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Autore: Antiluce    14/06/2013    0 recensioni
un racconto che parla di una ragazza che si è persa, ha perso il suo cuore e deve ritrovarlo..
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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  Tagliava le verdure nel piatto con precisione quasi chirurgica.
Si limitò a guardarla distratto per un attimo, subito si voltò, andando quasi via, girato verso la finestra e verso altri pensieri.
I vestiti che lei ora aveva indosso ieri erano caduti, allo stesso modo delle verdure nel piatto, come se ogni piega di tessuto fosse importante, come se ogni centimetro andava misurato, controllato. Lui non l’aveva guardata mentre si spogliava. C’era uno specchio di fronte al divano; ma non si vide riflessa lì, la sua anima era ferma, immobile davanti alla porta. Era quasi ubriaca, non abbastanza, pianse mentre lui la penetrava.
Era sola.
Lui anche.
-Non mangi niente?-
Ritornò di colpo al piatto, alla realtà che la circondava, alle sue verdure e al suo pezzo di carne.
La sera precedente non aveva tradito l’uomo che ora le era di fronte, no. No, perché la sua anima era rimasta in silenzio, accanto alla porta. Le lacrime ieri erano scese copiose, l’uomo senza nome non le aveva neanche notate.
-Sì, con calma.- Fece lei
Si guardarono, finalmente, e lei si sentì un po’ meno sola. Richiuse i ricordi della sera precedente altrove e il suo sguardo ritornò limpido.
-Grazie, cucini ancora molto bene- gli disse.
-Lo so.- Era distratto, troppo. Si chiedeva perché l’avesse invitata a mangiare da lui dopo così tanti anni, e perché lei avesse accettato.
-Non ci vediamo da troppo tempo! Dove sei stato?- La domanda le scappò via, non trapelava alcuna profondità dietro il suo gelo, aveva paura di sentire la risposta. Aiutami  voleva dirgli. Io non ti ho mai tradito. Ma era vero che la sua carne nuda aveva incontrato altri uomini, tutti senza nome, senza volto.
Per lei andare a letto con quegli uomini era stato come andare al supermercato e urtare il carrello di uno sconosciuto.
-Sai ho avuto molto da fare, università, lavoro.-
hai smesso di guardarmi in faccia, pensò lei. Voleva dirlo, gridarlo. Ma le parole le rimasero brutalmente fra la bocca dello stomaco e la gola, come a volerla soffocare. Fecero un percorso alternativo per uscire e si cristallizzarono dentro una minuscola e strozzatissima lacrimuccia. Indegna di quella parole.
Si sforzò di sorridergli. Stava sufficientemente male.
-Dove lavori ora?-
Lui si dilungò molto nel parlarle del suo strano mestiere. Insegnava a scrivere.
-Scrivere cosa?- una vecchia scintilla di curiosità era tornata a farle visita, dopo tanto.
-A scrivere nel senso che insegno a scrivere ogni tipo di calligrafia nascosta nelle nostre mani, a riconoscerla. Ogni macchia di inchiostro che lascia la penna, non è casuale, ogni lettera ha una forma specifica ogni volta che proviamo qualcosa, che scriviamo a qualcuno. Le mani sono bellissime, tutte, e questo è un po’ banale da dire.-
quanto tempo è passato? Dieci anni, circa. Quasi undici se si contava meglio. Con le date era sempre stata brava, lui meno, però ora dimenticava spesso.
Quando erano più giovani avevano sogni diversi.
-Hai ancora i sogni che avevi da ragazza?-
-Ora non sono vecchia.-
-Ce li hai?-
-Non lo so.-
Quei sogni li aveva sistemai in un altro cassetto, lontano dalla bocca e dal ricordo dell’uomo di ieri e del divano.
-Faccio la ballerina di sera. Ha sempre a che vedere con lo spettacolo, dai.-
-E sei brava?-
-Un po’..-
Aveva imparato a svuotarsi . Fare la ballerina era praticamente incarnarsi nel nulla, perché solo le note forsennate e ripetitive che la percuotevano avevano il diritto di esistere. E ogni giorni pian piano si infittiva nel nulla.
quando sarò grande farò l’attrice, voglio scrivere, essere felice!”
In dieci anni le persone muoiono, nascono, e lei anche.
-Però non venire a vedermi- puntualizzò  – Non ti piacerebbe.-
-Va  bene.- Non fece ulteriori domande, perché dentro di sé era alla ricerca di un filo. Un filo che un tempo li collegava, difficile da trovare dopo tutti questi  anni. Lei gli sorrise.
-Qualcosa non va?- chiese sempre sorridendo.
-Come stai?-
-Sto. Dove stai?-
-Nella mia testa-
-Prima lì dentro c’ero anch’io.- Tesa, come una corda di violino.
-Ci sei ancora, da qualche parte.-
-Lo so.- No, non lo sapeva più, l’aveva scordato, insieme alla felicità.
Distolsero lo sguardo, ripresero fiato, come durante un incontro di boxe, toccata riprendersi nei rispettivi angoli.
