando tornerai a casa, perché tu tornerai a casa, altrimenti col cazzo che ti regalo i cornetti che rimangono quando torno dalla caffetteria!
Oggi hai avuto di nuovo la terapia. Il dottore dice che andrà tutto alla grande: il tumore diventa sempre più piccolo, le terapie funzionano. Spero che abbia ragione: sembra così affidabile, oggi mi ha dato una pacca sulla spalla per farmi coraggio, l’ho molto apprezzato.
Vedrai che andrà davvero bene.”
 
“Ciao amore,
Oggi sono tornato al lavoro, anche se tu sei ancora in terapia le bollette non si pagano mica da sole! Adesso lavoro solo alla caffetteria, così posso stare con te tutta la mattina e lavorare il pomeriggio. La terapia ha avuto qualche intoppo, perché il tumore è diventato un po’ più grande, quindi tutti i progressi fatti l’ultima volta sono andati a puttane, ma questa nuova terapia dovrebbe funzionare. Ora non c’è solo il dottor Dorian che si occupa di te, ma anche il primario e uno dei medici più competenti dell’ospedale: dicono che faranno il possibile per te. Sono contento che esistano ancora persone così su questo mondo.”
 
“Ti amo.
Ho paura perché la nuova terapia non sta andando bene come speravano i medici, e sono terrorizzato. Sto piangendo da almeno un’ora, seduto sul divano di casa, e ho bisogno di te. Ho bisogno delle tue braccia e del tuo profumo e di te. Ho fottutamente bisogno di te. Perché questa casa è una merda senza di te: odio tutto, persino il letto, il divano, il tappeto, odio anche la mia poltrona preferita perché non ci sei tu che mi rubi il posto, che ti lanci sul letto anche se sai che poi si rompe, perché non ti sei messo a camminare sul tappeto con le scarpe sporche di fango e non stiamo facendo l’amore su questo cazzo di divano. Perché tu sei in ospedale con un cazzo di cancro che ti mangia da dentro e ti corrode e mi sto chiedendo se tutto questo finirà mai. Ho paura, Pete, ho una paura del cazzo.
Ti prego Pete, non te ne andare. Non so che fare senza di te. Non te ne andare.”
 
*
 
Pioveva quel giorno, pioveva da impazzire.
Henry affondò le mani nelle tasche dei suoi jeans: faceva un freddo cane, ma doveva venire lì. Aveva bisogno di quel posto: solo lì riusciva a pensare lucidamente. Solo lì riusciva a stare meglio, a tirarsi un po’ su di morale. Le onde si infrangevano sulla sabbia con violenza: stava arrivando una tempesta, ormai era arrivato dicembre, ma non gliene fregava un cazzo: quella spiaggia era perfetta per lui, perfetta per quello che era successo.
Che anno del cazzo. Il cancro, la terapia, la ricaduta, il cancro che aumenta di volume, le lacrime, le pillole, Pete che piange tra le sue braccia perché non ce la faceva più. Che anno del cazzo, davvero.
Henry calciò la sabbia, sospirando. Guardò l’orizzonte, in silenzio: aveva un cappotto nero e una sciarpetta blu appuntata addosso. Gliel’aveva regalata Pete, il Natale precedente. Ora Natale stava tornando di nuovo, e quante cazzo di cose erano successe.
Sentì delle braccia avvolgerlo da dietro.
« Ehy, che fai? Ammiri l’orizzonte? »
« Perché, cos’altro dovrei fare? »
« Ah, non lo so » gli prese le spalle e lo fece voltare.
Henry annegò negli occhi brillanti di Pete e sorrise.
« Magari potresti baciarmi »
« E se non ne avessi voglia? »
« Ti butterei in mare »
« Non ce la faresti, sei troppo debole ancora »
« Non tentarmi, pivello! »
Henry sorrise e gli baciò la punta del naso.
E mentre la tempesta arrivava, lui pensò che andava bene.
 Andava fottutamente bene così.






L'ho scritta ascoltando I Will Follow You Into The Dark dei Death Cab For Cutie, ascoltatela e vi ci perderete.
Sappiate che soneo in piena depressione post concerto, perché il cinque giugno ho visto i miei amati e adorati All Time Low e mi mancano da impazzire, e ho visto anche gli stupefacenti Green Day e sì, mi mancano tanto anche loro.
Ma chi mi manca più di tutti è Charlie, che ho visto sempre il cinque giugno dopo un anno e due mesi che ci conosciamo. Capitemi, è la mia migliore amica e avevo bisogno di buttare tutta la mia tristezza interiore in qualcosa e beh, è uscita fuori questa.
Sappiate che i nomi Henry e Pete sono direttamente tirati fuori da l'Acchiappasogni di Stephen King, libro che ho iniziato a leggere ieri e che amo (e sono già a pagina 163, insomma, qualcuno mi fermi), e sì, shippo quei due personaggi come se non ci fosse un domani. Ma anche se i nomi sono ripresi da quel libro non hanno niente a che vedere con i caratteri originali dei personaggi, anzi, sono completamente diversi.
Spero vi sia piaciuta!
Un bacione,
Cris.


PS. Volevo dire un'ultima cosa: SONO TRA I PREFERITI DI CINQUANTUNO PERSONE. IO. CIOE'. IO. COME CAZZO E' POSSIBILE. COME. IO NON CI CREDO. IO... IO... PENSO CHE ANDRO' IN QUEL SIMPATICO ANGOLO LAGGIU' E SVERRO', SI', PENSO PROPRIO DI SI'.
VI AMO TUTTI E CINQUANTUNO, GRAZIE DI CUORE, UN GIORNO VI SPOSERO, LO GIURO.



   
 
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