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Autore: PapySanzo89    20/06/2013    5 recensioni
John Watson è un ex medico militare in congedo che si ritrova a viaggiare su un treno verso Plymouth, cittadina tranquilla e lontana da tutto e tutti.
Andrò a vivere in casa Holmes, dove i due coniugi gli offriranno lavoro e un tetto sopra la testa.
A parte loro tre e il tuttofare sembra che non ci sia nessun altro.
Eppure John si sente osservato.
Il rating giallo potrà subire variazioni.
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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RAITING: Giallo (con possibile/probabile cambiamento).
GENERE: Fluff (datemi tempo), Malinconico (per la gente molto zenzibile), Hurt & Comfort (questo sì).
TIPO DI COPPIA: Slash.
PERSONAGGI: La famiglia Holmes al completo, John Watson.
 
 
Ringrazio la mia MaritA ermete per il betaggio e per il supporto morale e fisico e per il “Non ho più voglia di scriverla!” “Scrivila!” XD Ciao MogliO <3 (Il titolo della fic è merito suo. XD)
 
 
 
 
Nota Bene: Il mondo di cui si sta parlando è simile ai giorni nostri per modo di vestire e certi atteggiamenti, ma la tecnologia è più limitata (esempio: non esistono i cellulari), le macchine non sono sicuramente ad euro 4 e i treni non sono ad alta velocità. La popolazione mondiale ha la mentalità ancora piuttosto retrograda, soprattutto nei piccoli paesi (altro esempio: gli omosessuali e gli uomini di colore non sono ancora troppo ben visti) e la medicina è un campo che –come oggi- è ancora in espansione. Credo di aver detto tutto u__u A chi ha voglia di leggere, buona lettura.
P.S. per problemi di html (che sicuramente ci saranno) prendetevela con EFP. XD
Nat.
 
 
 
Capitolo primo: in cui il Dottor Watson mette piede in casa Holmes.  
 
 



Se non mi guardi tu, chi mi guarderà?  -Nesli
 
Il treno, dopo molte ore di viaggio, finalmente iniziava pian piano a rallentare la sua corsa, mostrando così il cambiamento del paesaggio monotono: prima i verdeggianti alberi delle campagne, poi i muri grigi di case diradate tra loro.
John Hamish Watson, medico militare ora in congedo, storse il naso al panorama tutto uguale e così dissimile dalla sua amata Londra.
Plymouth era, in gran parte, una città senza alcuna attrattiva per lui.
Chiuse il quotidiano e scostò le gambe con un cenno di scusa del capo, per lasciar passare la donna seduta davanti a lui, che si alzò per tirare giù la valigia.
Si alzò a sua volta e, da vero gentiluomo, la aiutò per quanto gli fosse possibile, con la spalla che ancora gli doleva e la gamba che ogni tanto gli faceva ricordare il suo maledetto disturbo.
La signorina rispose con un dolce sorriso e uno lieve battito di ciglia, dileguandosi verso lungo il corridoio dopo un breve saluto.
Si ritrovò a rispondere al cenno con un sorriso un po’ più spento, fissando la porta a doppia anta che si apriva e si chiudeva dopo aver lasciato passare la snella figura.
Sbuffò, prendendo anche la propria valigia (che se ne stava comodamente tra due poltrone della carrozza) e, lasciato il giornale sul sedile per il prossimo viaggiatore che non avesse avuto nulla da fare, si diresse all’uscita.
 
La stazione non era molto diversa da quello che si aspettava.
Piccola, grigia, contornata da casette a schiera di uno strano colore ocra scolorito dal tempo: tutto gli faceva ricordare una di quelle cartoline di Natale che gli mandava sempre sua zia, dove i bambini sorridevano allegri per chissà quale motivo.Ovunque girasse il viso gli sembrava tutto enormemente e terribilmente uguale.
Anche le poche persone che si trovavano sulla banchina gli sembravano diverse da quelle incontrate negli ultimi mesi, nella sua città.
Diverso stile di abbigliamento, diverso modo di porsi nel parlare col proprio interlocutore, diverso spazio personale (molto, troppo vicini gli uni agli altri), modi sospetti di adocchiarlo come se si leggesse a chiare lettere che fosse un forestiero.
Tentò di farci il meno caso possibile, concentrandosi sul motivo per cui si trovava così distante da dove avrebbe voluto essere e per una volta no, non parlava di Londra.
Sospirò facendo uscire l’aria dalle narici e si guardò intorno, tentando di riconoscere chi avrebbe dovuto venire a prenderlo. Dopo una veloce occhiata notò un uomo piuttosto avanti con l’età, dalla statura piuttosto bassa e tozza, vestito di un completo nero e capellino coordinato, tenere in mano un foglio con su scritto, in una calligrafia pulita e ordinata, Dottor Watson.
E, per quanto il suo cognome fosse piuttosto diffuso in Gran Bretagna, dubitava potesse attendere qualcun altro. Riprese la valigia in mano, che aveva lasciato da poco per sgranchirsi le dita e si avviò con il sorriso più cordiale che riuscisse a fare in quel momento.
L’uomo lo guardò avvicinarsi e gli sorrise sotto i suoi baffoni argentati.
«Il dottor Watson, presumo.»
John accentuò di più il sorriso e porse la mano al signore.
«Presume bene, sono io. Molto piacere signor…»
«Richard. Mi chiami pure Richard.»
Il dottore annuì e l’autista gli strinse la mano, prendendogli poi il bagaglio  e accompagnandolo fuori dalla stazione per dirigersi alla macchina.
«Viaggio stancante?»
«Non ha idea di quanto. Sembrava non finire mai e la compagnia, purtroppo, non era delle migliori.»
L’uomo sorrise e gli aprì la portiera facendolo salire, depositando la valigia nel bagagliaio.
«Purtroppo nei dintorni sono tutti piuttosto freddini…» iniziò sedendosi al posto di guida, accendendo il motore e partendo «Ma non si preoccupi, il Rettore e la moglie sono molto più alla mano di così.»
John si sentì un po’ più tranquillo e decisamente più a suo agio.
«Siamo molto distanti dall’abitazione?» chiese dopo qualche minuto di silenzio, avvicinandosi al finestrino, osservando le persone che andavano e venivano senza meta, le case grigie e i negozi per la maggior parte chiusi.
«Un’ora di macchina. Ai signori non piace molto la confusione.»
Il dottore alzò un sopracciglio e fissò la nuca del guidatore: quella la chiamavano confusione?
Cambiò discorso prima di dire qualcosa di sbagliato.
«Ha famiglia, Richard?»
«Oh no, è stata una cosa della quale non mi è mai importato molto, se devo essere onesto.»
L’uomo lo guardò dallo specchietto retrovisore e gli sorrise cordiale.
John sospirò di nuovo un po’ abbattuto dalla notizia. Gli sarebbe piaciuto trovare almeno un suo coetaneo lì, in mezzo al nulla, ma scacciò il pensiero, appoggiò la tempia sul vetro freddo e, in poco tempo, si addormentò fissando il fiume Tamar scorrere placido qualche metro più in là.
 
