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Autore: Rhaenyra17    13/06/2013    2 recensioni
[Dalla prima OS:
"La situazione rimase instabile sino al 24 giugno del 1950. Il giorno successivo, con il consenso del leader dell’Unione Sovietica, Stalin, le truppe nordcoreane invasero la Corea del Sud e diedero inizio alla Guerra di Corea."
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"«Key», lo appellò con il soprannome che gli aveva conferito pochi anni prima, «devo partire».
Se il mondo fosse cascato e la forza di gravità non l’avesse tenuto ancorato ad esso, Kibum era totalmente sicuro che la sua caduta nel vuoto non sarebbe mai terminata. Ed in effetti era ciò che stava facendo in un universo in cui non esisteva altro se non lui. Lo avrebbe preferito di gran lunga.
«Ma…»"]
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[Jongkey; ambientazione storica: Guerra di Corea; deathfic.
Questa raccolta di one shot partecipa al contest indetto dalla pagina facebook "Jongkey Italia 종키".]
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jonghyun, Key, Quasi tutti
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Autore: Giacopinzia17
Titolo della storia: Shadow of the day
Fandom: SHINee
Rating: arancione
Personaggi: Jonghyun, Key, un po' tutti
Tipo di coppia: slash (malexmale)
Coppie: Jongkey
Generi: Angst, guerra, introspettivo, storico, sentimentale (non potevo aggiungerli tutti nell'intro principale D:)
Avvertimenti: AU, Contenuti forti, violenza, deathfic
Disclaimers: i personaggi non sono miei (purtroppo ç_ç) perché reali. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma solo per accontentare la mente in continua produzione di una sottospecie di scrittrice in erba.
Note burocratiche: questa raccolta partecipa al contest indetto dalla pagina Facebook Jongkey Italia 
Note dell'autrice: salve a tutti, baldi giovani (?) Questa è la prima storia che posto in questa sezione. Sarà una raccolta composta da quattro o cinque one shot, ambientate come avrete capito durante la Guerra di Corea. Ogni shot sarà così strutturata: troverete la parte iniziale in corsivo che vi fungerà da introduzione storica, una narrazione di poche righe per farvi capire come si è svolto il tutto eccetera, poi ci sarà il capitolo. Come ho già detto, ma ci tengo a specificarlo e ribadirlo, non sarà propriamente una fanfiction leggera. Ci sarà molto angst, e sappiate che l'introspezione è una cosa che nella storia prevale, anche se mi limiterò al rating arancione, ci saranno contenuti forti e violenza, le descrizioni di una guerra e delle oscenità che essa comporta non sono per stomaci delicati (quanto mi manca quell'avvertimento ç_ç). Ovviamente io non ho vissuto una  guerra, e per fortuna oserei dire, e non mi sembra il caso di scrivervi qualcosa stile Primo Levi, per cui tutto sarà ristretto e limitato. Come ho già detto sarà una DEATH FIC, include una morte di un personaggio e, per evitare che mi linciate o che, se non potete sopportarlo, non andate avanti. Non leggetela proprio xD già mi odio di mio, ma la mia mente suggerisce ciò, quindi...
Ordunque, so che queste note sono un po' lunghette, ma devo scrivere i dovuti chiarimenti.
Alla fine di ogni shot sarà inserito un angolo nel quale citerò gli autori di determinate citazioni (può capitare che ne usi), specificherò delle cose che potrebbero non essere chiare, dei collegamenti fatti dalla mia mente estremamente bacata, la ragione per l'inserimento di un determinato titolo e così via dicendo. Inoltre sappiate che io non mi diletto (ancora) per quanto riguarda la lingua coreana, per cui un po' internet, un po' google traduttore (non me ne vogliate!), è così che troverò delle parole. Quindi siete autorizzati a sgridarmi (e prendervela con internet) in caso di orrori coreani (?).
