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Autore: Albezack    17/06/2013    3 recensioni
"Contare è una cosa buona, tiene lontano il corvo"
Genere: Horror, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CORVI
“Contare è una cosa buona, tiene lontano il corvo”
 
Ho trovato questo manoscritto in casa del mio amico John, poco dopo la sua morte. Mi sono permesso di attribuirgli un titolo e un sottotitolo. Non so se credere a quello che vi è scritto.
 
Da molto tempo, o almeno così sembra a me, mi sto convincendo a scrivere quattro righe per lasciare un ricordo. Ho rimandato per quasi due anni, ma giunti a questo punto, direi che ormai non spero in miracolose o repentine “guarigioni”. Ho preferito mettere guarigioni tra virgolette perché non sono malato. Certo, nessuno ha un fisico perfetto o gode di una salute di acciaio, ma il mio medico curante, che è anche tutto sommato un ottimo amico, mi ha assicurato che continuando così sarei morto di vecchiaia, tra molto tempo. Ho 29 anni, anche se ne ho sempre dimostrati una manciata in più. Non sono un frequentatore accanito di palestre o centri fitness, né tantomeno di negozi di abiti costosi ed eleganti. Diciamo che non ho mai tenuto molto al mio aspetto esteriore. Vengo infatti da una famiglia che mi ha giustamente insegnato a farmi apprezzare per le mie doti, le mie capacità. “Un buon cervello non necessita di uno smoking” diceva e dice sempre mia mamma. Ha fatto sempre molto per me, forse anche troppo e per questo le voglio bene. Ho ricevuto un’ottima istruzione e non mi sono mai fatto dare del maleducato. Me ne andai di casa appena laureato, a 24 anni, ed essendo figlio unico è stato un trauma per i miei. Anche a me è dispiaciuto molto, però arriva sempre quel momento in cui uno vuole afferrare la propria vita per i capelli e provare ad affrontare l’esistenza da solo. Avevo messo da parte un bel gruzzolo lavorando part-time alla libreria di mio zio per cinque anni, così una mattina mi sono svegliato e ho detto: è arrivato il momento… vado per la mia strada. Feci la valigia accompagnato dalle lacrime di mia madre, trovai un appartamentino da affittare nella sezione “casa” del giornale e.. zac. Fuori. Io, il mondo e nessun altro. Ma adesso non voglio perdere tempo (non ne ho molto) a raccontare cosa feci fino ai 27 anni, non ne varrebbe la pena, trovereste sicuramente qualcuno che potrebbe raccontarvelo, a partire dai miei genitori. Infatti il problema, se così si può definire, viene dopo. Dopo i 27 anni. Da allora non ho passato nemmeno una notte in cui non mi svegli di soprassalto o cacci urla terrificanti nel sonno. I miei vicini, che colgono sempre ogni pretesto per attaccar briga, me l’hanno gentilmente fatto notare. Gentilmente almeno all’inizio, poi sempre meno, dai biglietti anonimi infilati sotto la porta a uccelli morti nella cassetta della corrispondenza a mille altri strambi modi. Il messaggio è chiaro insomma: non ero e non sono più desiderato nel condominio. Il mio comportamento, e di conseguenza le mie abitudini, passò dall’essere considerato “strano” a “decisamente strano” a “folle”. Naturalmente io non mi accorgevo di niente, impegnato com’ero a non impazzire e cercare di aprire gli occhi a psicologi e psichiatri, a dimostrare loro che non ero io il pazzo, il visionario. Erano e sono loro a non “ vedere” le cose. Arrivati a questo punto ritengo opportuno ritornare un attimo indietro, all’inizio di tutta la mia piccola storia, una storia alla quale molti di voi non crederanno o stenteranno a capire, ma che sta segnando la mia vita, e tra poco credo anche la mia morte. Tutto ebbe inizio una bellissima giornata di Marzo. Mi ero svegliato tardi, il sole era già alto e mi sentivo in gran forma. Non dico che avrei vinto una maratona ma di sicuro vi avrei partecipato… ero carico, se capite cosa intendo. Insomma la giornata ideale per andare ad un colloquio di lavoro e tornare a casa trionfanti per averlo ottenuto. Io ne avevo appunto uno, in un’azienda di stampe d’arte. Nulla di mozzafiato, ma comunque un lavoro dignitoso con uno stipendio e tredicesima davvero niente male… sarebbe bastato per affitto e cibo e ne sarebbe pure avanzato abbastanza per togliermi qualche voglia. Quindi con la testa piena di buoni propositi ed iniziative presi la giacca ed uscii. Quella sera avrei invitato Helena ad uscire. Avevo da sempre una cotta per lei, però mi mancava il coraggio di rivolgerle la parola. Quella sembrava una giornata splendida e, nel