«Piove.» constatò con ovvietà appena riuscì ad aprire gli occhi -le palpebre pesanti- notando a malapena il paesaggio boscoso.
«È iniziato da poco. Qui è sempre così.»
Il dottore si tirò su dal finestrino e si sgranchì braccia e spalle.
«Un po’ come in tutta l’Inghilterra.» fece una piccola pausa «Mi dispiace di essermi addormentato. Sono stato piuttosto maleducato.»
L’autista scosse la testa, ridendo sommessamente.
«Se questa fosse la vera maleducazione, signor Watson, il mondo sarebbe un posto migliore.»
«Oddio, per carità! Mi chiami John, ci mancherebbe altro!»
Andarono avanti a fare ancora un po’ di conversazione, finché Richard non gli indicò -lì in fondo, vede? Oltre gli alberi- il maniero degli Holmes.
Se John si sentiva a disagio ancora prima di arrivare, ora poteva definirsi decisamente preoccupato.
Nonostante le rassicurazioni di Richard su quanto la famiglia fosse alla mano, dopo aver visto l’abitazione, non riusciva a crederci poi troppo.
La macchina entrò lungo il vialetto, palesando le reali dimensioni della villa e John rimase a bocca aperta. Non avrebbe mai saputo cosa farsene di tutto quello spazio. Per quei due gatti che ci abitavano dentro poi.
Arcate, colonne, statue, fontane, luci, due piani più una sottospecie di mansarda (a giudicare da quanto fosse bassa la finestra) e un’altra casa –decisamente dalle dimensioni più normali- a qualche metro di distanza.
Richard accostò davanti l’entrata, uscendo prima di John per prendere la valigia, poggiarla sotto il portico e tornare indietro con un ombrello, evitando così di far bagnare il dottore.
Ma John non aspettò il servizio completo, uscendo dall’auto e guardandosi attorno, incurante della pioggia che gli sverzava viso e collo –aveva subìto di peggio- e alzò gli occhi blu ad ammirare la completezza della casa.
Il diluvio colpiva violentemente le mura e i lampioni alle pareti -che rimandavano luce gialla- e il cielo scuro davano uno strano contrasto al tutto, lasciandogli addosso una sensazione strana e opprimente. Sollevò ancora di poco lo sguardo, osservando la finestra della mansarda.
Qualcuno lo stava fissando.
La luce giallognola ne delineava i contorni spigolosi, ma la pioggia e i fulmini impedivano di vedere qualsiasi altra cosa.
Stava alzando una mano in un segno di saluto, quando Richard arrivò con l’ombrello e gli celò la vista dall’uomo. John fece un passo in avanti per tornare a guardare la finestra, ma un semplice rettangolo vuoto riflettente gli si presentò dinanzi.
«Signore?»
Il dottore riportò l’attenzione all’uomo.
«Ho visto...» una folata di vento leggero lo fece rabbrividire, intimandogli di entrare prima di prendersi qualche malanno. «No, niente, andiamo?»
Forse aveva visto male per la stanchezza. Indipendentemente dal fatto che avesse un’ottima vista.
Richard fece un cenno d’assenso e un altro ad indicare l’entrata, poggiando la mano sulla schiena del dottore e sospingendolo avanti.
 
