Autore:
Giacopinzia17
Titolo
della storia: Shadow of the day
Fandom:
SHINee
Rating:
arancione
Personaggi:
Jonghyun,
Key, un po' tutti
Tipo
di coppia: slash
(malexmale)
Coppie:
Jongkey
Generi:
Angst,
guerra, introspettivo, storico, sentimentale (non potevo aggiungerli
tutti nell'intro principale D:)
Avvertimenti:
AU, Contenuti forti,
violenza, deathfic
Disclaimers:
i
personaggi non sono miei (purtroppo ç_ç)
perché reali. Questa storia non è stata scritta a
scopo di lucro, ma solo per accontentare la mente in continua
produzione di una sottospecie di scrittrice in erba.
Note
burocratiche: questa raccolta
partecipa al contest indetto dalla pagina Facebook Jongkey Italia
Note
dell'autrice: salve a tutti, baldi giovani (?) Questa
è la prima storia che posto in questa sezione.
Sarà una raccolta composta da quattro o cinque one shot,
ambientate come avrete capito durante la Guerra di Corea. Ogni shot
sarà così strutturata: troverete la parte
iniziale in corsivo che vi fungerà da introduzione storica,
una narrazione di poche righe per farvi capire come si è
svolto il tutto eccetera, poi ci sarà il capitolo. Come ho
già detto, ma ci tengo a specificarlo e ribadirlo, non
sarà propriamente una fanfiction leggera. Ci sarà
molto angst, e sappiate che l'introspezione è una cosa che
nella storia prevale, anche se mi limiterò al rating
arancione, ci saranno contenuti forti e violenza, le descrizioni di una
guerra e delle oscenità che essa comporta non sono per
stomaci delicati (quanto mi manca quell'avvertimento
ç_ç). Ovviamente io non ho vissuto una
guerra, e per fortuna oserei dire, e non mi sembra il caso di
scrivervi qualcosa stile Primo Levi, per cui tutto sarà
ristretto e limitato. Come ho già detto sarà una
DEATH FIC, include una morte di un personaggio e, per evitare che mi
linciate o che, se non potete sopportarlo, non andate avanti. Non
leggetela proprio xD già mi odio di mio, ma la mia mente
suggerisce ciò, quindi...
Ordunque, so
che queste note sono un po' lunghette, ma devo scrivere i dovuti
chiarimenti.
Alla fine di
ogni shot sarà inserito un angolo nel quale
citerò gli autori di determinate citazioni (può
capitare che ne usi), specificherò delle cose che potrebbero
non essere chiare, dei collegamenti fatti dalla mia mente estremamente
bacata, la ragione per l'inserimento di un determinato titolo e
così via dicendo. Inoltre sappiate che io non mi diletto
(ancora) per quanto riguarda la lingua coreana, per cui un po'
internet, un po' google traduttore (non me ne vogliate!), è
così che troverò delle parole. Quindi siete
autorizzati a sgridarmi (e prendervela con internet) in caso di orrori
coreani (?).
Ah, giusto un ultimo appunto: non sono sicura di dover aggiungere
necessariamente l'avvertimento OOC, dato che ognuno si fa una propria
idea di come siano i ragazzi. Inoltre il contesto è
particolare, gli anni '50 diversi dall'età odierna e non
potrei metterceli proprio esattamente così come si mostrano.
Semmai mi direte voi (?)
Credo di non
dover dire altro, se non enjoy the first shot!
... Per le
presentazioni, credo se ne parlerà alla fine della raccolta
xD
Bacioni,
Giacos.
Capitolo 1 - Train wreck.
“Correva
l’anno 1945.
La seconda
guerra mondiale era appena giunta al capolinea, l’impero
coloniale
giapponese vide il suo periodo peggiore dopo i bombardamenti di
Hiroshima e
Nagasaki, e la Corea meridionale riottenne una minuscola porzione di
libertà.