caso avessi ottenuto il lavoro, avrei avuto almeno di che parlare nel caso il mio appuntamento con lei si fosse rivelato un fiasco. Ero di buon umore e con un sorriso da cartolina stampato in faccia, tutto sembrava perfetto. Non la invitai e non andai nemmeno al colloquio di lavoro. Ah, un momento, non mi sono ancora presentato. Il mio nome è John, scusate ma sono davvero al limite della mia razionalità e dovete perdonarmi di simili dimenticanze, anche se sono sicuro che fornirvi nomi, luoghi e date non abbia molta importanza. Vi sembrerà così tutto surreale e lontano, fatti che accadono in un mondo a mille anni luce dal vostro; stasera andrete a letto e domani mattina probabilmente non ricorderete già più nulla. Meglio così. Dov’ero rimasto? Ah, si, la bellissima giornata di Marzo, l’inizio di tutto. Mi ero appena incamminato verso la fermata del tram, non dico correndo però camminando in maniera sostenuta perché, come ho già detto, mi ero svegliato abbastanza tardi e di conseguenza ero in un leggero ritardo. Fortunatamente il tram non era ancora passato, così mi sedetti sulla panchina in attesa. Fu allora che lo vidi. Un uomo, assolutamente normale, svoltò l’angolo dell’incrocio e si venne a sedere esattamente accanto a me, evidentemente per aspettare il tram. Una scena usuale in una giornata come tante altre… se quel tizio non avesse avuto un corvo appollaiato sulla spalla. Era di dimensioni pressoché normali, ma si vedeva subito che qualcosa non andava. Non aveva piume. O meglio si vedeva la sagoma delle piume, ma non le piume; come se il contorno del volatile fosse nettissimo e, al suo interno, nero assoluto, intenso, irreale. Come se questo non fosse sufficiente a provocarmi un leggero senso di disagio accompagnato da una lieve nausea, gli occhi erano luminosi come lampadine, di un colore tra il giallo e il verde. Un essere normale a primo impatto, ma mostruoso se visto da vicino. Sembrava uscito dall’inferno. “È vostro?” chiesi indicando con la testa l’uccello, che intanto aveva fissato quei terribili occhi su di me. “Scusi??” rispose l’uomo, “Il cor…” tentai di dire, ma le parole mi morirono in bocca: non lo vedeva e non lo sentiva. “Nulla” mi affrettai a dire. Anche le persone intorno a noi non sembravano vederlo, in quanto non davano segno di essere turbate in alcun modo. Era evidente che lo vedevo solo io. Mentre mi sforzavo di rimanere impassibile arrivò il tram, due o tre persone scesero e l’uomo con il corvo salì. Io rimasi lì dov’ero, non mi sentivo di fare altro se non tornare direttamente a casa e rimettermi a dormire, per poi svegliarmi di nuovo e convincere me stesso che era stato solo uno stranissimo sogno. Però sapevo benissimo che il corvo era autentico, io ero sveglio e quella era realtà. Non ho mai creduto di poter essere soggetto ad allucinazioni e ne sono convinto anche adesso mentre sto scrivendo questa lettera. Non so come lavori la nostra mente di fronte a tali situazioni ma vi posso dire cosa fece la mia. Dovevo in qualche modo contrastare questa parentesi irreale, così caddi preda di quel fenomeno che lo psichiatra avrebbe definito due settimane dopo mania ossessivo-compulsiva. Iniziai a contare tutto quello che mi capitava, dai pulsanti del telecomando ai cd che avevo in casa, addirittura il numero di posate o di piatti e bicchieri. Tutto doveva essere dispari. I numeri dispari erano buoni e mi avrebbero tenuto lontano da quelle creature mostruose. Se qualcosa era pari facevo in modo che diventasse dispari, comprando quella determinata cosa, oppure buttandone una unità nel caso acquistarla fosse stato troppo per il mio povero portafogli. Contemporaneamente il mio atteggiamento cominciava a destare qualche preoccupazione tra vicini di casa o conoscenti. Fu un mio amico che mi suggerì di consultare uno psicologo. Lo psicologo mi disse durante la prima seduta che il mio “caso” era più indicato per uno psichiatra. Ancora adesso vado rigorosamente due volte alla settimana a queste sedute, ma non serve a niente. Lo faccio solo per preservare una parvenza di speranza di poter migliorare, speranza che non ho più da alcuni mesi. Fatto sta che nei giorni successivi contavo ogni cosa, compresi i passi che facevo per andare da qualsiasi parte e facevo in modo che tutto fosse rigorosamente dispari. All’inizio mi fece stare bene, mi sembrava davvero che tutto fosse stato solamente un sogno, forse anche perché era passato un po’ di tempo da quell’incontro. La mia vita sembrava riprendere