Dentro, se possibile, tutto era ancora più sfarzoso. Carta da parati oro e rosso ricoprivano i muri, ai quali erano appesi quadri di diversa grandezza e in ognuno di essi erano ritratti, con tutta probabilità, tutti i precedenti e gli attuali proprietari della casa. Sopra grandi arcate si ergeva una scala di pietra, oltre la quale John non riusciva a vedere nulla. Non parlando poi dei mobili di legno scuro e le ampie vetrate contenenti argenteria, cristalleria e altri oggettini che John reputava alquanto fragili e inutili. E quello era solo l’atrio.
Maledetto lui a dare retta a un professore incontrato dopo anni per puro caso.
«Oh, signor Watson, è arrivato!»
Un uomo in vestaglia di seta rossa, pantaloni grigi e pantofole stava scendendo le scale con tutta calma, sorridendogli gioviale. Aveva i capelli di un grigio piuttosto scuro, diradati verso le tempie, un accenno di barba, alto almeno un metro e ottanta e gli occhi di un verde brillante che lo stavano scrutando attentamente: qualcosa gli faceva intuire che doveva essere un uomo abbastanza sveglio.
Il Rettore gli si avvicinò, tendendo la mano che John strinse nella propria.
«John. Ci mancherebbe che mi formalizzi dopo tutto quello che sta facendo per me.»
«Siger. Il piacere è tutto mio comunque, John. È sempre bello avere gente volenterosa che s’impegna in quello che fa.»
La stretta di mano del Rettore era estremamente forte e chissà perché il medico si sentì rassicurato di ciò.
«Mike Stamford è stato un mio grande amico. Mi dispiace non trovare mai il tempo per andare a trovarlo. Ma andiamo di là, inutile rimanere qui in piedi.»
Siger fece strada verso quello che evidentemente doveva essere il soggiorno (John evitò accuratamente di notare l’effettiva grandezza e tutto il lusso esibito senza remore) mentre Richard prendeva la valigia e andava chissà dove.
«Sua moglie?»
«Del “tu” John. Per piacere.»
John sorrise.
«Tua moglie?»
Il padrone di casa lo fece accomodare su una poltrona davanti al caminetto accesso. Il dottore si concesse di notare i vari tipi di boccette di vetro e bottigliette contenenti diversi liquidi ambrati e trasparenti appoggiateci sopra, chiedendosi per mezzo secondo cosa potessero contenere.
«Tornerà più tardi. È in centro a fare spese.»
John accolse la notizia con un sorriso, rimanendo poi in silenzio sentendo il calore del fuoco entrargli pian piano nelle ossa, non si era nemmeno accorto di provare tanto freddo.
«La tua camera è al piano di sopra, comunque. Appena ti senti stanco non farti scrupoli e vai pure a riposare. Richard ti mostrerà la stanza.»
L’uomo lo guardò con un sorriso spontaneo di quelli che ti fanno sorridere a tua volta. Il medico ringraziò.
«Comunque, curiosità personale, come ti sei ritrovarti in un posto come questo, dimenticato praticamente dal mondo?»
John drizzò le spalle e iniziò a guardarsi intorno: non aveva voglia di parlare di quell’argomento.
Il Rettore si alzò e si diresse a una vetrinetta, tirandone fuori due bicchieri, chinandosi poi a prendere una bottiglia di quello che sembrava del brandy. Sollevò la bottiglia verso di lui, sottintendendo la domanda.
«Sì, grazie.»
Si vide porgere il bicchiere quasi fino all’orlo.
«Sono tornato dalla guerra senza un posto preciso dove andare a stare. Fortunatamente, ho incontrato Mike…»  si sporse un po’ in avanti per prendere il bicchiere e attese che l’ospite si sedesse. «Era il mio insegnante ai tempi dell’università, ma credo che questo te l’abbia già detto.» l’uomo annuì «L’ho incontrato per caso, stavo facendo una camminata quando è stato proprio lui a riconoscermi. E così, eccomi qui!»
Siger inarcò un sopracciglio, sorridendo a mezza bocca.
«Posso dire da una prima occhiata che non sembri un uomo per spazi così… ampi, mettiamola in questi termini. Non avresti preferito rimanere a Londra?» alzò il balloon in omaggio al suo interlocutore e bevve il primo sorso, attendendo risposta. 
«Oh sì, ma con una pensione d’invalidità e i tempi che corrono non avrei proprio potuto rimanere lì nemmeno volendo.»
«Coinquilino?»
Questa volta fu John a sorridere, ma con un cipiglio piuttosto amareggiato.
«Non sono tipo da coinquilino.»
E il tono era piuttosto chiaro: discorso chiuso.
«Capisco perfettamente.»
«Comunque, grazie davvero per l’opportunità. Tenterò di rendermi il più utile possibile.»
Siger rise piano, finendo in poche sorsate il proprio brandy: se ne versò poi dell’altro, guardando con la coda dell’occhio se avesse dovuto eventualmente rifornire anche quello del dottore.
«Si tratta d’insegnare a degli studenti come diventare dei bravi medici. E dalla tua carriera presumo non ti sarà difficile sezionare un cadavere e far vedere loro come si eviti di fare morire delle persone in sala operatoria.»
Il Rettore notò la gaffe solo poco dopo averla fatta, dall’aria seria che aveva assunto John e dalla piega amara delle sue labbra.
«Effettivamente so come muovermi.» rispose semplicemente, bevendo il resto del brandy in un unico sorso, emettendo poco dopo un lungo sospiro.
«Quando iniziamo?» s’informò per cambiare discorso.
«Dopo domani. Ti presenterò come mio collega.» sorrise tra sé e sé «Gli studenti saranno entusiasti, non sono molto amato come insegnate.»
Il dottore corrugò le sopracciglia e lo guardò da sopra il bicchiere.
«Stento a crederlo.»
L’uomo si strinse nelle spalle e poggiò il balloon[1] sul tavolino basso accanto alla poltrona.
«Sono piuttosto severo quando si parla di lavoro e di vite umane. Uno sbaglio e il paziente può non farcela: non c’è da scherzare.» detto questo si alzò e si portò davanti al caminetto: braccia distese pigramente lungo il corpo, schiena dritta e un sorriso disinvolto che non lasciava mai il suo viso.
«Mi sembra giusto. Anche se è meglio non esagerare troppo, si tende ad assimilare prima in un clima rilassato che in uno intollerante.»
«Ah, amico mio, questione di metodo. A me piace la severità nell’insegnamento, ma non per questo giudico gli altri in maniera negativa.»
Altro discorso che sembrava doversi chiudere così. Non era un problema.
«Signore…»
Richard entrò nel soggiorno, catturando l’attenzione di entrambi.
«Credo sia ora di andare a prendere la signora.»
Siger si voltò verso l’orologio a pendolo situato in fondo alla sala e annuì.
«Sì, si è fatto tardi e non vorrei che si ritrovasse ad aspettare per nulla. Vai pure, io mostrerò la casa al nostro ospite.»
L’autista si defilò senza aggiungere altro e John rimase per un attimo a fissare la porta, voltandosi poi verso il suo nuovo datore di lavoro.
«Non c’è bisogno che ti disturbi.»
L’uomo negò con la mano.
«Non diciamo sciocchezze! Non è un problema ma anzi, un grande piacere! Oltretutto molte zone della casa sono inutilizzate, del resto...» si voltò gioviale verso John che si stava alzando a fatica dalla sedia (dannata stanchezza. Dannata gamba) «Ci siamo solo io e mia moglie. Richard abita nella depandance accanto. E mio figlio torna raramente.»
Il dottore alzò il viso ad incontrare quello dell’uomo che gli stava parlando.
«Nel senso che adesso siamo soli?»
Siger lo guardò confuso.
«Direi di si.»
«E suo figlio non c’è.»
L’uomo corrugò le sopracciglia, stranito da quelle domande.
«Esatto. È per caso un problema?»
John scosse la testa.
«No, solo...» pausa «No, niente. Curiosità. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo.»
«Oh lo conoscerai. Torna raramente ma non così tanto. E spero che la nostra collaborazione avrà vita lunga.»
Detto ciò s’incamminò con le mani incrociate dietro la schiena di nuovo verso l’atrio, seguito con passo più strascicato da John.
Il dottore, appena iniziarono a salire le scale, iniziò a guardare in alto, verso quella che -scoprì in quel momento- veniva usata come soffitta.
Doveva essere davvero stanco per essersi immaginato di aver visto qualcuno.
Assimilò comunque l’informazione che i coniugi avevano un figlio.
 
Siger lo lasciò in quella che -da quel giorno in avanti- sarebbe stata la sua camera, defilandosi e dicendogli che la cena sarebbe stata pronta tra un paio d’ore.
Dio, non aveva una stanza così grande da quelli che gli sembravano secoli.
Il letto era ad una piazza e mezza (un sogno in confronto a quello a cui si era abituato negli ultimi anni e perfino a confronto di quello della pensione per invalidi a Londra), lenzuola e coperte che sembravano morbide e profumate solo a vederle. Un comodino di noce scuro da entrambi i lati, una scrivania davanti a una delle due finestre che davano al giardino e una libreria che ricopriva metà muro (l’altra metà era per l’armadio che non avrebbe mai riempito con le sue due cose): poteva rifornirsi di tutti i libri che voleva. Ci si avvicinò, facendo scorrere l’indice sui volumi, leggendo ogni tanto un titolo che colpiva di più la sua attenzione. La maggior parte di essi erano testi di medicina, ma c’erano anche diversi classici, qualche giallo e qualche romanzo storico: niente romanzi rosa, per sua fortuna. Ne prese uno a caso e si perse nelle righe e nei disegni anatomici, sorridendo nel ritrovare le vecchie nozioni di ciò che aveva studiato all’università. Lo richiuse e lo poggiò sul cuscino: magari lo avrebbe letto dopo cena se non sarebbe riuscito a prender sonno.
Si tolse le scarpe e si distese, fissando il soffitto bianco come il resto delle pareti e continuando a chiedersi se avesse fatto o meno la scelta giusta ma, in fin dei conti, era troppo presto per saperlo.
 
