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Autore: ScleratissimaGiu    14/06/2013    6 recensioni
Noah ha assistito al cambiamento radicale di Jeff, ragazzo del suo quartiere, rimanendone affascinato e spaventato allo stesso tempo.
Sette anni dopo, qualcosa tornerà dal passato.
Consiglio: se volete leggere questa One Shot, è meglio che prima andiate a leggervi la storia di Jeff su Creepypasta... ma non guardate la sua foto: è un consiglio che vi do da amica.
Genere: Horror, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In fondo al viale c’era una casa.
No, non è davvero così: in fondo al viale c’era la casa.
Era vecchia, ma nonostante questo non c’era una crepa ad interrompere il colore bianco dei muri esterni, e probabilmente non ce n’era una nemmeno all’interno.
All’interno c’era solo il loro sangue sparso sui pavimenti.
Il che significava che il loro sangue era diventato praticamente come un tappeto, per i pavimenti.
In giardino non c’erano erbacce, ma solo un albero e poche piante, ma niente fiori.
Si diceva che lui non amasse i fiori.
No, lui non amava nessuno.
Nemmeno suo fratello, anche se sembrava che di lui gli importasse qualcosa.
Tanto che avrebbe voluto andare in prigione al suo posto.
Ma è stato tanto tempo fa.
Adesso non ci sono più, nessuno di loro.
Lui, lui non riescono a prenderlo.
È troppo furbo.
È troppo bravo.
È troppo inumano.
I corpi li hanno trovati una mattina, per puro caso, perché la mamma di Noah doveva restituire una pirofila alla mamma di Jeff.
Nessuno pronuncia più il suo nome, in città.
Hanno paura.
Che Jeff li senta.
Che venga a prenderli.
Che faccia vedere loro la sua faccia.
Noah rimirava la casa in silenzio, dall’altra parte della via, tutti i pomeriggi, quando non pioveva e prima che tramontasse il sole.
Quando arrivava il buio, era troppo pericoloso stare lì.
Potevi ancora sentire le loro urla.
Potevi vedere la luce del bagno accesa, e sentire Jeff che ride tagliandosi la bocca e bruciandosi le sopracciglia.
Noah non voleva niente di tutto questo, ma la casa lo affascinava.
Aveva un’attrazione magnetica che il bambino non poteva negare, e a cui resisteva solo perché la paura riusciva, il più delle volte, a vincerla.
Ed era felice di questo.
Noah aveva molta paura di Jeff.
Aveva molta paura della casa.
Lui era piccolo, quand’era successo, ma un corpo vivente in fiamme non si dimentica troppo facilmente.
A quella dannata festa, i bulli gli avevano dato fuoco.
L’avevano sfigurato.
L’avevano cambiato.
Gli avevano rotto l’anima.
E in quel momento, Jeff se n’era andato.
Al suo posto, era arrivato un sadico dalla faccia mostruosa.
Torna a dormire.
Era scritto col sangue, sopra i corpi morti della sua famiglia.
L’aveva scritto lui.
Torna a dormire.
Noah non aveva più dormito molto da quella notte, come gli altri bambini che abitavano nella via.
Ma non se lo confessavano.
Perché Jeff li sentiva.
Jeff sente tutto.
Jeff sa tutto.
- Cosa c’è mamma? Non ti piaccio? Non mi trovi bello?
Quando aveva capito che sua madre non lo trovava bello, l’aveva uccisa.
Come suo padre.
Come suo fratello e altre persone.
Troppe.
Se avesse sentito che Noah oppure i suoi amici fare qualche commento spiacevole sulla sua bellezza, li avrebbe uccisi.
Non prima di averli torturati.
Ma Jeff non infliggeva torture corporali; lui infliggeva quelle mentali, che sono anche peggio.
Noah avrebbe di gran lunga preferito qualche cicatrice alla paura eterna del suo viso, e così tutti gli altri che vivevano nel quartiere.
Ma a Jeff non importava.
Adesso, che stava per essere il settimo anniversario del massacro avvenuto nella casa, Noah e i bambini sapevano che sarebbe tornato.
Una volta, un ragazzo di quattordici anni aveva detto che, secondo lui, tornava tutti gli anni.
- Perché era la sua famiglia, - aveva spiegato con l’aria di chi la sa lunga – e quindi torna qui.