Ah, giusto un ultimo appunto: non sono sicura di dover aggiungere necessariamente l'avvertimento OOC, dato che ognuno si fa una propria idea di come siano i ragazzi. Inoltre il contesto è particolare, gli anni '50 diversi dall'età odierna e non potrei metterceli proprio esattamente così come si mostrano. Semmai mi direte voi (?)

Credo di non dover dire altro, se non enjoy the first shot!
... Per le presentazioni, credo se ne parlerà alla fine della raccolta xD
Bacioni, Giacos.



Capitolo 1 - Train wreck.

“Correva l’anno 1945.
La seconda guerra mondiale era appena giunta al capolinea, l’impero coloniale giapponese vide il suo periodo peggiore dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, e la Corea meridionale riottenne una minuscola porzione di libertà.
Le truppe statunitensi e sovietiche, però, stavano al contempo occupando il 38° parallelo e dividendo la penisola coreana in due parti: la Corea del Nord, il cui premier fu eletto dall’URSS, e la Corea del Sud. La popolazione del territorio sudcoreano insisté affinché gli fosse concesso di andare alle urne ed eleggere un unico leader per un’unica nazione, ma i comunisti lo impedirono.
Fu così che iniziarono gli scontri tra le due Coree. Fu così che la Corea del Sud, sotto il controllo in parte nipponico, in parte americano, tentò di riprendersi e creare un esercito solidale che potesse abbattere le truppe nordcoreane, con le quali gli scontri infuriavano senza sosta.
La situazione rimase instabile sino al 24 giugno del 1950. Il giorno successivo, con il consenso del leader dell’Unione Sovietica, Stalin, le truppe nordcoreane invasero la Corea del Sud e diedero inizio alla Guerra di Corea.”

17 febbraio 1949, Chungju.

«Quindi tra un po’ arriva anche il nostro turno», mormorò un ragazzo dai capelli biondicci, i cui occhi castani e profondi erano fissi in quelli color cioccolato del compagno di fronte a lui.
«Se continuiamo così, inizierà la guerra», constatò l’altro, sospirando e poggiando una mano sulla spalla dell’altro.
«Abbiamo solo diciassette anni!», protestò invano il più piccolo tra i due, stringendo le mani a pugno e mordendosi il labbro inferiore.
«È più importante questo o il nostro paese, Kibum?», ribatté prontamente il compagno, guardando la porta di camera sua e, rassicurato dalla consapevolezza di essere soli, si lasciò andare ad un abbraccio protettivo. Le sue braccia si strinsero attorno alla nuca del più giovane, il cui capo si poggiò tra la spalla e il collo, il respiro era irregolare e le mani di Kibum strinsero la schiena del moro.
«Ti prometto che andrà tutto bene, fidati di me».
«Non fare promesse che non sei sicuro di poter mantenere, Jonghyun», lo richiamò il biondo, dandogli un’amichevole pacca sul collo e lasciandovi poi un umido bacio appena accennato.
Malinconico, l’altro scrollò le spalle e sussurrò: «Scusa».
«Perdonami tu», sentenziò Kibum, «a volte sono troppo infantile e mi comporto come un idiota».
«Probabilmente perché lo sei… baegchi
1», scherzò Jonghyun, scuotendo il capo e staccandosi da lui. Si allontanò dal letto e si apprestò ad afferrare la propria polaroid, per poi riavvicinarsi al compagno che lo fissava incuriosito, col capo reclinato verso destra e le mani poggiate sul letto.
«Ti va una foto?», domandò il moro, lasciandosi andare al suo solito sorriso sghembo, che ben presto diventò uno genuino; uno di quelli che Kibum tanto amava.
«Vuoi che resti al tuo fianco anche mentre sarai via?», giocò il minore, annuendo col capo e non riuscendo a smettere di fissare la figura longilinea del compagno. Le sue mani mascoline maneggiavano con maestria l’aggeggio che avevano tra loro, la lingua sfiorò il labbro inferiore e i denti impressero una lieve pressione al lato sinistro di questo; alcune ciocche di capelli che gli ricoprivano la fronte seguirono il capo, che si reclinò verso il lato sinistro, mentre le falangi giravano la macchina fotografica verso gli occhi castani del giovane.