Violet Holmes era una donna incredibilmente attraente per la sua età. I capelli color ebano -ovviamente tinti-, gli occhi grandi e verdi, i lineamenti affilati del viso, zigomi alti, labbra a cuore e carnose, magra come un giunco e piuttosto piccina (non doveva raggiungere il metro e sessanta), facevano di lei una signora che, con tutta probabilità, faceva ancora voltare molti uomini al suo passaggio.
Conoscendo vagamente Siger doveva tuttavia ammettere che se l’era immaginata con un carattere leggermente diverso. Era sì alla mano come l’uomo, ma la postura denotava una certa altezzosità, lo sguardo inquisitore che gli aveva lanciato all’inizio lo aveva quasi fatto rabbrividire e la stretta di mano era stata talmente delicata da non essere quasi sentita.  Si era presentata con un cordiale sorriso, ma qualcosa gli diceva che era quasi infastidita dalla sua presenza. Lo si poteva notare dalle labbra atteggiate a sorriso e dagli occhi da cui non traspariva alcuna espressione entusiasta, quasi fosse annoiata da tutto. Lo aveva comunque trattato con gentilezza ed educazione, chiedendogli come avesse passato il viaggio, se la camera fosse di suo gradimento e, saltuariamente quando Siger spariva per più di un paio di minuti, parlando del più e del meno. Fortunatamente, lei non si era addentrata su argomenti scomodi. L’aveva osservata per quasi tutta la sera -durante la cena- incuriosito dai suoi repentini sbalzi d’umore. Passava dal conversare allegramente sia con lui che col marito al rimanere in silenzio, annuendo con un semplice sorriso di tanto in tanto. Rimaneva il più delle volte assorta in qualche suo pensiero, riscossa solo dalla voce di Siger che la chiamava per approfondire un argomento o fare qualche battuta. Lei si scusava per la distrazione affermando di essere molto stanca e John le aveva chiesto se per caso si sentisse in dovere di rimanere lì solo per lui.
«No, John. Non preoccuparti, ero ansiosa di conoscerti.» qualcosa gli diceva che quella era solo una mezza verità, ma non se ne curò «Quindi voglio godermi la serata come si deve.» prese il bicchiere di vino in mano e lo alzò verso di lui «Al nostro ospite. Sperando resti il più possibile a tenerci compagnia.»
Siger alzò il calice e John fece un mezzo sorriso, imitando il gesto di entrambi.
«Lo spero anch’io. E a voi!»
 
Il pendolo del soggiorno batté undici rintocchi, ma loro si trovavano ancora lì, sull’enorme tavolo nella stanza accanto al soggiorno (stanza leggermente più piccola) e, non si sa bene come, si era arrivati all’argomento “Londra”. John era entusiasta di parlare della sua città. Ne descriveva le vie più nascoste, i negozi da tè che non ti aspettavi di trovare, l’assoluto chiasso di Candem Town, la magnificenza del Big Ben, gli inverni rigidi e le estati afose, l’odore nauseante del Tamigi che sei contento di risentire dopo anni di assenza. Ad un certo punto John si chiese come mai due persone come loro non fossero mai state a Londra, che era sì a molte ore di distanza, ma non così tante da non poter affrontare un viaggio simile. Evitò comunque d’impicciarsi, continuando a conversare, mentre pensava a quanto quella città riuscisse a mancargli.
Il discorso finì -iniziato da uno molto più assurdo- ritrovando così Violet Holmes intenta a snocciolare barzellette che non facevano ridere, concludendosi con la donna che mostrava al dottore gli abiti che aveva comprato in centro quel pomeriggio, finendo a chiedere una sua opinione perché tanto suo marito non le dava mai alcuna soddisfazione a riguardo. E John si era prestato più che volentieri a quel passatempo, notando le occhiate fintamente esasperate dell’uomo seduto di fronte a lui. La donna si ritenne più che soddisfatta dei complimenti ricevuti. Siger gli chiese se magari se avesse voluto sposarsela lui, perché non ne poteva più di tutti quei vestiti comprati e mai messi e degli armadi che traboccavano di vesti su vesti. Violet sorrise e si avvicinò al marito, dandogli un veloce bacio sulla guancia.
«Non lo faresti mai.»
L’uomo sospirò. 
«Vedi, John? Vedi? Così ci mettono nel sacco! Occhi dolci e carezze.»
Il dottore rise finendo di bere l’ennesimo bicchiere di vino rosso.
A mezzanotte passata, Siger gli propose un sigaro, ma John rifiutò -ringraziandolo con un cenno- dicendogli che non fumava e che iniziava a sentirsi veramente stanco.
La padrona di casa lo invitò ad andare a dormire senza farsi problemi e, per una volta, John non fece storie, incamminandosi su per le scale dopo i doverosi saluti della buonanotte.
La testa gli girava per il troppo vino ingurgitato (non era più abituato) e per il sonno mancante, così si fermò un attimo in cima alla rampa, scuotendo la testa per riprendersi e non ritrovarsi a dormire lì, per terra.  
Alzò poi gli occhi al piano superiore, fissandoli su  una porta marrone scuro che gli celava qualsiasi cosa vi si trovasse dietro: quella della soffitta. Ancora faticava a credere di essersi immaginato una persona.
Si stiracchiò sbadigliando e lasciò cadere il pensiero nel dimenticatoio.
Andò prima in bagno a darsi una rinfrescata e lavarsi i denti,  tornò in camera nel buio più totale, voglioso di entrare sotto le coperte e dormire -se Dio glielo concedeva- almeno otto ore di fila.
Riuscì a raggiungere e ad accendere l’abat-jour senza andare a sbattere da nessuna parte e allungò una mano verso il cuscino per prendere il libro (amava leggere prima di addormentarsi), ma, quando la mano toccò il semplice tessuto freddo delle federa, corrugò le sopracciglia e si voltò per trovare lo spazio effettivamente sgombero dall’oggetto. Guardò allora verso la libreria ma lo spazio vuoto era ancora lì. Abbassò allora lo sguardo verso i piedi del letto e lì vi trovò il libro. Il come fosse finito là in basso, non ne aveva proprio idea. Okay, doveva essere decisamente stanco. Si cambiò, prese il libro e lo mise sul comodino gettandosi sotto le lenzuola, spostando il cuscino (ormai troppo abituato a dormire senza) in verticale dal lato vuoto del letto a protezione della schiena. Incredibile ma vero, riuscì ad addormentarsi in pochi istanti.
 