Lei fece un resoconto nella sua testa: studiava, scuoteva il corpo, andava a letto con uomini che parlavano, parlavano, ma erano solo sconosciuti. Era ormai vuota, un bel corpo vuoto e facile. La sostanza giaceva in fin di vita, nei cassetti chiusi. Nessuno andava a curiosare lì, volevano tutti vedere merce più facile da trovare, da mettere in mostra. Cosce, gemiti. Accontentarli era facile, era una sorta di insano masochismo. Era l’atto peggiore che poteva riservare a se stessa.
Le chiavi di quei cassetti chiusi era in giro, da qualche parte, ma non (ri)trovava in nessuno gli occhi che potessero restituirgliele.
-Scusami- Lui era in piedi a lato suo e le stava togliendo il piatto. Erano nel suo anonimo appartamento dai colori pastello, troppo tenui, troppo gentili.
-Dicevi che non avresti mai voluto comprare casa-
-È in affitto, infatti.-
-Vivi solo?-
-No, il mio coinquilino rientra fra tre giorni. Ora è fuori, è tornato dalla compagna per far pace. Hanno litigato, di nuovo.-
Perché le diceva queste cose? Parlare con lei era sempre stato facile, fluido. Era il posto perfetto per le sue parole, era accogliente. Doveva cercare, chissà dove, quell’essere accogliente del passato, ora sembrava solo un animaletto spaventato..
Sapeva che da qualche parte era ancora morbida, che era rimasto un punto in cui la corazza di diamante non era arrivata. Esattamente quel centimetro era il punto di connessione del loro filo. C’era ancora, ne era sicuro. Lui doveva solo trovare la sua parte di estremità.
Per lui, lei era sempre stata diamante falso. Burro sotto le dita, pronto a essere sciolto.
-Spero che facciano pace allora. Lei com’è?-
-Normale.-
-Eloquente.-
-Do’ la giusta dose di parole alle cose poco importanti. Che t’importa di com’è quella sconosciuta?-
-Cos’è importante in questo momento?-
Lui non riusciva ancora a risponderle. Lei pian piano usciva dal suo bunker, dal carcere di massima sicurezza nel quale si era auto-imprigionata. Quello era stato un processo truccato dalla Necessità però…
-Ieri sono stata a letto con un uomo. Non solo ieri. Sono dieci anni ormai.- La prima pallottola era stata lanciata. –È stato orribile, anzi insapore. Quell’uomo era insipido, proprio come tutti gli altri.- o forse quella insipida sono io.
-
Era quello che volevi, dieci anni fa.-
-Sì, è vero.-
-E adesso cosa vuoi?-Perché sei qui? Perché io e te siamo qui a mescolarci, un’altra volta dopo dieci anni?
-Morire, e rinascere.- Voglio solo le chiavi dei miei cassetti, voglio tornare.
-È comprensibile. Che stai studiando?-
-Libri, sciocchi, incompleti, insoddisfacenti e pomposi.- un piede era già fuori dalla porta blindata del bunker..
-Anche io sono stato a letto con altre donne. Mi vedo con una, ora.-
-E ora dov’è?-
-Non c’è, ora ci sei tu. Mangia il dolce.- lui aveva ritrovato il filo, ora bisognava aspettare il momento giusto per tirarlo. Lei avrebbe sentito il contraccolpo? -Cosa potrebbe renderti felice, in questo momento?- riprese lui.
-Un gelato al cioccolato, domani, con te.- Piccole promesse di futuro.
-Forse posso promettertelo..-
-Non fare promesse che non puoi mantenere.-
-Non le ho mai fatte, mi conosci.-
-Dicevi che saremmo stati insieme per sempre.-
-Non ho detto che nella realtà sarebbe stato così..-ma dentro di me, in almeno un centinaio di universi paralleli, ci puoi giurare. Dentro di me sei sempre stata viva e prendiamo il thè insieme alle quattro e mezza precise. I suoi occhi erano finalmente un po’ più accoglienti.
-Posso restare qui oggi?-
-D’accordo.-
-Più tardi faccio il thè allora!-Esclamò tutta contenta. Ecco il filo che li connetteva, da sempre. Lungo, sottile, ma indistruttibile e quei dieci anni ne erano la prova.
Si erano trovati e poi brutalmente lasciati, da ragazzini. Erano piccoli, spaventati e spaesati, ma innamorati. Allora aveva appena diciassette anni lei, lui diciotto. Erano incappati in qualcosa di davvero troppo grande che li aveva sovrastato. “voglio avere altre storie, altri uomini. Un giorno ci rivedremo, forse. Per ora ciao.
Lei lo aveva lasciato così, con un ciao che lui aveva ricambiato, per poi mettersi in attesa. Stette male, si richiuse su se stesso, a mò di riccio, e nessuno ricevette per un bel po’ le sue parole, perché lei era l’unica, l’unica. Poi un giorno che le foglie si staccavano dagli alberi, iniziò a costruire qualcosa. Capì che la sue vita lo stava rimettendo a nuovo.