«Sì».
Per Kim Kibum, Kim Jonghyun non aveva nulla fuori posto. Era la persona più bella che avesse mai visto, e di tanto in tanto Jonghyun lo scherniva, dicendo che, per i suoi gusti piuttosto discutibili, lui avrebbe potuto avere una pessima reputazione quando il biondo avrebbe detto a qualcuno che era un bel ragazzo.
«Credo di aver sistemato l’obbiettivo», disse il maggiore, storcendo il naso e squadrando ancora un po’ l’oggetto. E nel frattempo Kibum si beò della sua voce roca, da uomo. E non osava immaginare quanto gli sarebbe piaciuta tra qualche anno a questa parte.
Pochi attimi dopo, il moro gli si sedette nuovamente accanto e accostò il proprio viso a quello candido del compagno.
«Pronto?», chiese sorridendo.
Kibum si mise in posa e, sfoggiando il miglior sorriso che possedesse, attese che Jonghyun scattasse e che la foto fuoriuscisse da una sottile apertura dalla vaga forma rettangolare al di sotto dell’apparecchio.  A sua detta, la polaroid era una delle migliori invenzioni degli americani! Peccato non si potesse dire lo stesso delle bombe atomiche che avevano devastato il Giappone, pensò con rammarico. Nonostante la Corea non avesse poi chissà quale buon rapporto con il paese nipponico vicino, la strage che portò alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, colei che uccise milioni e milioni di persone innocenti e non, era una cosa che andava contro la morale universale. Nessuno aveva il diritto di decidere se un individuo dovesse vivere o morire. Ma questo non l’avrebbero capito, le parole di un ragazzino qualunque non avrebbero di certo fatto la differenza. L’unica cosa che poteva fare era prepararsi agli scontri e prestare servizio, affinché la propria nazione uscisse intatta dagli scontri che volevano abbatterla, disintegrarla, facendo in modo che di essa non restasse nemmeno un microscopico pezzetto.
«Eccola qui», Jonghyun afferrò il pezzo di carta con sopra stampati i loro volti sorridenti e la mostrò al biondo, «ti piace?»
«Sì», ammise Kibum, sorridendo rassicurante al compagno e cercando di nascondere nelle sue possibilità il suo prorompente cattivo umore.
«Non mi freghi, idiota», gli ricordò il moro, «ti conosco bene».
«Tanto da leggermi nel pensiero», osservò ammirato il biondo, «i miei più onesti complimenti».
Jonghyun rise, Kibum rimase immobile a fissarlo. Imbambolato. Ipnotizzato da quello smagliante sorriso, da quelle labbra carnose, dalle lievi fossette ai lati di queste e gli occhi a mandorla che si socchiudevano, le palpebre, le ciglia. Al suo sguardo attento non sfuggì nemmeno un minimo dettaglio di quella visione.
Due tocchi alla porta interruppero i due e la voce della madre di Jonghyun li raggiunse: «Jong, posso?»
 «Certo, madre», acconsentì lui, scostandosi leggermente dal biondo, che finse di stare  bene così che la donna non si preoccupasse. Peccato che quando entrò nella stanza, mostrò con ritegno, forse nella vana speranza che i due non lo notassero subito, i suoi occhi arrossati, le ciglia ancora bagnate di lacrime e in mano un fazzoletto di stoffa, col quale non poté fare a meno di asciugarsi il naso.
«Cosa succede?», domandò il moro, scattando in piedi in men che non si dica ed affiancando la giovane madre, che gli poggiò il capo sul petto e strinse tra le mani curate e a tratti attraversate dalle prime rughe della sua età adulta la maglia del figlio.