Durante la notte, qualcosa lo svegliò.
Il suono del parquet che scricchiolava gli rimbombava nelle orecchie. Non era nella sua stanza, no, era sopra di lui. Si tirò su a sedere e fissò il soffitto, non sapendo nemmeno lui cosa fare, continuando a sentire gli scricchiolii di una persona che stava camminando a passi lenti e misurati. Non fosse stato per il suo udito migliorato notevolmente negli ultimi tempi (e i suoi nervi che saltavano ancora ad ogni più piccolo rumore) non se ne sarebbe mai accorto.
Aspettò.
Aspettò e aspettò e aspettò ancora, rimanendo in silenzio almeno per dieci minuti, ma niente sembrava più smuoversi.
Dubitava nella presenza di Richard a quell’ora della notte, lassù in mansarda -per quale motivo poi? Niente che potesse essere rimandato al giorno dopo?- ma magari uno dei due coniugi non riusciva a dormire ed era andato a cercare qualcosa.
Passarono altri dieci minuti, ma il silenzio era totale. John si distese di nuovo, rimanendo ancora qualche minuto all’erta, ma il caldo e la comodità del letto lo fecero cadere nuovamente in un sonno senza sogni.
Qualche minuto dopo il suo leggero russare, i passi ricominciarono.
 
Si svegliò la mattina seguente con dei deboli raggi di sole che filtravano dalle tende lasciate aperte per dimenticanza. Si tirò su a sedere, poggiando la schiena contro la spalliera del letto e si sgranchì un poco, cercando nei meandri della memoria dove fosse  e perché. Si ricordò della sera precedente e sospirò piano, sorridendo.
Passò la mano sulla coscia, arrivando a sfiorarsi il ginocchio e premere piano: la gamba, per qualche motivo che non riusciva ben a classificare, gli faceva di nuovo male. Rimase lì ancora per qualche istante, ad occhi chiusi, cercando di non pensare a niente, rilassandosi.
Alla fine si alzò, andando verso la valigia che non aveva ancora disfatto, tirandone fuori solo un piccolo astuccio, da cui prese l’orologio da polso appartenuto al padre e un fazzoletto bianco dai contorni azzurri che strinse forte, per poi poggiarlo sul letto in attesa di essere riposto nella solita tasca dei pantaloni.
Svuotò anche il resto della valigia, facendo avanti e indietro solo un paio di volte per riempire nemmeno un quarto dello spazio che aveva a disposizione nell’armadio. Tirò fuori gli asciugamani e l’accappatoio, rasoio e dopobarba e qualche libro che si era portato dietro, non sicuro di cosa avrebbe trovato al suo arrivo. Poggiò questi ultimi sul comodino, in ordine di preferenza, e si sentì già un poco di più a casa propria. O, almeno, nella propria stanza.
Si avvicinò alla finestra per sbirciare fuori, notando il cielo azzurro senza nuvole. La spalancò facendo entrare un refolo d’aria fresca e respirando a pieni polmoni l’aria di campagna.
Sentì una voce chiamarlo dal basso, si sporse un po’ in fuori e notò Violet salutarlo, vestita con stivaletti da pioggia verdi, una salopette -ne vendevano ancora?-, una maglietta scura senza maniche e un cappello per il sole: era una visione piuttosto strana.
Notò poi la paletta che teneva in mano e la terra smossa dietro di lei, con dei fiori che stavano per essere piantati.
«Buongiorno!» le urlò alzando un braccio in segno di saluto: lei sorrise e fece lo stesso, facendogli cenno di scendere. Si ritrovò ad annuire e fece per tornare dentro, quando notò l’espressione della donna mutare improvvisamente quando i suoi occhi si alzarono un po’ di più. Il sorriso le tornò, un po’ più spento di prima, quando riappoggiò gli occhi su John.
«Qualcosa non va?» s’informò preoccupato dalla reazione insolita. Si sporse ancora un poco guardando verso l’alto ma, a parte la facciata della casa e il cielo limpido, non vedeva niente di strano.
«No, John. No, mi sembrava che le tegole del tetto stessero cedendo. E non sai quanto mio marito si arrabbierebbe. Le abbiamo fatte cambiare lo scorso inverno. Ora scendi, non farmi sgolare!»
Il dottore ubbidì lasciando la finestra aperta per far arieggiare la camera e andò a farsi una breve doccia. Tornò poco dopo, finendo di vestirsi e prendendo il fazzoletto dal letto, piegandolo con cura e mettendoselo nella tasca posteriore dei pantaloni.
 
Violet stava innaffiando le peonie quando lui scese, pronto a darle una mano se le fosse servito.
«Hai fatto almeno colazione?»
Il medico scosse la testa.
«Richard mi ha gentilmente obbligato ad andarmene dalla cucina dicendo che avrebbe preparato tutto lui. Siger?»
La donna scosse la testa sconsolata, alzando gli occhi al cielo e sbuffando piuttosto teatralmente.
«Non ne ho la minima idea, quell’uomo va e viene come più gli aggrada. Spero almeno mi porti qualche regalino al suo ritorno.»
John sorrise, avvicinandosi ancora un po’ alla donna, prendendole dalle mani la pompa dell’acqua.
«Posso fare qualcosa?»
La vide sorridere grata.
«Ho quasi finito, ma grazie.» rimase un attimo in silenzio, squadrandolo «Hai dormito bene?»
«Credo sia il letto più comodo sul quale abbia mai dormito, in realtà.»
La donna sembrò rallegrarsi per qualche motivo e la voce di Richard interruppe qualsivoglia tipo di discorso, chiedendo loro se volessero fare colazione all’aria aperta. Entrambi annuirono.
 
La giornata trascorse pacifica e serena e John non sapeva se esserne contento o meno. La coppia sembrava dargli i suoi spazi senza opprimerlo, Richard si faceva vivo solo ogni tanto per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa -non standolo a sentire quando gli diceva che nel caso si sarebbe alzato per prenderla- e tutto intorno a lui era silenzioso: francamente una noia mortale. E dire che in Afghanistan pregava per un po’ di pace e silenzio. Si prese il suo tempo piazzandosi in giardino, sotto un albero che lo copriva dai tiepidi raggi del sole, con in mano un libro preso a caso dal soggiorno.
Scoprì -per sua fortuna- essere un thriller, che lo stava anche piuttosto prendendo.
Inseguimenti, trappole, nascondigli, bugie e un cattivo con la C maiuscola. Arrivò alla fine del tomo senza nemmeno essersene reso conto, chiudendolo con un tonfo e poggiandolo malamente a terra sull’erba ben curata. Stava provando invidia per il protagonista di un libro. Invidia: sì. Perché ormai la tranquillità e la serenità non gli interessavano più. Aveva visto talmente tante cose e vissuto sulla propria pelle quello che un altro essere umano era in grado di fare, che non credeva nemmeno che quelle due parole potessero esistere. La tranquillità ormai era una fase superata, come i suoi incubi solevano ricordargli molto più frequentemente di quanto volesse.
La mano iniziò a tremargli piano e lui la fermò con l’altra, stringendo forte le dita attorno al polso.
Sbuffò risentito, poi una strana sensazione lo colse all’improvviso. Era qualcosa come l’essere osservati, come sentire un paio di occhi che ti fissano, quel leggero fastidio dietro la nuca che non ti fa stare in pace, quella strana sensazione che ti fa diventare paranoico e ti fa voltare a destra e sinistra cercando qualcuno. Cosa che fece, notando il giardino tristemente deserto e i rumori nella casa talmente lontani da non essere identificabili. Quando alzò gli occhi verso la propria camera notò la finestra al di sopra di essa aperta, la tenda bianca trasparente svolazzante fuori e fu quasi convinto di vedere un’ombra, dandosi mentalmente dell’imbecille notando essere un semplice attaccapanni semi nascosto. Eppure quella sensazione non se ne voleva andare.
 