un corso regolare e “normale”, tanto da spingermi a comprare un giornale alla ricerca di qualche altra possibilità di lavoro. Il secondo giorno già adocchiai un posto vacante come responsabile di una tintoria e decisi che valeva almeno la pena provarci, così presi un appuntamento per il giorno successivo. Andai a letto e neanche ci pensavo al tizio del tram. Stavo ritrovando la tranquillità, anche se contavo ogni cosa; contare è una cosa buona, tiene lontano il corvo. Mi alzai, feci colazione, mi lavai, mi vestii e uscii nell’aria mattutina. Con riluttanza mi recai nuovamente alla fermata del tram; abitando in periferia e non avendo una macchina ero costretto a prendere quel dannato mezzo per qualsiasi commissione da sbrigare in centro. Arrivai alla panchina e sedetti. Ero molto nervoso, non volevo avere altre visioni indesiderate; quindi per distogliere la mente dai miei cari pennuti neri iniziai a contare le macchine rosse che passavano. Avrei potuto scegliere un qualsiasi altro colore (e ora mi rammarico di non averlo fatto), però come tutti sanno il numero di macchine grigie o nere o blu è di gran lunga maggiore rispetto agli altri. Non avevo voglia di impegnarmi in una conta frenetica, ragion per cui come vi ho detto scelsi il rosso. Nei venti minuti di attesa del tram contai 15 auto rosse, un numero dispari, quindi buono: la giornata avrebbe proseguito per il meglio. Salii sul mezzo, timbrai il biglietto e mi sedetti sul fondo, vicino al finestrino. Aprii il vetro scorrevole e mi lasciai investire dal venticello che entrava, una sensazione molto piacevole, e mi apprestai  a contare il numero di fermate che mi separava dalla mia meta. 1, 2, 3, 4, 5 fermate. Un altro dispari, molto buono. Ormai ero sicuro che niente avrebbe guastato la mia sicurezza, però il verificarsi di due fatti, ai vostri occhi insignificanti, mutò completamente il mio buon umore. Fatto numero 1: a metà corsa dell’autobus vidi una sola macchina rossa (potevo considerare il conteggio di prima finito? Non lo so, ma una volta che l’avevo contata come numero 16 non potevo più tirarmi indietro). Mi guardai e riguardai intorno, ma nessuna traccia di auto rosse. Mi sarei accontentato anche di una porpora, ma nulla di nulla: grigio, blu, verde, nero, bianco… di rosso neppure l’ombra. Questo bastò a incrinare notevolmente il mio stato d’animo, ma fu l’avvenimento numero 2 (numero pari ovviamente, tutto torna) a stroncarmi del tutto. Era stata soppressa momentaneamente la seconda fermata, trasformando la mia fermata, la quinta, nella quarta. Altro numero pari. Era chiaro che si preparava qualcosa di grosso, di orribile, anche un cieco se ne sarebbe accorto (o perlomeno di questo ero convinto io: nella mia realtà ormai distorta, le persone normali erano e sono pazzi, che non vogliono “vedere”). Prenotai la fermata premendo il pulsante “stop” e quando il tram si fermò scesi sulla banchina. Ed eccolo lì. Il corvo. Sulla spalla di un’anziana signora visibilmente altolocata, come stavano a testimoniare i suoi gioielli o i suoi abiti eleganti. La moglie di un pezzo grosso, pensai. L’uccello era lì, nero e scintillante, e mi guardava con quegli occhietti spietati. Guardava me perché sicuramente sapeva anche lui che nessun altro poteva vederlo. La donna era molto malandata e si trascinava un piede anche con l’aiuto del bastone; ad ogni passo pareva che stesse per capitombolare a terra. Non so per quale motivo, ma vedendola avvicinarsi alle strisce bianche dell’attraversamento pedonale andai da lei per aiutarla, anche se col cuore in subbuglio perché avrei dovuto avvicinarmi a quell’essere infernale. La vecchia signora mi prese a braccetto, mi ringraziò (dicendo le solite cose trite e ritrite sui buoni e bravi ragazzi di una volta) e ci avviammo come una stramba coppietta verso il marciapiede di fronte. Giunti a metà attraversamento la signora mi cadde tra le braccia, morta. Aveva avuto un attacco di cuore che l’aveva uccisa sul colpo, come dissero i medici da lì a un’ora. Era morta ancora prima di afflosciarsi contro di me. Tutto questo era già orribile (non auguro a nessuno di vedere qualcuno morire), ma quello che accadde subito dopo mi congelò il sangue nelle vene. Rimasi pietrificato, con un urlo immenso bloccato in gola. Il corvo le entrò nella bocca, velocissimo. Ne uscì un attimo dopo tenendo col becco una piccola pallina luminescente, che emetteva grida umane come non ne avevo mai sentite. Poi volò per pochi metri e svanì nel nulla. Credo