«Non… non devo…», mormorò tra sé e sé, staccandosi da Jonghyun e porgendogli una lettera piegata, la carta giallognola e ruvida sulla quale vi erano stampate parole dolorose. Ideogrammi che Jonghyun avrebbe preferito di gran lunga non saper decifrare, o che assumessero come per magia un significato differente.
Kibum rimase in silenzio ad osservare la scena con timore. Le mani lisce e curate iniziarono impercettibilmente a tremare, le palpebre a tremare, gli occhi a bruciare, le labbra si schiusero in automatico, come se volessero dire qualcosa di propria spontanea volontà; magari chiedere se fosse tutto okay, ma qualcosa gli suggeriva che non era una buona idea. Le sensazioni che gli pervasero il corpo, il cuore, l’anima, erano delle peggiori che si potessero provare. La paura quasi si impossessò di lui, ma Kibum notò in tempo quella debolezza e decise di reprimerla, anche se, era certo, sarebbe stata solo una cosa momentanea.
Dopo un tempo che nessuno dei presenti fu in grado di determinare, la signora Kim uscì dalla camera del figlio, chiudendo la porta alle proprie spalle e lasciando i due giovani in uno stordente silenzio, uno di quelli che ti distruggono i timpani manco ci fosse qualcuno ad urlarti nell’orecchio con un megafono a massimo volume.
Jonghyun deglutì a fatica, tentando di nasconderlo al compagno dandogli le spalle, ma quest’ultimo notò ogni respiro irregolare, ogni movimento insolito, udì ogni battito del piede del moro sul pavimento, percepì la tensione che si cospargeva nell’aria ed attanagliava interamente il corpo di Jonghyun.
Fu uno scatto automatico come quello del ragazzo in precedenza, forse l’irreprimibile bisogno di fargli sentire la propria presenza, o forse l’egoistica necessità di averlo vicino a sé, ma Kibum si alzò e gli circondò i fianchi con le mani e, poggiando la fronte sulla nuca del maggiore, proferì: «Io sono qui».
Una parte della sua mente in quel momento non poté trattenersi dal criticargli la creatività, l’uso improprio di parole che parevano messe lì a casaccio, vocaboli superflui e che per chiunque altro sarebbero stati inutili.
Per Jonghyun furono il mondo. Furono tutto ciò di cui avvertiva l’impellente bisogno. Le mani del compagno sul proprio corpo gli infusero momentaneamente quella pace che, leggendo quella lettera, aveva perso in linea definitiva.
«Key», lo appellò con il soprannome che gli aveva conferito pochi anni prima, «devo partire».
Se il mondo fosse cascato e la forza di gravità non l’avesse tenuto ancorato ad esso, Kibum era totalmente sicuro che la sua caduta nel vuoto non sarebbe mai terminata. Ed in effetti era ciò che stava facendo in un universo in cui non esisteva altro se non lui. Lo avrebbe preferito di gran lunga.
«Ma…»
La voce gli morì in gola ancor prima che potesse pronunciare parole a caso, la mente si rifiutava di comporre una frase di senso compiuto, offuscata com’era e in procinto di cadere nel buio più totale. Improvvisamente tutte le forze lo abbandonarono, eppure le mani rimasero ancorate ai fianchi del compagno, gli occhi fissavano la stoffa della maglia nera che indossava, la fronte si rifiutava di muoversi dalla sua posizione, il silenzio non voleva saperne di fare meno male.
«La situazione sta degenerando», spiegò dopo qualche minuto Jonghyun, «pare che le truppe nordcoreane stiano cercando l’appoggio del leader dell’URSS per invadere il nostro territorio…
«Se non si trova un accordo o comunque un metodo per placare Kim II-Sung, cosa piuttosto improbabile, sarà la fine. Dobbiamo essere pronti per qualsiasi evenienza.
«Purtroppo la situazione si fa sempre più critica. Bisogna agire nell’immediato.