Passò la prima settimana e, con essa, anche i primi giorni lavorativi. John si era abituato presto -molto più di quanto avesse immaginato- agli studenti giovani e così pieni di voglia di imparare -un po’ li invidiava-, a riconoscere le prime facce associandole a qualche nome o cognome, ad individuare quelli della sua classe in mezzo a corridoi affollati, a parlare con professori -quasi tutti più vecchi di lui- delle varie esperienze e che cosa avesse portato alla scelta d’insegnante (John inventò quasi tutto). Si era abituato anche a quelli che Siger definiva “metodi d’insegnamento”, non apprezzandone troppo la severità e i toni bruschi, ma vedendo una buona reazione da parte degli alunni (cosa francamente insperata). Il Rettore lo aveva presentato come il nuovo Patologo che avrebbe assistito le prime volte e poi avrebbe lasciato -per la loro felicità- solo.
John, come aveva già accennato a Siger, aveva tutto un altro atteggiamento nei loro confronti e loro sembravano più tranquilli e pronti a fare domande senza paura di venir fulminati da un’occhiataccia, persino col Rettore nella stessa stanza.
Oltretutto, anche se si sentiva un po’ una carogna ad ammetterlo, aveva sorriso divertito al primo studente che si era sentito male vedendo un cadavere steso sul lettino e lui pronto col bisturi in mano. L’aveva fatto sedere -lasciando la classe nelle mani di Siger- e gli dato un bicchier d’acqua, portandolo fuori dalla stanza.
«Dai, la prima volta può succedere.» gli disse sorridendo sghembo e lo studente si era scusato, senza rientrare fino la fine della lezione. Il Rettore aveva rimproverato il giovane per circa dieci minuti, finché John non era intervenuto facendogli notare che la classe successiva stava aspettando. Il ragazzo lo guardò grato e si allontanò lungo i corridoi.
La sensazione di John, comunque, non era passata. Si sentiva osservato, seguito, fissato. E si sentiva maledettamente paranoico, non gli era mai capitato.
La cosa strana era che capitava solo tra le mura domestiche e mai fuori dall’abitazione. Aveva anche notato dei piccoli oggetti che venivano spostati in modo leggermente diverso da come li lasciava. Aveva provato a fare un esperimento, mettendo determinate cose in determinati modi ma, ogni volta che provava a fare una cosa del genere, tutto era regolare e niente era fuori posto. Iniziava a chiedersi se stesse diventando pazzo. Eppure era sicuro dei piccoli indizi. Il rasoio del dopobarba poggiato sul tavolo di legno sopra a un asciugamano sembrava essere stato toccato e rimesso a posto, qualche libro spostato, il letto ogni tanto aveva le coperte più in basso di quanto ricordasse di averle lasciate. Piccole cose che iniziavano a farlo sentire ossessionato, ma che, lo sapeva, accadevano eccome. Una cosa che non riusciva a capire, però, era se la cosa gli desse fastidio o meno. Era come se qualcuno fosse interessato a lui. Ma come? Perché? Chi? Si era informato, con discrezione, se per caso Richard o uno dei due coniugi ogni tanto entrasse per mettere le cose in ordine. Tutti negarono e Violet volle sapere perché se ne fosse uscito con quella domanda. John era riuscito a glissare in modo grossolano -non convincendola poi molto- iniziando a parlare di lavoro con Siger che non si sarebbe mai stancato dell’argomento.
Una sera come un’altra, capitò nuovamente.
Aveva chiuso la porta prima di scendere a cena –se lo ricordava perfettamente, odiava lasciare le porte aperte- e adesso, dopo essere andato un attimo in bagno, la porta era socchiusa. Entrò e si guardò intorno con circospezione, non notando niente di sospetto.
Fece un passo indietro uscendo di nuovo dalla stanza e fissando la porta scura della soffitta: era lì. Non poteva esserci altra spiegazione. Chiunque lo stesse spiando si doveva trovare lì dentro. Stava per fare qualche passo in quella direzione quando vide spuntare Violet dalle scale. La donna gli sorrise e gli si avvicinò con in mano uno dei suoi maglioni, John la guardò con fare interrogativo.
«Scusami, John. Prima ho detto una mezza bugia. Sono entrata in camera tua un paio di volte per vedere se per caso avessi qualcosa da lavare, mentre eri all’università e per mettere un po’ in ordine. Ma giuro che non ho curiosato tra le tue cose. Se ti ho creato disturbo, non volevo, mi dispiace.» John stava per dire qualcosa quando lei continuò «Non volevo dirlo davanti a Siger. Mi dà troppe volte della ficcanaso e, anche se ha ragione, a me disturba.» si guardò la punta delle scarpe reggendo ancora il maglione in mano, porgendoglielo qualche secondo dopo.
«Te l’ho lavato, spero non ti spiaccia.»
Il medico sospirò, scuotendo la testa e prendendo il capo d’abbigliamento tra le mani. «Grazie. È stato un bel gesto, non dovevi disturbarti.» lei sorrise un poco, mostrandosi veramente desolata dell’accaduto.
«Violet...» la donna alzò i grandi occhi verdi verso di lui «Veramente, grazie.» sembrò rinfrancata dalla cosa, almeno finché il dottore non continuò il discorso «Ma preferirei non lo facessi più, insomma...»
La padrona di casa annuì e si scusò nuovamente, girandosi per andarsene quando uno strano rumore bloccò entrambi dov’erano. Uno scricchiolio di parquet. Da sopra le loro teste.
John alzò lo sguardo al soffitto, aspettando di nuovo quel suono, quello scricchiolare che gli faceva credere che lì dentro ci fosse qualcuno oltre a loro, ma quel rumore non arrivò.
«Devo decisamente dirlo a Siger.» fu la prima cosa che la donna disse, spezzando il silenzio.
John riportò l’attenzione sulla donna, pronunciando un semplice e debole eh?.
«Abbiamo fatto la disinfestazione nemmeno sei mesi fa, ma sembra che qualche topo sia rimasto in vita. Non mi piace avere quelle bestiacce in casa.» aveva gli occhi quasi lucidi mentre lo stava dicendo e John le si avvicinò toccandole una spalla, rassicurandola con una carezza. Lei sembrò non notarlo nemmeno. 
«Se sono topi non c’è nulla per cui piangere Violet.»
«Certo che sono topi! Cos’altro dovrebbero essere?!»
Il medico si sorprese della reazione della donna e le si avvicinò ancora un po’: sapeva riconoscere un attacco di panico quando ne vedeva uno.
«Violet, cosa c’è?» chiese e la donna alzò le braccia per non farsi toccare, mentre il fiato veniva pian piano a mancarle a causa delle piccole boccate d’aria che prendeva, John però riuscì nell’intendo di abbracciarla piano, spostandole le braccia sopra le proprie spalle, mormorandole di respirare con calma, piano, sì, così è perfetto.
«Ho paura dei topi.» si sentì dire dopo qualche minuto di silenzio «Prima o poi mi faranno del male visto che li ho lasciati in soffitta.»
John scosse piano la testa, cercando di capire se si fosse o meno calmata abbastanza e se stesse per caso delirando.
«Mi odia di sicuro. Con tutte le sue forze.»
John aveva perso un attimo il filo del discorso.
«Chi?»
Lei alzò gli occhi impassibili e lo guardò «Il topo.»
Il medico si morse la guancia, guardandosi intorno, non sentendo alcun rumore nei paraggi che potesse far capire dove fossero Siger e Richard in quel momento.
«Torniamo giù, ti preparo una camomilla, va bene?»
Lei annuì, facendo per chinarsi a raccogliere il maglione che John aveva lasciato cadere per terra senza essersene reso conto, ma lui la anticipò, raccogliendolo per primo, non convinto ancora della stabilità della donna.
«Dovrò rilavarlo.»
«No, non serve.»
Lei annuì e si poggiò con tutto il peso su John.
Passarono solo pochi istanti e lei tornò in posizione eretta, guardandolo come se lo vedesse solo adesso.
«John, ti stavo riportando il maglione, come mai stiamo tornando giù? Ah sì, scusa, volevo dirti che sono io quella che è entrata in camera tua un paio di volte e...»
E in quel momento lui capì che in quella casa non c’era nessuno oltre a loro, che leggere romanzi gialli non faceva bene alla sua salute, che vedeva cose che in realtà non c’erano e voleva semplicemente che qualcosa nella sua vita non fosse così tranquillo e piatto. Voleva l’emozione, voleva il combattimento, voleva qualcosa che lo sconvolgesse dal profondo.
Capì anche che Violet Holmes aveva probabilmente qualche malattia mentale.
 