E ora che lei gli era di fronte capii che era per lei quella vita nuova.
Lei invece, da quandò decise di  lasciarlo, cominciò a vagare fra le persone. Vecchie amicizie stantie finite chissà dove. Era logora, senza più parole. Correva da un corpo all’altro, ma non cercava più, era troppo persa. Aveva dei progetti, una famiglia alle spalle, l’università la cominciò con uno slancio di entusiasmo; però poi ricominciò quella forsennata corsa, arrivò la morte dei suoi, il tempo cominciò a dilatarsi in uno strano modo. Poi di nuovo di corsa, il lavoro nel bar, la ballerina, richieste di appuntamenti, dopo cena, bagnoschiuma scadenti appiccicati sulla pelle, durante quelle docce frettolose e fredde. Il suo corpo ormai estraneo, i capelli lunghi, lunghi quanto i casini, caos sommerso, rumore, correre senza scarpe e senza fiato.
Ora aveva quasi trent’anni e si sentiva morta. Mai che uno sguardo, in dieci anni, si fosse posato su di lei per farla respirare, da ferma.
Avevano finito di mangiare, ma nessuno dei due accennava ad alzarsi o a lasciare le posate.
-Ti piace fare l’amore con lei?-
-Un po’. Non è invadente, mi lascia stare nei miei pensieri.- Quelle parole lì, “fare l’amore”, l’avevano colpito come un violento ceffone in pieno viso. Lui non faceva più l’amore con nessuna. Nessun’altra dopo..
-Proprio com’ero io eh?-
-Tu ora sei troppo taciturna.-
-E allora sbloccami, aprimi.- Eccole le chiavi dei suoi cassetti, custoditi negli occhi migliori, i più discreti che c’erano, i più solidi e limpidi occhi gentili, che le stavano offrendo un po’  d’ossigeno. Le sue chiavi, custodite gelosamente da lui, per anni. Quando se n’era andata via aveva letteralmente dimenticato di riprendersele, quelle chiavi, infatti si era persa. Sentì il filo tirare, il cuore che batteva.
Allora c’è un cuore, non è morto!
-
Senti- gli prese la mano e se la premette contro il petto.
-Il coraggio è la paura con la volontà di andare avanti. Fallo.- Il suo invito sembrava così chiaro e semplice da raccogliere. Non era possibile avere paura di lui, che era la tanto sudata risposta, la soluzione. La fine del rebus. Come  l’archeologo che ha trovato la sfinge, testimone e custode di una storia eterna. Come un ubriaco che ritrova le chiavi di casa. E lei era ebbra, intontita, ma aveva ritrovato casa sua.
-Sono tornata.- ce la posso fare, a distruggere il diamante. Non sarà semplice, ma non mi resta che morire. Dieci anni. Ce la sto facendo!
-Allora non andare via..-
-Sono qui per restare.-
-Allora chiedimelo-
-Mi porti a cena?-
-No- esordì lui. – Io non ti porto a cena. Ti porto a casa che è dove dovresti essere, ti porto a finire l’università, ti porto a licenziarti da quel cazzo di lavoro e a sederti su un’altalena. Ti porto a fare quello che gli esseri umani dimenticano più spesso, ti porto a essere felice. Ti porto a trovare la tua dolcezza, butta via questa finta pelle, chè non è tua, non ti sta bene addosso. Getta gli orologi, perché andiamo a prenderci il tempo che ci spetta. E non correre, che non ti sto dietro. Dammi la mano, andiamo a casa.-
Allungò una mano sul tavolo, prese le chiavi della macchina. Uscirono, ma si incamminarono a piedi, le mani incastrate, fossilizzate, come reperti di una storie che tornava alla vita.
E lei sopra quella storia aveva costruito un palazzo fatiscente senza ascensore, solo scale su cui correre.
Lui aveva distrutto lo stabile, soffiando un po’, come ai vecchi tempi. Come ai tempi delle dolcezze, della vita ancora da affermare. Ora bisognava vivere.
Si baciarono, dopo dieci anni. Fu lento, pastoso, aveva il sapore del filo che li legava. Erano in mezzo alla strada e faceva un caldo da record. Si sentiva un battere d’ali, un cuore per due, finalmente tornato, finalmente maturo, pronto per non morire schiacciato.
Come un uomo dopo un coma, che vede il suo corpo cambiato, e deve ricominciare a vivere, anche loro respirarono di nuovo, coscienti e contenti di farlo. Lui non le aveva accarezzato il viso, ma la sua mano si era letteralmente incastrata sulla guancia rosa, colorita, florida. Erano in mezzo alla strada, erano a casa. I giorni a venire smisero di avere un tempo, un mese, un anno. Il tempo c’era solo per incontrarsi e riunirsi.

Lei non lo aveva mai tradito.
Era solo andata un po’ via, ma il filo l’aveva riportata alla vita, quella vera. Perché, come si dice, il resto è solo noia.
  
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