Le truppe
statunitensi e sovietiche, però, stavano al contempo
occupando il 38°
parallelo e dividendo la penisola coreana in due parti: la Corea del
Nord, il
cui premier fu eletto dall’URSS, e la Corea del Sud. La popolazione del
territorio sudcoreano
insisté affinché gli fosse concesso di andare
alle urne ed eleggere un unico leader
per un’unica nazione, ma i comunisti lo impedirono.
Fu
così che iniziarono gli scontri tra le due Coree. Fu
così che la Corea del
Sud, sotto il controllo in parte nipponico, in parte americano,
tentò di
riprendersi e creare un esercito solidale che potesse abbattere le
truppe
nordcoreane, con le quali gli scontri infuriavano senza sosta.
La situazione
rimase instabile sino al 24 giugno del 1950. Il giorno
successivo, con il consenso del leader dell’Unione Sovietica,
Stalin, le truppe
nordcoreane invasero la Corea del Sud e diedero inizio alla Guerra di
Corea.”
17
febbraio 1949, Chungju.
«Quindi
tra un po’ arriva anche il nostro turno»,
mormorò un ragazzo dai capelli
biondicci, i cui occhi castani e profondi erano fissi in quelli color
cioccolato del compagno di fronte a lui.
«Se
continuiamo così, inizierà la guerra»,
constatò l’altro, sospirando e
poggiando una mano sulla spalla dell’altro.
«Abbiamo
solo diciassette anni!», protestò invano il
più piccolo tra i due,
stringendo le mani a pugno e mordendosi il labbro inferiore.
«È
più importante questo o il nostro paese, Kibum?»,
ribatté prontamente il
compagno, guardando la porta di camera sua e, rassicurato dalla
consapevolezza
di essere soli, si lasciò andare ad un abbraccio protettivo.
Le sue braccia si
strinsero attorno alla nuca del più giovane, il cui capo si
poggiò tra la
spalla e il collo, il respiro era irregolare e le mani di Kibum
strinsero la
schiena del moro.
«Ti
prometto che andrà tutto bene, fidati di me».
«Non
fare promesse che non sei sicuro di poter mantenere,
Jonghyun», lo
richiamò il biondo, dandogli un’amichevole pacca
sul collo e lasciandovi poi un
umido bacio appena accennato.
Malinconico,
l’altro scrollò le spalle e sussurrò:
«Scusa».
«Perdonami
tu», sentenziò Kibum, «a volte sono
troppo infantile e mi comporto
come un idiota».
«Probabilmente
perché lo sei… baegchi1»,
scherzò Jonghyun, scuotendo il capo e staccandosi da lui. Si
allontanò dal
letto e si apprestò ad afferrare la propria polaroid, per
poi riavvicinarsi al
compagno che lo fissava incuriosito, col capo reclinato verso destra e
le mani
poggiate sul letto.
«Ti
va una foto?», domandò il moro, lasciandosi andare
al suo solito sorriso
sghembo, che ben presto diventò uno genuino; uno di quelli
che Kibum tanto
amava.
«Vuoi
che resti al tuo fianco anche mentre sarai via?»,
giocò il minore,
annuendo col capo e non riuscendo a smettere di fissare la figura
longilinea
del compagno. Le sue mani mascoline maneggiavano con maestria
l’aggeggio che
avevano tra loro, la lingua sfiorò il labbro inferiore e i
denti impressero una
lieve pressione al lato sinistro di questo; alcune ciocche di capelli
che gli
ricoprivano la fronte seguirono il capo, che si reclinò
verso il lato
sinistro,
mentre le falangi giravano la macchina fotografica verso gli occhi
castani del
giovane.
«Sì».
Per Kim Kibum,
Kim Jonghyun non aveva nulla fuori posto. Era la persona più
bella che avesse mai visto, e di tanto in tanto Jonghyun lo scherniva,
dicendo
che, per i suoi gusti piuttosto discutibili, lui avrebbe potuto avere
una
pessima reputazione quando il biondo avrebbe detto a qualcuno che era
un bel
ragazzo.
