Camminava da solo verso
casa.
E come ogni tardo pomeriggio tagliò il percorso incamminandosi verso
quella
desolata e piccola strada di periferia. Lo sferragliamento del treno
poco
lontano era l’unico rumore che riusciva a percepire, oltre a quello dei
suoi
stessi passi sull’asfalto intiepidito dalla giornata di sole appena
trascorsa.
Solo le voci di qualche gruppo di passanti riuscì a ricordargli che la
città
non era mai per davvero dormiente. E a quel fulgido pensiero
l’inquietudine del
suo cuore placò leggermente.
Era una giornata come tante altre, non c’era ragione per essere
nervosi,
soprattutto per un motivo futile come quello: aveva diciassette anni,
ormai
avrebbe dovuto smettere di aver paura a camminare al buio.
Era ridicolo – quel suo comportamento.
L’imbrunire avanzava veloce come ogni sera, e l’immagine carica di
significato
che il cielo mostrava ai suoi occhi era sempre meravigliosa.
Aveva un
fascino
misterioso che sapeva sconvolgerlo con
una semplicità schiacciante.
Quel pomeriggio, il cielo si tinse di un blu intenso, cupo, verso il
grigio
scuro. Le nuvole si macchiarono di una colorazione particolare,
tendente al
nero alla sua sinistra, mentre dalla parte opposta, illuminate dagli
ultimi
sprazzi di sole, s’acquerellarono d’arancio.
Uno scenario surreale.
Un incanto divino dipingeva, giorno dopo giorno, panorami mozzafiato
che mai e
poi mai avrebbe desiderato scordare.
La strada era buia, e i pochi lampioni presenti dovevano ancora
destarsi dal
loro meritato riposo giornaliero. I pali delle linee elettriche e
l’interminabile filodiffusione si stagliava alta con presunzione nei
cieli
della città. Una presenza imponente e a tratti rassicurante che gli
donava la
certezza di essere nato in un’epoca all’avanguardia e moderna. E anche
quel
cellulare, stretto con forza dalla sua mano pigramente poggiata nella
tasca dei
pantaloni della sua uniforme scolastica, acquistò un valore maggiore ai
suoi
occhi.
Una sicurezza tangibile.
Man mano che la notte avanzava, inghiottendo le luci del giorno, i suoi
passi
riecheggiavano nelle sue orecchie con maggior impeto, risultando quasi
irritanti.
Da lontano, una figura minuta e buia sostava con apparente tranquillità
vicino
al piccolo parco del quartiere. Non vi
era nulla di cui preoccuparsi; era solo una persona.
E’ questo che avrebbe desiderato credere, e tentò con tutto
sé
stesso di non farsi prendere dal panico, ma per quanto continuasse ad
avanzare
e i suoi piedi continuassero a picchettare contro l’asfalto, non riuscì
a
mettere a fuoco né il viso né i lineamenti di quella figura oscura. E
quasi si
convinse fosse solo una fantomatica presenza immaginaria, partorita
dalla sua
mente, tentando di scartare con violenza l’idea che potesse essere un
fantasma
o qualcosa di simile.
Solo quando arrivò davanti
all’ingresso del parco riuscì a
scorgere il volto sottile di quella presenza oscura e qualche istante
più tardi
non poté che tirare un sospiro di sollievo, accorgendosi che si
trattava solo
di una giovane ragazza – forse più grande di lui di qualche anno. Era
bella, ma
qualcosa in quella graziosa ragazza gli fece affogare il
cuore
nella malinconia.
I capelli corvini danzavano scossi dal vento, accarezzando dolcemente
il suo
volto, le sue labbra, tinte di un rosa naturale, seducevano silenti,
risaltando
il chiarore della pelle che incorniciava quel particolare viso. Una
pelle così
diafana da sembrare bianca, di
porcellana. Forse poco più chiara del maquillage utilizzato
dalle Geishe.
Era davvero umana?
Il profumo dei fiori di Ciliegio si
librò nell’aria e solo in quell’attimo s’accorse di quella maestosa
pianta
sospinta dal vento. Quel
paesaggio innaturale s’animò con veemenza davanti ai suoi occhi.
Non era più solo il
cielo a sembrargli stregato, ma lo era anche quella
visione, quella presenza femminea e
quell’insolito incresparsi di petali e corolle.
Quella fragranza era inspiegabilmente
più intensa del solito. Così forte che si sentì soffocare, rantolando
alla
ricerca dell’aria.
E quella donna lì: ferma, completamente immobile.
Continuava ad osservarlo con sapiente devozione, squadrandolo da capo a
piedi
con quei suoi grandi occhi eterocromatici: uno verde e l’altro
rosso.
Quegli occhi erano strani, del tutto
insoliti ed inespressivi; freddi.