Non parlò dell’accaduto con Siger, perché per ora non aveva intenzione di affrontare l’argomento. Del resto, l’uomo era un dottore come lui -se non più bravo- e sicuramente aveva notato qualcosa che non andava nella consorte e, se non ne aveva parlato e lo aveva ospitato in casa, forse la cosa non era così grave e forse prendeva già qualche medicinale.
Troppi forse in un’unica frase.
 
Ormai era in quella casa da ormai due mesi e si era abituato alla routine casa-università università-casa (usciva veramente poco la sera con i colleghi con cui era riuscito ad instaurare una sottospecie di amicizia). E dire che dopo essere partito e aver finito gli studi, pensava che non avrebbe mai più messo piede in un posto infernale come quello.
La vita scorreva placida, gli studenti ormai lo chiamavano per nome (cosa che non piaceva per nulla a Siger) e lui li riconosceva e sapeva dare un nome a tutti. Aveva imparato tutte le strade della cittadina, conosciuto diverse donne nei vari negozi che gli facevano gli occhi dolci ma per le quali non provava nemmeno il minimo desiderio, aveva fatto rifornimenti di libri e riviste, aveva spedito una sola cartolina a casa spiegando per sommi capi come stavano procedendo le cose, si era addirittura comprato una canna da pesca che alla fine aveva lasciato in armadio a prendere polvere, troppo annoiato dal rimanere fermo a vedere se qualche pesce abboccasse o meno. Aveva anche pensato di andare al poligono di tiro, salvo riscontrare che –ehi- un poligono di tiro non esisteva in quella città, ma doveva andare fuori a due ore di distanza e no, non aveva voglia di farsi più di tre ore per sparare a una sagoma immobile.
Aveva visto Violet cadere in stati depressivi e darsi della cattiva madre per poi riprendersi come se nulla fosse successo, aveva visto Siger alzare un po’ troppo il gomito una sera più del dovuto, ma niente di grave era capitato e tutto sembrava sotto controllo.
Poteva dire adesso, dopo quel tempo che per lui sembrava infinito, che si trovava approssimativamente bene. Si stava quasi abituando a quella pace noiosa. Quasi.
 
Una notte come un’altra si svegliò nel bel mezzo di un incubo, sudato dalla testa ai piedi come se fosse pieno agosto e con tremori lungo tutto il corpo. Era riuscito ad impedirsi di urlare per la mano che si era messo davanti la bocca in un gesto che ormai gli veniva automatico (lo aveva fatto talmente tante volte da averne perso il conto).
Afghanistan. Di nuovo. Ancora.
Alzò le coperte e ci si distese sopra, trovando un po’ di fresco piuttosto piacevole contro la pelle accalorata, continuando a respirare a singhiozzi, coprendosi gli occhi con una mano.
Si rigirò tra le lenzuola per quasi un’altra ora, finché capì che non sarebbe riuscito a prendere sonno così facilmente. Allora rimase lì, immobile, disteso su un fianco a guardare la libreria.
Qualcosa gli diceva che quella giornata sarebbe stata disastrosa.
 
Come previsto, non chiuse occhio per il resto della nottata e si alzò a sedere sul materasso con l’umore sotto i piedi. Si diede una veloce pettinata alla zazzera bionda con la mano (giusto per non far spaventare qualcuno nel caso l’avessero visto) e decise di alzarsi. Fece più fatica di quanto avesse immaginato -la gamba che gli faceva un male del diavolo- dirigendosi alla finestra, aprendola, guardando fuori il cielo grigio e nuvoloso.
«Splendido.» riuscì semplicemente a mormorare tra sé e sé. Il tempo sembrava d’accordo col suo umore.
Tornò verso il comodino -zoppicando piuttosto vistosamente-, prese l’orologio da polso e lo infilò, guardando come al solito l’ora e poi la data nel piccolo riquadro al posto del numero tre.
Oh. Ecco qual’era il problema, il suo subconscio era veramente notevole alle volte.
Sette mesi esatti dall’ultima missione portata a termine. Quella dove più di tre quarti dei suoi compagni era stata brutalmente assassinata.
Scosse la testa cercando di portare i pensieri in un’altra direzione, ma non ci riuscì.
La gamba iniziò a fargli talmente male da aver bisogno di sedersi nuovamente. Si appoggiò malamente alla sponda del letto e fissò con astio l’anta dell’armadio, sapendo benissimo cos’avrebbe trovato aprendola, nascosto nel fondo della valigia. Sospirò pesantemente e, muovendosi a disagio, provò a rialzarsi e fare qualche passo, ma l’arto traditore sembrava non volergli dare tregua. E dire che fino a quel momento era andato così bene, riuscendo a camminare pressappoco normalmente non sentendo quasi fastidio. Si trascinò fino l’armadio e aprì il borsone, tirandone fuori il suo vecchio amico: il bastone in acciaio leggero.
Doveva ammettere di sentirsi a disagio, ma sarebbe stato ancora più imbarazzante non presentarsi a lezione o farlo senza riuscire a camminare. Poteva pur sempre inventarsi qualche scusa per la zoppia improvvisa.
Fece le cose con molta più difficoltà -dal vestirsi all’andare a lavarsi- e fece arrivare in ritardo sia lui che il Rettore. Chiese scusa, non sapendo che altro dire.
 