«Credo
di aver sistemato l’obbiettivo», disse il maggiore,
storcendo il naso e
squadrando ancora un po’ l’oggetto. E nel frattempo
Kibum si beò della sua voce
roca, da uomo. E non osava immaginare quanto gli sarebbe piaciuta tra qualche
anno a questa parte.
Pochi attimi
dopo, il moro gli si sedette nuovamente accanto e accostò il
proprio viso a quello candido del compagno.
«Pronto?»,
chiese sorridendo.
Kibum si mise
in posa e, sfoggiando il miglior sorriso che possedesse, attese
che Jonghyun scattasse e che la foto fuoriuscisse da una sottile
apertura dalla
vaga forma rettangolare al di sotto dell’apparecchio.
A sua detta, la polaroid era una delle migliori
invenzioni degli americani! Peccato non si potesse dire lo stesso delle
bombe
atomiche che avevano devastato il Giappone, pensò con
rammarico. Nonostante la
Corea non avesse poi chissà quale buon rapporto con il paese
nipponico vicino,
la strage che portò alla conclusione della Seconda Guerra
Mondiale, colei che
uccise milioni e milioni di persone innocenti e non, era una cosa che
andava
contro la morale universale. Nessuno
aveva il diritto di decidere se un
individuo dovesse vivere o morire. Ma questo non l’avrebbero
capito, le parole
di un ragazzino qualunque non avrebbero di certo fatto la differenza.
L’unica
cosa che poteva fare era prepararsi agli scontri e prestare servizio,
affinché
la propria nazione uscisse intatta dagli scontri che volevano
abbatterla,
disintegrarla, facendo in modo che di essa non restasse nemmeno un
microscopico
pezzetto.
«Eccola
qui», Jonghyun afferrò il pezzo di carta con sopra
stampati i loro
volti sorridenti e la mostrò al biondo, «ti
piace?»
«Sì»,
ammise Kibum, sorridendo rassicurante al compagno e cercando di
nascondere nelle sue possibilità il suo prorompente cattivo
umore.
«Non
mi freghi, idiota», gli ricordò il moro,
«ti conosco bene».
«Tanto
da leggermi nel pensiero», osservò ammirato il
biondo, «i miei più
onesti complimenti».
Jonghyun rise,
Kibum rimase immobile a fissarlo. Imbambolato. Ipnotizzato da
quello smagliante sorriso, da quelle labbra carnose, dalle lievi
fossette ai
lati di queste e gli occhi a mandorla che si socchiudevano, le
palpebre, le
ciglia. Al suo sguardo attento non sfuggì nemmeno un minimo
dettaglio di quella
visione.
Due tocchi
alla porta interruppero i due e la voce della madre di Jonghyun li
raggiunse: «Jong, posso?»
«Certo,
madre», acconsentì lui,
scostandosi leggermente dal biondo, che finse di stare bene
così che la donna non si preoccupasse.
Peccato che quando entrò nella stanza, mostrò con
ritegno, forse nella vana
speranza che i due non lo notassero subito, i suoi occhi arrossati, le
ciglia
ancora bagnate di lacrime e in mano un fazzoletto di stoffa, col quale
non poté
fare a meno di asciugarsi il naso.
«Cosa
succede?», domandò il moro, scattando
in piedi in men che non si dica
ed affiancando la giovane madre, che gli poggiò il capo sul
petto e strinse tra
le mani curate e a tratti attraversate dalle prime rughe della sua
età adulta
la maglia del figlio.
«Non…
non devo…», mormorò tra sé e
sé, staccandosi da Jonghyun e porgendogli
una lettera piegata, la carta giallognola e ruvida sulla quale vi erano
stampate parole dolorose. Ideogrammi che Jonghyun avrebbe preferito di
gran
lunga non saper decifrare, o che assumessero come per magia un
significato
differente.