Non aveva mai visto nessuno con gli occhi rossi.
Non aveva mai visto nemmeno quel particolare grado di rosso, ad essere
onesti. Era
così intenso da sembrare caldo come il fuoco.
Scottava.
Così vibrante da sembrare sangue.
Violento.
Scarlatto.
Forse, a ben guardare, l’altro occhio
era molto più
confortante di quella pupilla macchiata di peccato. Però,
riflettendoci, anche
quel tono di verde era innaturale.
«Ch-chi sei? Sei
reale?» domandò con voce tremante, indugiando leggermente
di qualche passo non appena la vide muoversi verso di lui.
Non disse nulla, non rispose.
Semplicemente sorrise.
Un sorriso fresco, quasi
fanciullesco, eppure ai suoi occhi apparve ugualmente
agghiacciante. Totalmente privo di sentimento.
Un sorriso menzognero.
«Ti stavo aspettando, Asakura Shun.[1]» proferì
poi, avvicinandosi pericolosamente al suo volto. La sua voce era
inequivocabilmente quella di una normale donna, certamente più
squillante di
un’ottava della sua. Eppure era così chiara da sembrare quasi
incolore;
eterea.
«Co-come fai a conoscermi?» domandò
con sorpresa il ragazzo, facendo inevitabilmente
accelerare i suoi battiti in un groviglio altalenante di sentimenti,
mentre
l’inquietudine s’insinuava nella sua anima senza alcun permesso.
«Io conosco tutto. Sono qui per
te.» rispose pacatamente, accarezzandogli
una guancia e scottandosi con il calore emanato da quel corpo, ancora
pieno di
vita.
La sensazione di quel flebile
contatto paralizzò all’istante Shun.
Quelle sue mani non erano umane:
così fredde da sembrare ghiacciate quanto la
neve più gelida. E forse anche di più.
Nessun umano avrebbe potuto avere
una simile temperatura corporea.
La paura lo annichilì in un breve
istante.
L’aveva capito.
Ormai non aveva scampo.
Quella bellissima presenza
stregata, si portò l’indice e il pollice alla bocca
e, forse frutto di un’insana stregoneria, dalle sue rosee labbra
agguantò un
piccolo e soffice petalo screziato bianco e rosa; un petalo di
Ciliegio. Con
delicatezza lo poggiò sulle calde e morbide labbra di quel generoso
ragazzo.
«Ichi, Ni, San… Shi![2]
»
Le sue labbra s’incresparono,
assecondando i movimenti delle parole, enunciando
quei numeri con una fermezza senza eguali e al suono di quello che
forse era un
vero e proprio incantesimo proibito, Shun si sentì mancare le forze.
Lentamente, ogni arto del suo corpo
risultò talmente pesante che ricadde
scompostamente su sé stesso, avvertendo una forza sconosciuta attrarlo
verso un
luogo altrettanto sconosciuto.
Non poteva opporsi.
Non riusciva ad opporsi.
Diabolicamente si sentì privare
anche del respiro e arrivati a quel punto
comprese che la sua vita gli stava scivolando inesorabilmente dalle
mani.
Stava diventando una piccola
molecola d’infinito.
Stava diventando inutile quanto un
granello di sabbia, leggero come la polvere.
Si stava privando della sua stessa
esistenza: della sua vita. E non sapeva come
combattere quell’infausto destino.
«Non voglio morire. – ammise
debolmente il giovane Shun, faticando persino
a parlare. – Tu… Chi diavolo sei?»
«Diavolo?! – a quel nomignolo
sorrise impercettibilmente, chinandosi verso il
ragazzo. –
Io sono Shizuka[3].»
sussurrò al suo orecchio in un attimo inseguito dal terrore più buio.
Gli occhi di Shun si spalancarono
increduli, sopraffatti dalla paura.
Non era uno scherzo, né tanto un
brutto sogno, ma solamente una maledetta
verità.
La speranza vacillò, schiacciata da
un peso sin troppo grande da sopportare
e in breve s’annientò, sfiorando appena quelle
labbra
gentili.
Labbra all’apparenza aggraziate e
dolci, ma che nel profondo celavano il potere
degli inferi:
la distruzione assoluta.
Un’attraente proibizione che poteva
stroncare il fiato. E così, inerme e
piegato al proprio fato, la sua vita perse colore e
luce, prosciugandosi come un ruscello in una calda giornata
d’estate.
Semplicemente svanì, soffocato da quella fragranza fiorita coccolata
dall’ira
del vento. E come in un pericoloso gioco di equilibri contrapposti, in
un breve
attimo rincorso dal tempo, gioiosi fiori di purezza si macchiarono di
rosso
vermiglio, assorbendo i peccati commessi e il sangue versato,
scintillando
all’imbrunire come vivaci aceri rossi colmi di passione.
