8.
La
prima notte in strada
Partimmo.
Come si
è soliti partire, guardando verso l’orizzonte,
guardando verso l’infinito.
Sperando in tutto, sperando in niente, mentre l’adrenalina si
impossessa di te
e tu non puoi far nulla se non andare. Perché è
così che succede a noi, noi che
siamo nati per intraprendere un cammino, per vagabondare senza meta nel
mondo:
il viaggio ci chiama e noi non possiamo resistergli, la tentazione
è troppo
forte, ti scava dentro l’animo e mette radice, togliendoti
anche il respiro, il
sonno, la fame. E tu non hai in testa nulla, nulla se non il viaggio.
Il
viaggio che chiama.
Cinque
giovani alla conquista dell’infinito, ecco
cos’eravamo.
Ricordo
quel momento come il più romantico della mia esistenza, gli
occhi puntati verso
il sole alto nel cielo, il mio corpo a carezzare quello della dea
danzante, la
consapevolezza che qualcosa di grandioso, di estremamente grandioso,
stava
avvenendo.
E io ne
ero parte.
Sfrecciammo
veloci per le strade trafficate della città e quando
arrivammo al suo confine,
ancora un po’ ubriaco, aprii il finestrino e gridai:
«Addio, Sirena, mia
amata!»
Le mani
di May sulla mia schiena, la sua risata sul mio collo. La sensazione di
lei,
lei ovunque accanto a me, lei oltre insieme a me.
Fu
così, tra una bottiglia di birra, i canti stonati di Tom, le
barzellette da
quattro soldi, la mano della Musa nella mia, che partimmo.
Partimmo
per il Festival che avrebbe cambiato la storia della musica.
Partimmo
per Woodstock.
*
Ricordo
che, ad un certo punto, mi svegliai dal sonno alcolico, la bocca
impastata e il
collo dolorante, probabilmente a causa della posizione scomoda in cui
mi ero
addormentato. Il sole non splendeva più e
l’oscurità era tutto ciò che scorgevo
dal finestrino della macchina.
Ancora
un po’ intontito, sentii la voce familiare di May che mi
riscaldò l’animo.
«Dormito
bene?»
Sorrisi.
Così.
Sorrisi
per averla accanto, per udire la sua voce, per i suoi occhi, per le sue
labbra,
per essere fuggito insieme a lei e aver abbandonato tutto, per non
avere un
dollaro in tasca, per non avere nulla se non la voglia di vivere,
vivere,
vivere insieme alla mia Musa.
Lo
ricordo quel sorriso.
Quel
sorriso. Così.
«Cazzo,
mi fa male la testa» sbiascicai tirandomi su, notando che Tom
dormiva accanto a
May, nel sedile posteriore. Non avevo idea dell’ora che
fosse, né il luogo in
cui ci trovavamo; per quanto mi riguardava potevamo anche essere alle
Hawaii.
Vi era
un’atmosfera di solennità nell’aria,
come se fossimo partecipi di un’esperienza
grandiosa e ne fossimo assolutamente consapevoli. E la Musa a
guardarmi, in
quel buio accogliente, in quello spazio ristretto in cui eravamo
ammassati,
mentre il russare di Tom fungeva da ninnananna.
«Dove
siamo?» domandai a Kurt, che guidava senza spiccicare una
parola, l’attenzione
rivolta alla strada, racchiuso nel suo implacabile silenzio.
«Nel
bel mezzo del nulla, in direzione Las Vegas» Risposta secca e
voce dura, segno
che il Motociclista continuava a non apprezzare la mia presenza ed era,
con
tutte le probabilità del caso, infastidito dal fatto che mi
fossi aggiunto alla
loro scapestrata compagnia. Dean, seduto nel sedile del passeggero,
prese a
fischiettare spensieratamente, rompendo la tensione che Kurt aveva
abilmente
creato.
«Ehi,
ehi, ehi!» La voce di May, più alta di due toni,
mi fece mettere sugli attenti
e seguii il suo dito indice, che puntava verso il ciglio della strada.