Kibum rimase
in silenzio ad osservare la scena con timore. Le mani lisce e
curate iniziarono impercettibilmente a tremare, le palpebre a tremare,
gli occhi
a bruciare, le labbra si schiusero in automatico, come se volessero
dire
qualcosa di propria spontanea volontà; magari chiedere se
fosse tutto okay, ma
qualcosa gli suggeriva che non era una buona idea. Le sensazioni che
gli
pervasero il corpo, il cuore, l’anima, erano delle peggiori
che si potessero
provare. La paura quasi si impossessò di lui, ma Kibum
notò in tempo quella
debolezza e decise di reprimerla, anche se, era certo, sarebbe stata
solo una
cosa momentanea.
Dopo un tempo
che nessuno dei presenti fu in grado di determinare, la signora
Kim uscì dalla camera del figlio, chiudendo la porta alle
proprie spalle e
lasciando i due giovani in uno stordente silenzio, uno di quelli che ti
distruggono i timpani manco ci fosse qualcuno ad urlarti
nell’orecchio con un
megafono a massimo volume.
Jonghyun
deglutì a fatica, tentando di nasconderlo al compagno
dandogli le
spalle, ma quest’ultimo notò ogni respiro
irregolare, ogni movimento insolito,
udì ogni battito del piede del moro sul pavimento,
percepì la tensione che si
cospargeva nell’aria ed attanagliava interamente il corpo di
Jonghyun.
Fu uno scatto
automatico come quello del ragazzo in precedenza, forse
l’irreprimibile bisogno di fargli sentire la propria
presenza, o forse
l’egoistica necessità di averlo vicino a
sé, ma Kibum si alzò e gli circondò i
fianchi con le mani e, poggiando la fronte sulla nuca del maggiore,
proferì: «Io
sono qui».
Una parte
della sua mente in quel momento non poté trattenersi dal
criticargli
la creatività, l’uso improprio di parole che
parevano messe lì a casaccio,
vocaboli superflui e che per chiunque altro sarebbero stati inutili.
Per Jonghyun
furono il mondo. Furono tutto ciò di cui avvertiva
l’impellente
bisogno. Le mani del compagno sul proprio corpo gli infusero
momentaneamente
quella pace che, leggendo quella lettera, aveva perso in linea
definitiva.
«Key»,
lo appellò con il soprannome che gli aveva conferito pochi
anni prima, «devo
partire».
Se il mondo
fosse cascato e la forza di gravità non l’avesse
tenuto ancorato ad
esso, Kibum era totalmente sicuro che la sua caduta nel vuoto non
sarebbe mai
terminata. Ed in effetti era ciò che stava facendo in un
universo in cui non
esisteva altro se non lui. Lo avrebbe preferito di gran lunga.
«Ma…»
La voce gli
morì in gola ancor prima che potesse pronunciare parole a
caso, la
mente si rifiutava di comporre una frase di senso compiuto, offuscata
com’era e
in procinto di cadere nel buio più totale. Improvvisamente
tutte le
forze lo
abbandonarono, eppure le mani rimasero ancorate ai fianchi del
compagno, gli
occhi fissavano la stoffa della maglia nera che indossava, la fronte si
rifiutava di muoversi dalla sua posizione, il silenzio non voleva
saperne di
fare meno male.
«La
situazione sta degenerando», spiegò dopo qualche
minuto Jonghyun, «pare che
le truppe nordcoreane stiano cercando l’appoggio del leader
dell’URSS per
invadere il nostro territorio…
«Se
non si trova un accordo o comunque un metodo per placare Kim II-Sung,
cosa
piuttosto improbabile, sarà la fine. Dobbiamo essere pronti
per qualsiasi
evenienza.
«Purtroppo
la situazione si fa sempre più critica. Bisogna agire
nell’immediato.
«Kibum…»
«Allora
ho come la sensazione che ci rivedremo presto, Jonghyun»,
sputò amaro
Kibum.