Una bellezza contorta:
agghiacciante e così maledettamente feroce da apparire completamente
irreale.
La sua anima venne risucchiata
lasciando cadere al suolo il corpo ormai già
privo di vita.
Non era rimasto più nulla;
solo un’altra vita spezzata.
Nulla di più.
La notte affamata, s’inghiottì
anche la disperazione. E nell'alba di un nuovo
giorno, l'amara consapevolezza di quella vita strappata divenne una
realtà
inconfutabile che stravolse l'anima e i pensieri di chi aveva
conosciuto quel
giovane ragazzo così pieno di vita.
«E’ stato ritrovato il corpo privo
di vita di un ragazzo di appena diciassette
anni:
Asakura Shun, studente del Liceo
Nishidate di Tokyo. Ancora sconosciute le
cause della morte, s’indaga cercando di vagliare ogni possibile
ipotesi…»
Il notiziario del mattino era
irritante, sempre a parlare di economia e di
persone tragicamente scomparse. Nessun rispetto nemmeno per le famiglie
che
avevano perduto un loro caro e con esso il loro stesso cuore.
Erano solo dei numeri. E
lui, Asakura Shun, non era diverso dagli
altri.
Era solo un frammento di vita; una
piccola e breve meteora.
Non avrebbe mai potuto opporsi al
suo destino.
Colei che veglia sui morti.
Il profumo del silenzio.
NOTE:
[1]
Asakura: 朝
倉, 浅倉, 麻倉 Cognome
Giapponese – Noto sin dal periodo
Sengoku grazie ad un famoso Clan. (Sengoku Jidai 1467-1615; periodo
storico nel
quale vi furono anche le guerre ad opera di Oda Nobunaga), Asakura
è anche il nome di una città giapponese della
prefettura di Fukuoka.
Shun: (nome
prettamente
maschile) 駿 significa
velocità/scintillio
[2]
Ichi – Ni – San – Shi : (Ici-ni-san-sci) Corrispondono
alla comune lettura e pronuncia dei prima quattro numeri cardinali (1;
2; 3; 4)
in giapponese.
[3]
Shizuka: (nome femminile) È
composto da un primo elemento 静
(shizu,
"tranquillo") combinato con 夏 (ka,
"estate") o con 香 (ka,
"profumo"). Il suo significato può essere tradotto in: profumo del
silenzio.
Sakura:
Fiori di Ciliegio. E’ anche utilizzato come nome femminile.
(Tre varianti di scrittura in ideogrammi: 桜
oppure in alfabeto hiragana さくら
oppure
anche 咲良. I Ciliegi sono fra le piante più comuni e
amate dai Giapponesi; ne esistono di molte varietà, dal
Somei Yoshino (famiglia del Prunus) fiore dai
classici 5 petali dal colore bianco candido screziato con un rosa tenue
alla
varieta " yaezakura" che vantano grandi fiori, di spessore e con
ricchi petali rosa.
In
Giappone si festeggia la primavera con l’HANAMI 花見 ("guardare i fiori";
Festa Nazionale.)
Ogni anno l’Agenzia Meteorologica Giapponese rilascia diversi
bollettini per le
previsioni di fioritura dei ciliegi che indicano l’inizio e il periodo
di
massima fioritura per le maggiori località delle 47 prefetture del
Giappone.
Per tradizione l'HANAMI si festeggia facendo grandi pic-nic annuali
sotto gli
alberi di Ciliegio che colorano le città, i parchi e le zone rurali.
I magici fiori di
ciliegio (Sakura) rivestono un significato profondo nella cultura
giapponese:
La caducità della vita, la pazienza e lo sforzo per dare il massimo e
la
consapevolezza che tutto passa e sfiorisce rappresenta il vero
messaggio. Il
saper apprezzare quel fulgido momento di bellezza senza rimpianti.
Significa
saper ammirare la ciclicità della vita.
Ai Ciliegi in fiore
si associano svariate immagini: dal fascino di una donna nel suo
momento di
maggior bellezza e anch'essa, con velocità cangia. All'amore, quello
candido e
puro; magari un primo amore o quell'ultimo amore dal sapore agrodolce.
Ma anche
i Samurai venivano paragonati ai fiori di ciliegio: la loro vita era
magnifica
e potente ma sempre pronta a spegnersi nel momento di maggiore vigore.
Si narra che il
colore dei fiori del ciliegio in origine fosse candido ma che, a
seguito
dell’ordine di un imperatore, di far seppellire i samurai caduti in
battaglia
sotto gli alberi di ciliegio, i petali divennero rosa, per aver
assorbito il
sangue di quei nobili guerrieri.