Sul lato
sinistro del grosso serpente di asfalto, sorgeva una costruzione
fatiscente,
una di quelle da vecchio film Western, resa visibile da
un’insegna al neon
malconcia che si illuminava a ritmo alterno.
Si
riusciva a leggere solamente parte del cartellone, perché
una lettera metallica
doveva essersi fulminata: “Il Coo”, annunciava il
neon, dando così libero sfogo
alla fantasia, già partita alla ricerca della lettera
mancante. Così, Dean si
mise ad ululare, come uno di quei lupi che stanno sulle cime delle
montagne,
aprendo il finestrino per far sentire all’intero mondo che,
diamine, avevamo
trovato la nostra meta, per quella notte.
«Fermati,
Kurt!» gridò infine, quasi senza più
voce, mentre io e May ridevamo perché Tom
era stato svegliato dal fracasso e stava rivolgendo insulti coloriti a
Dean.
Ma
nessuno gli diede troppa retta, perché nell’aria
c’era odore di eccitazione,
quella che solo i vagabondi come noi sanno provare,
l’adrenalina che ti riempie
il corpo quando trovi un posto nuovo, tutto da scoprire, circondato dal
nulla.
Accostammo nel grosso piazzale davanti all’edificio, che si
presentava ancora
più malconcio, da vicino; si poteva leggere con
facilità, ora, che la lettera
fulminata nell’insegna era una “V”,
quindi il locale doveva chiamarsi “Il
Covo”. Entrammo dalla grossa porta a due ante, portandoci
dietro un Tom
decisamente irritato e un Dean che sembrava essere già
ubriaco, per quanto era
euforico.
L’odore
di chiuso e il puzzo di sudore mi invasero le narici, facendomi
arricciare il
naso, ma dopo poco tempo mi abituai a quel tanfo. Il bancone, di fronte
all’entrata, era il regno di un vecchio e grassoccio uomo
baffuto, che sembrava
essere uno di quei cowboy del Wild West.
Il resto dello spazio era occupato da lunghi tavoloni in legno, bagnati
di
birra, e da uomini di mezza età, che parlottavano tra di
loro con occhi
annebbiati dall’alcol. Giovani cameriere in una divisa
succinta, portavano le
ordinazioni ai clienti che, nonostante l’ubicazione desolata
del bar, erano
numerosi e spendaccioni. Io e i miei compari ci guardammo e decidemmo
in
silenzio che quello era il posto giusto in cui passare la nottata,
così ci
avvicinammo al bancone e ordinammo una birra a testa. Dean si dissolse
in
fretta, tutto intento a molestare le cameriere, cercando di fare
conversazione
con loro, quando in realtà voleva solo portarsele a letto.
Kurt si sedette su
un tavolo isolato a bere la sua birra senza parlare con nessuno, segno
che il
suo malumore aumentava sempre più. Io, Tom e May, invece,
continuammo ad
ordinare alcol – prima Whiskey, poi Rum e ancora birra
– determinati nella
missione di andare su di giri, perché era l’unica
cosa che eravamo capaci di
fare.
Mi resi
conto che gli uomini tozzi nel bar scrutavano la mia Musa con occhi
famelici,
come se riuscissero a vedere sotto i suoi vestiti, in un modo che non
faceva
presagire nulla di buono; così, le circondai la vita con il
braccio e la portai
più vicina a me, facendo aderire i nostri fianchi, in un
tentativo di far
allontanare gli sguardi languidi dei clienti.
«Grazie»
sussurrò al mio orecchio May, che non si era persa il
passaggio, anche se non
aveva bisogno della mia protezione, anche se era in grado di difendersi
da
sola: mi ringraziò perché sapeva che io ne sarei
stato felice, perché sapeva
quanto il mio cuore desiderasse essere un eroe per lei. Era
così, la mia Musa.
Amami,
O Amazzone,
forte
e sicura,
Ama
questo povero naufrago,
Amami
O
ne morirò.