«Spero
che quel momento giunga il più tardi possibile».
«Non
ci giurerei», sibilò il biondo, staccandosi dal
corpo dell’altro ed
avvicinandosi alla finestra. Spostò con garbo le tende
bianche e semplici che
tentavano di impedire al sole di rischiarare eccessivamente
l’interno della
stanza, gli occhi si immobilizzarono e fissavano attraverso il vetro.
Se solo
avessero potuto interagire in maniera tangibile con
l’ambiente circostante,
Kibum avrebbe rotto i vetri, distrutto ogni cosa
all’orizzonte. E se, ancor
meglio, fosse bastato un semplice
pensiero o la speranza di chi desiderava nient’altro che la
pace e
un’accettazione reciproca, un’utopia sempre
più lontana ed astratta ormai, il
mondo non avrebbe mai dovuto conoscere gli orrori della guerra. E Kibum
sapeva
bene quanto facesse schifo e logorasse la perdita di un caro in
battaglia. Una
lotta che non apparteneva al singolo, ma ad un insieme che voleva
l’unità
totale; l’ennesima illusione.
Possibile che
non vi fosse una via d’uscita?
Come pochi
minuti prima aveva fatto Key, Jong si accostò al suo corpo e
lo strinse
forte a sé, lasciando che il proprio petto e la schiena del
compagno
combaciassero alla perfezione, come due pezzi di un puzzle.
«Key»,
lo chiamò, «promettimi che non ti
abbatterai».
«Sai
che non lo farei mai».
«So
quanto ti fa male».
«Lo
prometto».
Seguirono
degli attimi di silenzio, poi il minore domandò:
«Quando…?»
«Tra
due giorni», ammise a fatica, «il tempo
di…»
«Nemmeno
il tempo di salutare», lo corresse Kibum ancor prima che
Jonghyun
potesse concludere la frase.
«Credo
non mi faranno andare subito in battaglia»,
constatò, «d’altronde non so
ancora come maneggiare le armi».
«Non
ti ci vedo proprio con un mitra tra le mani»,
affermò lievemente
sconcertato il più piccolo tra i due, lasciando la presa
delle tende, lasciando
che si chiudessero e coprissero al meglio i vetri. Si voltò
poi verso il
compagno, facendogli cenno di indietreggiare ed accennando un sorriso
sofferente.
Jonghyun lo
comprendeva come nessun altro poteva e avrebbe mai fatto in tutta
una vita. Sapeva bene quanto gli costasse sdrammatizzare persino il
momento più
tragico, era consapevole di quanto lo ferisse la situazione, eppure non
poteva
fare a meno di adorare, stimare, talvolta invidiare quella tenacia di
Kibum.
Anche se il giovane non era per nulla convinto di ciò, il
moro aveva notato
quella forza d’animo che, invece, a lui mancava totalmente.
Forse l’orgoglio,
forse l’imbarazzo, o probabilmente qualcosa al quale non
riusciva ad attribuire
un nome e che non riusciva ad inquadrare obiettivamente, gli impediva
di
pronunciare ad alta voce quelle parole ed ammettere ad alta voce al
compagno
che c’era una ed una sola ragione per la quale sembrava
così forte, così
determinato, così uomo.
Lui.
Kim Kibum era
l’unico motivo che lo spingeva ad andare avanti, era la sua
fonte
di forza, quella dalla quale accingeva ogni istante della sua vita, era
un
tutto che racchiudeva ciò che Jonghyun non possedeva. E
osava dire tale cosa
per il semplice fatto che, se il compagno avesse in effetti posseduto
soltanto
ciò che al moro non mancava, come avrebbero potuto
completarsi?
Ed era questa
la ragione per la quale non avrebbe mai trovato il coraggio di
dirlo ad alta voce. Era un miscuglio di emozioni e sensazioni il solo
pensiero,
figurarsi il produrre dei suoni che avrebbero messo al corrente Kibum
di ciò
che in tanti anni d’amicizia e in pochi di relazione di cui
era ormai ben
consapevole.