«Kibum…»
«Allora ho come la sensazione che ci rivedremo presto, Jonghyun», sputò amaro Kibum.
«Spero che quel momento giunga il più tardi possibile».
«Non ci giurerei», sibilò il biondo, staccandosi dal corpo dell’altro ed avvicinandosi alla finestra. Spostò con garbo le tende bianche e semplici che tentavano di impedire al sole di rischiarare eccessivamente l’interno della stanza, gli occhi si immobilizzarono e fissavano attraverso il vetro. Se solo avessero potuto interagire in maniera tangibile con l’ambiente circostante, Kibum avrebbe rotto i vetri, distrutto ogni cosa all’orizzonte. E se, ancor meglio, fosse bastato un semplice  pensiero o la speranza di chi desiderava nient’altro che la pace e un’accettazione reciproca, un’utopia sempre più lontana ed astratta ormai, il mondo non avrebbe mai dovuto conoscere gli orrori della guerra. E Kibum sapeva bene quanto facesse schifo e logorasse la perdita di un caro in battaglia. Una lotta che non apparteneva al singolo, ma ad un insieme che voleva l’unità totale; l’ennesima illusione.
Possibile che non vi fosse una via d’uscita?
Come pochi minuti prima aveva fatto Key, Jong si accostò al suo corpo e lo strinse forte a sé, lasciando che il proprio petto e la schiena del compagno combaciassero alla perfezione, come due pezzi di un puzzle.
«Key», lo chiamò, «promettimi che non ti abbatterai».
«Sai che non lo farei mai».
«So quanto ti fa male».
«Lo prometto».
Seguirono degli attimi di silenzio, poi il minore domandò: «Quando…?»
«Tra due giorni», ammise a fatica, «il tempo di…»
«Nemmeno il tempo di salutare», lo corresse Kibum ancor prima che Jonghyun potesse concludere la frase.
«Credo non mi faranno andare subito in battaglia», constatò, «d’altronde non so ancora come maneggiare le armi».
«Non ti ci vedo proprio con un mitra tra le mani», affermò lievemente sconcertato il più piccolo tra i due, lasciando la presa delle tende, lasciando che si chiudessero e coprissero al meglio i vetri. Si voltò poi verso il compagno, facendogli cenno di indietreggiare ed accennando un sorriso sofferente.
Jonghyun lo comprendeva come nessun altro poteva e avrebbe mai fatto in tutta una vita. Sapeva bene quanto gli costasse sdrammatizzare persino il momento più tragico, era consapevole di quanto lo ferisse la situazione, eppure non poteva fare a meno di adorare, stimare, talvolta invidiare quella tenacia di Kibum. Anche se il giovane non era per nulla convinto di ciò, il moro aveva notato quella forza d’animo che, invece, a lui mancava totalmente. Forse l’orgoglio, forse l’imbarazzo, o probabilmente qualcosa al quale non riusciva ad attribuire un nome e che non riusciva ad inquadrare obiettivamente, gli impediva di pronunciare ad alta voce quelle parole ed ammettere ad alta voce al compagno che c’era una ed una sola ragione per la quale sembrava così forte, così determinato, così uomo.
Lui.
Kim Kibum era l’unico motivo che lo spingeva ad andare avanti, era la sua fonte di forza, quella dalla quale accingeva ogni istante della sua vita, era un tutto che racchiudeva ciò che Jonghyun non possedeva. E osava dire tale cosa per il semplice fatto che, se il compagno avesse in effetti posseduto soltanto ciò che al moro non mancava, come avrebbero potuto completarsi?
Ed era questa la ragione per la quale non avrebbe mai trovato il coraggio di dirlo ad alta voce. Era un miscuglio di emozioni e sensazioni il solo pensiero, figurarsi il produrre dei suoni che avrebbero messo al corrente Kibum di ciò che in tanti anni d’amicizia e in pochi di relazione di cui era ormai ben consapevole.
«Me? Figurarsi te!», ghignò amareggiato e col cuore a pezzi.