Tom si
mise a parlare con alcuni ragazzi, facendo sfoggio di un lato socievole
che lo
faceva sentire a suo agio in qualsiasi situazione e con qualsiasi
persona,
riuscendo ad intrattenere conversazione con le persone più
differenti. Gli ho
sempre invidiato la sua estroversione, parte caratterizzante del suo
carattere,
che lo rendeva allegro e simpatico.
E
passammo così la notte.
Bevemmo.
Bevemmo così tanto che il mondo si allontanò
lentamente dal mio spirito, il
quale volava lontano, sulle ali di chissà quale uccello,
mentre la mia May mi
toccava il viso in una carezza lieve. Ricordo che, ad un certo punto,
in tutto
il locale risuonava forte Light My Fire dei
Doors, mentre io e la mia Musa ballavamo, come ogni volta, in un
groviglio di
capelli e braccia, toccandoci, baciandoci, fregandocene dei camionisti
che ci
osservavano avidi.
Eravamo
oltre, noi.
Eravamo
io e lei, nel nostro mondo fatto di amore, passione, che esplodeva
quando
eravamo sotto l’effetto di sostanze psicoattive, facendoci
saltare, gioire,
danzare. Ed era nella notte, quando il resto del mondo dormiva, che noi
usciva
dalle tane e partivamo alla conquista dell’universo.
«Baciami,
baciami, baciami, piccolo Adam...»
La sua
bocca sul mio collo.
Le sue
mani intorno ai miei fianchi.
Quella
fu la mia prima notte di bravate, di balli sfrenati e spirito alla
riscossa,
senza darsi alcun limite, continuando a bere anche se si aveva
già la nausea,
dando spettacolo, fumando e gridando verso la luna, verso lo spazio,
verso oltre.
Fu la
mia prima notte passata in quel luogo che non ha spazio né
tempo, casa per
gente senza nome e senza destino, quello dei dimenticati, dei drogati,
dei
nomadi.
Fu la
mia prima notte in strada.
*
La
nottata passò lentamente, anche a causa dell’alcol
che mi annebbiava la mente,
facendo sì che i miei ricordi siano poco coerenti e
piuttosto confusi.
Ma è
chiara nella mia testa, l’immagine di me seduto sul
marciapiede, fuori dal
locale, intento a guardare le stelle luminose che riempivano
l’intero cielo,
come una tela dipinta egregiamente da un pittore fantasioso. Quando
penso a
quell’istante, una sensazione di quiete mi invade,
riportandomi a quell’attimo di
assoluta serenità interiore in cui nulla mi importava se non
lo stare ad
osservare gli astri, mentre il vento mi rinfrescava il corpo, accaldato
per via
del liquore. C’è pace, in questo ricordo.
Ci sono
io che guardo verso l’infinito, senza paura
dell’oppressione, di essere
schiacciato da quell’immensità che è
l’universo.
E poi,
così, come quelle cose che spuntano
all’improvviso, inaspettate e dolcissime,
nei miei ricordi si aggiunge May, seduta accanto a me, intenta a
tenermi la
mano, accarezzandomi il palmo.
«Tenera
è la notte...» Mi guardò,
l’accenno di un sorriso sulle sue labbra, mentre
citò
Fitzgerald, rendendomi partecipe della sua immensa conoscenza
letteraria.
Rimasi
a fissare quei suoi occhi di oceano, perché ci si affogava
lì dentro ed era
impossibile non rimanere incantato da quel mare blu, blu, blu profondo.
Ci sono
volte in cui me li sogno, quei suoi occhi incantati, li vedo
lì, dinanzi a me,
e cerco di acciuffarli, li cerco, li cerco, ma come si fa a prenderli?
Non si
può. Non si poteva acciuffare May, non la si poteva
possedere, no. Era lei,
sempre e comunque, che possedeva te, con quei suoi occhi.