di aver visto quella bestia portarsi via l’anima della donna. Non so perché tutto questo debba capitare a me, però così è e non mi posso sottrarre, anche se lo vorrei con tutto me stesso. Da quel giorno tutto peggiorò: contare non era più sufficiente, mi faceva stare meglio ma non bene. Ero tormentato e profanato, la realtà non era più come la avevo sempre immaginata: era stata minata nei suoi fondamenti, la vita e la morte. Quello che per gli altri era fede per me erano fatti tangibili… non c’erano angeli o demoni, c’erano i corvi. Erano loro i messaggeri dell’aldilà e l’aldilà era tutto inferno. Dovevo reagire perché sentivo le mie capacità di intendere e volere scivolarmi via, come se qualcuno (o qualcosa: il corvo) avesse reciso il filo che le teneva ancorate a me. Cominciai, oltre a contare, a disporre e recitare piccole filastrocche mentali. Con disporre intendo disporre gli oggetti, in forme geometriche oppure in linea, insomma in modo che risultasse ordinato e razionale. Disponevo le posate quando mangiavo, le matite e le penne sul tavolo, le ciabatte prima di coricarmi alla sera. Parallelamente iniziai le mie visite con lo psicologo e poi con lo psichiatra. Il primo incontro con uno psichiatra non si dimentica mai. Entrai nello studio (davvero molto signorile: almeno si spiegano le parcelle che chiede) e dopo i soliti convenevoli mi fece accomodare sul lettino. Fui io a rompere il ghiaccio suggerendo di acquistare un'altra penna o perlomeno metterne un’altra nel portapenne nel caso l’avesse già. Mi chiese il motivo, con una calma quasi esasperante. Come faceva a non capirlo? Erano 4! E i numeri pari non portano nulla di buono, ormai avete cominciato a capirlo anche voi. “Perché servono numeri dispari per tenerli lontani… i numeri dispari sono buoni e ci aiutano… mentre i pari…” mi fermai a metà frase, colpito dal ricordo della vecchia che mi stramazzava accanto e del corvo che le succhiava l’anima. “I numeri pari?” mi chiese, “continui, la prego”. “I numeri pari… li attirano” conclusi. “Attirano cosa?” disse, sempre con quella tranquillità e pazienza che si rivolge solo a un bambino piccolo o qualcuno che ha perduto qualche rotella; evidentemente io ero fra questi ultimi a suo giudizio. “I corvi!” sbraitai quasi con rabbia, “i corvi infernali, che ti succhiano l’anima!” aggiunsi. “Davvero?” continuò, “e lei ne ha visto qualcuno?”. “Si! Entrava nella bocca della vecchia! Avrà letto sul giornale della morte di questa signora o perlomeno l’avrà sentito da qualcuno, no?”, “Si, qualcosa del genere… lei assume droghe? Allucinogeni?”. Ecco, lo sapevo che saremmo giunti a questo punto. Il nostro colloquio da quel momento in avanti (e tutte le sedute successive) diventò una farsa: due attori che si scambiavano battute già stabilite in uno studio con mobili in noce. Non mi fidavo di lui e lui non mi credeva, quindi ho semplicemente detto solo ciò che voleva sentirsi dire e stop. Fine. Mi sarei tenuto questa verità per me, anche se mi sta facendo impazzire. Mi fece vedere anche delle strane immagini nere e mi chiese cosa ci vedevo. Ovviamente risposi sempre che vedevo solo corvi, anche dove non era vero (se dovevo fare la figura del pazzo volevo farla bene almeno!). Da allora mi diede medicinali, psicofarmaci, che non presi mai e buttai regolarmente nel wc. Vidi ancora i corvi molte volte (alcune volte vidi  anche i loro proprietari morire) e, nonostante fossi circondato da numeri dispari e da oggetti disposti con una cura maniacale ,  ogni volta mi sentivo sempre più vicino a loro. Il mio comportamento diventò sempre più asociale e i miei contatti umani diminuirono drasticamente fino a scomparire del tutto. Mi sento sempre più lontano da questo mondo e più vicino a loro. Più vicino ai corvi. È per questo che scrivo questa specie di testamento morale, perché so che ormai non mi resta più molto tempo. L’altra notte ne ho visto uno fuori dalla finestra, che mi guardava con quel suo sguardo luminoso. Adesso mentre scrivo queste ultime parole, lui è qui, sulla mia spalla, senza peso. È per questo motivo che mi sto affrettando a concludere quello che devo dire, perché lui è qui e so che tra non molto porterà via la mia sfera luminescente, la mia anima. Sto molto meglio ad aver lasciato un piccolo ricordo di questa triste storia. Addio. Addio.
 
P.S. Ho aggiunto un secondo addio perché lo scritto era di 2896 parole. Ora sono 2897 (escluso il post scriptum). 
  
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