«Baegchi…»

**

19 febbraio 1949, stazione di Chungju.

Il tempo è un’arma a doppio taglio: quanto più si vuole che esso passi, meno scorre in fretta; più la volontà che esso rimanga immobile e non prosegua per il suo corso naturale, più quest’ultimo velocizza l’andamento.
Le quarantotto ore che antecedevano la partenza di Jonghyun alternarono il loro scorrimento in maniera impeccabile nella loro normalità; il problema sorgeva soltanto per la percezione che ne avevano Jonghyun e specialmente Kibum.
Da un lato l’impotenza davanti al suo andare avanti, dall’altro vi era la consapevolezza che, anche se con lentezza estenuante, sarebbero passate ed irrimediabilmente i due si sarebbero dovuti separare. Però sorgeva anche un’altra visione della cosa, traumatica in effetti, dolorosa e pietosa, o a seconda dei punti di vista anche cruda, o crudele: anche Kibum sarebbe stato ben presto chiamato per adempiere alla leva militare imposta poco tempo prima dal governo sudcoreano. Ormai l’età contava poco, soprattutto se la situazione andava via via peggiorando piuttosto che migliorando. Ma d’altronde, poteva davvero desiderare che il tempo passasse in fretta ottenendo ormai la consapevolezza di andare in guerra? Poteva davvero volerci andare e rischiare ogni secondo di vedere Jonghyun morire davanti ai suoi occhi?
La rivoluzione non è altro che una grande distruttrice di uomini e caratteri. Consuma i valorosi e annienta i meno forti2
Il rumore assordante di quelle locomotive a vapore, dalle quali fuoriusciva del vapore che si dileguava ben presto nel cielo assestando la velocità con la quale era partito, irritava l’udito particolarmente sensibile di Kibum, che stringeva i pugni e se ne stava a braccia conserte appoggiato ad uno dei muri in mattoni della stazione di Chungju. L’ansia aumentava di secondo in secondo, i pianti delle madri che erano costrette a lasciar andare i propri figli erano la cosa più distruttiva che si potesse udire; scene più tristi ed agghiaccianti non si sarebbero mai potute vedere, se non in periodo di guerra.
Kim Kibum non era una donnicciola e non si sarebbe lasciato andare alle lacrime. Non davanti a tutti quei presenti, no; non si sarebbe mostrato debole dinanzi a Jonghyun. D’altronde gli aveva anche promesso di tenere duro, e Jonghyun glielo aveva chiesto perché sapeva che Key non sarebbe mai venuto meno alla sua promessa, gli fosse costata persino la vita. Un giuramento solenne che, detto così nel periodo in cui vivevano, suonava ridondante, eccessivamente sarcastico per ciò che stavano vivendo sulla propria pelle; eppure, se non avessero sdrammatizzato loro cercando di rendere il tutto più sopportabile, o sarebbe più corretto dire meno insopportabile di quanto non fosse, chi avrebbe dovuto farlo?
La madre di Jonghyun aveva lo sguardo perso nel vuoto, anche se pareva fissare i binari arrugginiti della locomotiva, le pupille erano dilatate, gli occhi lucidi perché colmi di lacrime che si stava imponendo di non versare; non ancora.
Kibum avrebbe voluto far qualcosa. Per quanto in un certo senso si sentiva piuttosto egoista quando si trattava di Jonghyun, avrebbe volentieri portato via il dolore della genitrice e se ne sarebbe fatto carico senza pensarci. In parte lo rincuorava il fatto di non poterlo fare, d’altro canto però lo distruggeva, perché sapeva benissimo come si potesse sentire; almeno parzialmente. Riflettendoci su, dato che avrebbe preferito pensare a qualunque cosa purché non fosse l’imminente partenza del più grande, aveva constatato che, mentre lui stava perdendo l’amore carnale, un amore che era peccato in quanto entrambi erano uomini, un amore che segreto era e segreto sarebbe sempre dovuto rimanere, la signora Kim stava perdendo un figlio, una persona che per mesi aveva cresciuto all’interno del proprio corpo, alla quale aveva offerto tutto ed aveva patito le pene dell’inferno pur di farla nascere; l’aveva cresciuto, accudito con tutto l’amore che le appartenesse, e cosa le rimaneva ora che lo vedeva andare via? I tre quarti del suo cuore se ne sarebbero andati con quel figlio, del quale, Kibum ne era fermamente sicuro, non avrebbe mai smesso di sperare il ritorno.