Mi
avvicinai al suo viso – più a vicino
all’oceano, più vicino all’affogare
– e la
baciai. La sua lingua prese a ruzzolare passionalmente insieme alla
mia, che
penetrava la sua bocca, sondandola. Assaggiai quelle sue labbra di
rosa, mentre
quella splendida Musa si metteva cavalcioni sulle mie gambe, le sue
mani sotto
la mia maglietta, a scaldarmi il petto. Pensai che sarei potuto morire,
quando
le sue mani scesero sul mio basso ventre, stuzzicandomi i peli
dell’ombelico,
per poi andare giù, più giù, sempre
più – e io affogavo nei suoi occhi.
Mi
sbottonò i jeans e, mentre le mie mani si stringevano
possessivo sul suo
sedere, mi leccò il lobo sinistro, facendomi desiderare
ancora, ancora di più.
E me lo diede, perché le piaceva avere in pugno la
situazione, godeva nel
vedendermi innocuo, completamente arreso alle sue mani, al suo profumo,
alla
sua carne. Infilò una mano sotto i pantaloni e, senza troppi
indugi, mi afferrò
il sesso, facendomi gemere contro il suo collo. Le sue carezze
iniziarono
lente, introducendomi in un mondo parallelo fatto solo di piacere,
mentre la
mia Musa mi sussurrava parole indecenti all’orecchio, che mi
aiutavano ad
innalzarmi, ad allontanarmi da quella dimensione terrena in cui ero
intrappolato.
Sempre
più sicure, le sue mani percorrevano il mio pene in tutta la
sua lunghezza,
togliendomi la capacità di pensiero, accompagnandomi in
quell’oblio che non
tardò ad arrivare. Appoggiai la testa sulla sua spalla,
stremato e appagato,
mentre May toglieva le mani sporche del mio seme, dalla mia patta.
«I
bravi bambini fanno una volta a ciascuno» disse sfoderando
un’espressione
ingenua ed infantile che non si addiceva per niente alla situazione in
cui
eravamo. Risi, perché non si poteva non rimanere affascinati
dal mistero che
era May. Le leccai il collo, mettendo le mani dentro ai suoi pantaloni,
palpandole il sedere in un modo che era tutto meno che gentile. Ridemmo
a
lungo, così, senza pensare a nulla se non al nostro
personale piacere, ancora
su di giri per l’alcol che avevamo ingerito.
La
ricordo così, quella sera, come un tripudio di carne e
spirito, tra
stupefacenti e pelle contro pelle, mentre le canzoni passavano alla
radio del
Coo, scandendo il ritmo della notte, come un orologio che segna il
tempo, il
tempo che passa, il tempo di godere.
La
ricordo così, quella sera, come la mia prima notte in strada.
*
Angolo
Eryca
Ringrazio
calorosamente HypnosBT
per
essersi proposta come betareader ed aver svolto la sua prima correzione
di
questa storia in modo egregio! <3
Inizio
con lo scusarmi per il terribile
ritardo con il quale posto questo capitolo, ma avrete già
capito che non sono
una persona troppo puntuale :P Ci tengo, inoltre, ad avvisarvi che
quest’estate
sarò ben poco a casa (Francia e Inghilterra mi aspettano,
yep!) quindi il tempo
a disposizione per la scrittura sarà davvero poco;
cercherò, in ogni caso, di
aggiornare almeno una volta al mese! Mi scuso già in
anticipo e spero che
continuerete a seguirmi.
Come
vedete i ragazzi iniziano a
scatenarsi, ma nel prossimo capitolo faranno una tappa tutta speciale,
dove
conoscerete nuovi personaggi bizzarri e i nostri due innamorati faranno
scintille!
Non dirò nulla di più – autrice
sadica
mode on.
Anyway,
ringrazio tutti coloro che
leggono, hanno aggiunto la storia tra le Preferite, le Seguite e le
Ricordate e
quelli che recensiscono (fatelo in tanti, ragazzi! Adoro leggere i
vostri
commenti!).
Peace, love & Over,
la vostra Eryca (che potete su
facebook,
qui.)