«Me?
Figurarsi te!», ghignò amareggiato e col cuore a
pezzi.
«Baegchi…»
**
19 febbraio 1949, stazione di Chungju.Le quarantotto ore che antecedevano la partenza di Jonghyun alternarono il loro scorrimento in maniera impeccabile nella loro normalità; il problema sorgeva soltanto per la percezione che ne avevano Jonghyun e specialmente Kibum.
Da un lato l’impotenza davanti al suo andare avanti, dall’altro vi era la consapevolezza che, anche se con lentezza estenuante, sarebbero passate ed irrimediabilmente i due si sarebbero dovuti separare. Però sorgeva anche un’altra visione della cosa, traumatica in effetti, dolorosa e pietosa, o a seconda dei punti di vista anche cruda, o crudele: anche Kibum sarebbe stato ben presto chiamato per adempiere alla leva militare imposta poco tempo prima dal governo sudcoreano. Ormai l’età contava poco, soprattutto se la situazione andava via via peggiorando piuttosto che migliorando. Ma d’altronde, poteva davvero desiderare che il tempo passasse in fretta ottenendo ormai la consapevolezza di andare in guerra? Poteva davvero volerci andare e rischiare ogni secondo di vedere Jonghyun morire davanti ai suoi occhi?
La rivoluzione non è altro che una grande distruttrice di uomini e caratteri. Consuma i valorosi e annienta i meno forti2.
Il rumore assordante di quelle locomotive a vapore, dalle quali fuoriusciva del vapore che si dileguava ben presto nel cielo assestando la velocità con la quale era partito, irritava l’udito particolarmente sensibile di Kibum, che stringeva i pugni e se ne stava a braccia conserte appoggiato ad uno dei muri in mattoni della stazione di Chungju. L’ansia aumentava di secondo in secondo, i pianti delle madri che erano costrette a lasciar andare i propri figli erano la cosa più distruttiva che si potesse udire; scene più tristi ed agghiaccianti non si sarebbero mai potute vedere, se non in periodo di guerra.
Kim Kibum non era una donnicciola e non si sarebbe lasciato andare alle lacrime. Non davanti a tutti quei presenti, no; non si sarebbe mostrato debole dinanzi a Jonghyun. D’altronde gli aveva anche promesso di tenere duro, e Jonghyun glielo aveva chiesto perché sapeva che Key non sarebbe mai venuto meno alla sua promessa, gli fosse costata persino la vita. Un giuramento solenne che, detto così nel periodo in cui vivevano, suonava ridondante, eccessivamente sarcastico per ciò che stavano vivendo sulla propria pelle; eppure, se non avessero sdrammatizzato loro cercando di rendere il tutto più sopportabile, o sarebbe più corretto dire meno insopportabile di quanto non fosse, chi avrebbe dovuto farlo?
La madre di Jonghyun aveva lo sguardo perso nel vuoto, anche se pareva fissare i binari arrugginiti della locomotiva, le pupille erano dilatate, gli occhi lucidi perché colmi di lacrime che si stava imponendo di non versare; non ancora.
Kibum avrebbe voluto far qualcosa. Per quanto in un certo senso si sentiva piuttosto egoista quando si trattava di Jonghyun, avrebbe volentieri portato via il dolore della genitrice e se ne sarebbe fatto carico senza pensarci. In parte lo rincuorava il fatto di non poterlo fare, d’altro canto però lo distruggeva, perché sapeva benissimo come si potesse sentire; almeno parzialmente. Riflettendoci su, dato che avrebbe preferito pensare a qualunque cosa purché non fosse l’imminente partenza del più grande, aveva constatato che, mentre lui stava perdendo l’amore carnale, un amore che era peccato in quanto entrambi erano uomini, un amore che segreto era e segreto sarebbe sempre dovuto rimanere, la signora Kim stava perdendo un figlio, una persona che per mesi aveva cresciuto all’interno del proprio corpo, alla quale aveva offerto tutto ed aveva patito le pene dell’inferno pur di farla nascere; l’aveva cresciuto, accudito con tutto l’amore che le appartenesse, e cosa le rimaneva ora che lo vedeva andare via? I tre quarti del suo cuore se ne sarebbero andati con quel figlio, del quale, Kibum ne era fermamente sicuro, non avrebbe mai smesso di sperare il ritorno.