Non c’è paura senza speranza, così come non c’è speranza senza paura.
Anche se non voleva ammetterlo a se stesso, più che altro per paura che la delusione gli attanagliasse l’animo e il cuore fino a stritolarglieli ed ucciderlo dal dolore lancinante che gli avrebbero causato, anche Kibum ci sperava. Voleva più di qualunque altre cose che quella guerra non cominciasse, o che almeno finisse presto senza mietere troppe vittime. Non desiderava altro se non che lui e Jonghyun avessero l’opportunità di tornare a casa insieme e continuare a vivere un amore proibito in un tempo di pace, senza scontri, senza dolore, senza morti per un capriccio che non aveva fondamenti validi, se non una supremazia che avrebbe portato dei benefici momentanei.
Delle campanelle risuonarono per la stazione, il loro tintinnio e il rumore stridulo quasi stonò i presenti, che allarmati si accinsero rapidamente a salutare i propri cari.
«È arrivato il momento», proferì atono Jonghyun, tentando di nascondere il malumore, la paura, la rabbia in un certo senso, ma non il risentimento verso la propria nazione. Era il suo dovere e non si sarebbe mai tirato indietro, così come Kibum, per quanto il proprio istinto gli suggerisse che magari non era propriamente giusto mandare dei giovani ragazzi in guerra. Era un passo indietro più che in avanti, segno che l’umanità non aveva capito molto nonostante la storia dell’uomo, e loro non avevano voce in capitolo.
Tra morire per la propria patria e morire per non proteggerla, l’addio al mondo più vergognoso e viscido sarebbe stato proprio il secondo.
La madre di Jonghyun abbracciò suo figlio e lo tenne stretto a sé, incapace di lasciarlo andare.
«Chi vuole la pace, prepari la guerra», aveva detto una volta il moro durante quelle lunghe quarantotto ore, «alla fine di tutto ciò raccoglieremo poco, ma tutto andrà meglio».
Lui e il suo ottimismo disarmante che sfiancava Kibum.
Fu giusto un attimo.
Jonghyun abbracciò Key, gli lasciò un bacio sulla fronte e gli strinse la mano come ad un amico; trasmettendogli però l’amore che provava per lui.
Il plotone ordinò la salita sul treno; i soldati obbedirono.
La vista offuscata del biondo non gli permise di vedere tutto con chiarezza, il caos del luogo però non gli impedì di udire le ultime parole che Jonghyun gli rivolse.
«A presto, baegchi».







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N.B.:
1)
baegchi: idiota. O almeno così dice google translate...
2)
Citazione di Lev Tolstoj.

3)  Chungju:  è una città della Corea del Sud che si trova nella provincia del Nord Chungcheong (cit. Wikipedia)
4)  Shadow of the day: il titolo della raccolta. Mi sono ispirata al video dei Linkin Park intitolato proprio così. E col susseguirsi dei capitoli capirete da voi perché "l'ombra del giorno".
5)  Il titolo della shot, "Train wreck",  è inteso come "rottame". Jonghyun prende un treno che lo porterà alla guerra, la guerra rende l'uomo vuoto; un rottame, per l'appunto.

INFINE I RINGRAZIAMENTI AL MIO MIGLIORE AMICO PUNKDARIO CHE STA SEMPRE A SOPPORTARMI ALLE 3.30 DI NOTTE
  
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