I bambini ci credevano.
Arthur il giornalaio ci credeva.
Bill Turcotte, il preside della scuola, ci credeva.
Hannah del negozio d’antiquariato ci credeva.
Tutti ci credevano.
E lui lo sapeva.
Sapeva che avevano paura, ma non si faceva vedere.
Perché in quella zona non voleva uccidere nessun altro.
Lì lo rispettavano.
Era fuori che lo odiavano.
Torna a dormire.
Noah, anche quella sera, stava lì a guardare la casa.
Sette anni, pensava distrattamente, sono già sette anni.
Lui c’era, quando Jeff era cambiato.
Aveva visto tutto, ma non era riuscito ad aiutarlo.
Nessuno ce l’aveva fatta.
Avevano solo spento le fiamme.
E comunque nessuno aveva aiutato la sua famiglia, qualche giorno più tardi… anche se le loro grida eccheggiarono per tutto il vicinato.
Dalla finestra della sua stanza, la casa si vedeva perfettamente.
Sembrava una casa come tutte, da fuori, ma dentro nascondeva tanto di quell’orrore e di quella paura che nemmeno il più orrendo degli omicidi le avrebbe compensate.
Noah rimase a lungo, quel pomeriggio.
Perché voleva vedere se era già arrivato.
Il giardino era a posto, le tende ai lati delle finestre immobili.
Non c’è, pensò il bambino, magari quest’anno non viene.
Noah decise allora di incamminarsi verso casa, dato che stava arrivando l’ora di cena, ma proprio quando voltò la testa notò qualcosa.
C’erano dei piccoli solchi nell’erba del giardino.
Come se qualcuno l’avesse calpestata.
Sono passi, si disse, iniziando a sudare freddo.
Jeff era arrivato.
Noah iniziò a correre più veloce che poteva, ma non disse niente: se era tornato veramente, se la sarebbe presa.
E anche male.
Noah amava disegnare.
Cioè, non che si rendesse conto di quanto gli piacesse, ma se si annoiava o era un po’ giù di morale, disegnava.
E poi tornava tutto come prima.
Ma quella volta no.
La scrivania dove disegnava di solito era sotto la finestra, quella da cui vedeva la casa.
Era inevitabile che, almeno una volta, Noah alzasse gli occhi per guardare fuori.
Lo fece anche quella sera.
Mossa sbagliata.
Le luci della casa erano tutte accese.
Le finestre spalancate.
Le tende del primo piano venivano mosse fuori all’aperto dal fresco venticello, e lui stava accovacciato sul davanzale di una di esse, fissando Noah.
Sorrideva.
Ma lui sorride sempre.
Il bambino rimase come ipnotizzato, senza sapere che fare.
Poi, lui increspò le labbra in un bacio, che fece volare verso la finestra del dodicenne.
Noah spinse indietro la sedia e cadde, rovesciando anche il suo disegno.
Quando si rialzò e tornò alla finestra, Jeff se n’era andato.
Addormentarsi, per Noah, fu duro, quella sera.
Si assicurò per ben quattro volte che tutte le porte e le finestre di casa fossero chiuse a chiave e barricò, per sicurezza, anche quelle di camera sua.
Alla fine, convinto di essere ben protetto sotto al piumone, si addormentò profondamente.
Verso mezzanotte, si svegliò urlando e bagnato fradicio per aver fatto un brutto sogno.
Spaventato, fece una cosa che, normalmente, da piccoli (forse anche più piccoli di Noah) abbiamo fatto tutti: andò da mamma e papà.
- Papà, - sussurrò, scuotendo il padre ancora addormentato – papà, svegliati.
- Che c’è…? – sbiascicò suo padre, senza voltarsi verso il figlio.
- Papà, ho fatto un brutto sogno…
- Oh, Noah… coraggio, coraggio… lasciami dormire…
L’uomo non si girava.
Noah non demordeva.
- Ma papà…
L’uomo si girò.
In volto aveva un largo sorriso.
Un sorriso più grande del normale.
Un sorriso che aveva solo una persona, perché se l’era inciso da sé.
A Noah mancò il respiro.
Quello non era suo padre.
- Torna a dormire, Noah.

Torna a dormire.


  
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