Non c’è paura senza speranza, così come non c’è speranza senza paura.
Anche se non voleva ammetterlo a se stesso, più che altro per paura che la delusione gli attanagliasse l’animo e il cuore fino a stritolarglieli ed ucciderlo dal dolore lancinante che gli avrebbero causato, anche Kibum ci sperava. Voleva più di qualunque altre cose che quella guerra non cominciasse, o che almeno finisse presto senza mietere troppe vittime. Non desiderava altro se non che lui e Jonghyun avessero l’opportunità di tornare a casa insieme e continuare a vivere un amore proibito in un tempo di pace, senza scontri, senza dolore, senza morti per un capriccio che non aveva fondamenti validi, se non una supremazia che avrebbe portato dei benefici momentanei.
Delle campanelle risuonarono per la stazione, il loro tintinnio e il rumore stridulo quasi stonò i presenti, che allarmati si accinsero rapidamente a salutare i propri cari.
«È arrivato il momento», proferì atono Jonghyun, tentando di nascondere il malumore, la paura, la rabbia in un certo senso, ma non il risentimento verso la propria nazione. Era il suo dovere e non si sarebbe mai tirato indietro, così come Kibum, per quanto il proprio istinto gli suggerisse che magari non era propriamente giusto mandare dei giovani ragazzi in guerra. Era un passo indietro più che in avanti, segno che l’umanità non aveva capito molto nonostante la storia dell’uomo, e loro non avevano voce in capitolo.
Tra morire per la propria patria e morire per non proteggerla, l’addio al mondo più vergognoso e viscido sarebbe stato proprio il secondo.
La madre di Jonghyun abbracciò suo figlio e lo tenne stretto a sé, incapace di lasciarlo andare.
«Chi vuole la pace, prepari la guerra», aveva detto una volta il moro durante quelle lunghe quarantotto ore, «alla fine di tutto ciò raccoglieremo poco, ma tutto andrà meglio».
Lui e il suo ottimismo disarmante che sfiancava Kibum.
Fu giusto un attimo.
Jonghyun abbracciò Key, gli lasciò un bacio sulla fronte e gli strinse la mano come ad un amico; trasmettendogli però l’amore che provava per lui.
Il plotone ordinò la salita sul treno; i soldati obbedirono.
La vista offuscata del biondo non gli permise di vedere tutto con chiarezza, il caos del luogo però non gli impedì di udire le ultime parole che Jonghyun gli rivolse.
«A presto, baegchi».
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N.B.:
1) baegchi: idiota. O almeno così dice google translate...
2) Citazione di Lev Tolstoj.
3) Chungju: è una città della Corea del Sud che si trova nella provincia del Nord Chungcheong (cit. Wikipedia)
4) Shadow of the day: il titolo della raccolta. Mi sono ispirata al video dei Linkin Park intitolato proprio così. E col susseguirsi dei capitoli capirete da voi perché "l'ombra del giorno".
5) Il titolo della shot, "Train wreck", è inteso come "rottame". Jonghyun prende un treno che lo porterà alla guerra, la guerra rende l'uomo vuoto; un rottame, per l'appunto.
INFINE I RINGRAZIAMENTI AL MIO MIGLIORE AMICO PUNKDARIO CHE STA SEMPRE A SOPPORTARMI ALLE 3.30 DI NOTTE♥