Sperava che la giornata finisse il prima possibile -voleva solo tornare nella sua stanza e rimanerci per tutto il giorno, tentando di riposare- ma, soprattutto, che non ci fossero altri inconvenienti che potessero fargli aumentare il mal di testa e l’umore nero.
Alla prima lezione, verso nove e mezzo della mattina, dovette purtroppo ricredersi. 
Siger portò il cadavere su una barella -coperto dal solito lenzuolo- nella stanza adiacente a quella delle celle. John -poggiato il bastone vicino al piccolo tavolino con sopra bisturi, forbici, siringhe, ago e filo e quant’altro- iniziò a parlare alla classe di cosa avrebbero fatto quel giorno, di come si sarebbe dovuto procedere alle varie suture, rispiegando i concetti base e la teoria. Gli studenti annuirono, facendo così capire di aver inteso tutto, e John alzò il lenzuolo.
Ringraziò ogni Dio in cui non credeva più per non aver vomitato lì, in quell’istante.
La donna distesa sul tavolo aveva i capelli biondi corti, a caschetto, le labbra sottili, il naso alla francese, un corpo minuto e un’altezza compresa tra il metro e settanta e il metro e settantacinque.
Era identica a Margaret, la sua collega. Colei che era stata presa, seviziata e brutalmente uccisa senza remore quando il loro campo era stato preso d’assalto.
Si fece dare il cambio dal Rettore e uscì aiutato dal sostegno del bastone, vomitando l’anima nei lavelli dell’obitorio.
 
Appena toccò il materasso non riuscì a credere che quella giornata di merda fosse finita. Sembrava che niente dovesse andare per il verso giusto. Aveva sbagliato una sutura, aveva spiegato una lezione del secondo semestre quando si trovavano ancora all’inizio del primo, non c’era con la testa nemmeno per rispondere alle domande, nemmeno a quelle più stupide e basilari. Era riuscito persino a fa cadere il fazzoletto bianco in aula insegnanti, tornando indietro colto dal panico di averlo perso.
Si mise sulla schiena, allargando le gambe per trovare un po’ di sollievo in quella dolorante e fissò il soffitto. Per una volta, non pensò a niente, lasciando la mente concentrata su quell’intonaco bianco ingrigito un poco dal tempo.
Non scese per cena, anche se chiamato più volte da Violet che sembrava piuttosto preoccupata. Siger andò a trovarlo rimanendo in camera con lui per almeno mezz’ora, chiedendogli cosa fosse successo, se si sentisse bene, se il giorno dopo preferisse rimanere a casa e John ci pensò seriamente su, ringraziandolo e dicendogli che ci avrebbe pensato più tardi, magari.
L’uomo lo lasciò dopo una breve occhiata e tornò a regnare la pace. Il dottore si alzò, zoppicando fino la libreria e guardando ogni libro di medicina –dorso per dorso- scegliendone uno che parlava di malattie psicologiche.
Si riappoggiò semi disteso sul letto e lesse l’introduzione, perdendosi in esempi, casi patologici, cure e sintomi.
Non si rese conto del tempo che passava finché Violet non entrò, portandogli un piatto con la cena e una brocca d’acqua.
«Devi mangiare qualcosa. Ti ho portato anche un po’ di valeriana, potrebbe aiutare.»
Il dottore chiuse il libro, poggiandolo sul comodino: non sapeva bene cosa dire.
«Grazie.» si limitò infine ad asserire e prese il piatto che la donna gli porgeva senza fare storie.
Lei sorrise, andandogli vicino per sussurrargli qualcosa all’orecchio.
«Che resti tra me e te, ma è qualcosa di un po’ più forte della valeriana.» gli fece l’occhiolino e lui si chiese per un secondo chi quella donna fosse e se dovesse seriamente iniziare a preoccuparsi. Guardò la boccetta vicino al bicchiere d’acqua e decise di leggere dopo gli ingredienti, non fidandosi troppo.
Restituì il sorriso meno allegramente di poco prima e iniziò a tagliare il pezzo di carne nel piatto. Non aveva assolutamente fame, ma siccome si era disturbata talmente tanto si sentiva quasi in dovere almeno di assaggiare. Appena mise in bocca il primo boccone lei gli batté una pacca amichevole sulla spalla e andò verso la porta.
«Buonanotte, John.»
Le restituì l’augurio con un cenno del capo, masticando mal volentieri.
Mangiò veramente il minimo indispensabile, lasciando più di metà fettina sul piatto. Alla fine prese la boccetta poggiata al comò e se la rivoltò tra le mani.
Splendido: nessuna etichetta. Poteva solo sperare che la sua padrona di casa non intendesse avvelenarlo. Non credeva di averle fatto davvero qualcosa di male.
Sospirò  e si poggiò meglio al cuscino, lasciando perdere l’altra metà della bistecca e poggiando nuovamente boccetta e piatto sul comodino, tornando a leggere il libro.
Riuscì a finirlo tutto entro la mezzanotte.
 
All’una e mezza era ancora vigile e attento.
Guardava ogni tanto fuori dalla finestra la luna piena che veniva oscurata dalle nuvole al loro passaggio, ascoltando il silenzio circostante interrotto solo dal gracchiare dei corvi in lontananza. Non aveva voglia di fare niente. Si sentiva stanco, sfibrato, ma non in grado di chiudere occhio per avere un po’ di pace almeno nell’incoscienza.
Dopo un altro quarto d’ora abbondante si voltò sull’altro fianco, vedendo la bottiglietta di liquido trasparente spiccare tra tutti gli altri oggetti.
Si sentì sbuffare.
Al diavolo!Prendere qualche goccia di quella roba non lo avrebbe sicuramente ammazzato, no? O forse sì? Non lo sapeva veramente, ma nel caso fosse morto forse poteva andare bene lo stesso. Alla fine cedette alla voglia di prendere qualche ora di riposo e versò nel bicchiere d’acqua giusto tre/quattro gocce. Lo bevve tutto d’un sorso senza pensarci più di tanto e tornò a poggiarsi al materasso morbido, il cuscino sempre vicino a lui a tenergli coperto il fianco altrimenti scoperto. Un’abitudine che non si sarebbe mai più tolto, ne era certo.
Rimase a fissare il soffitto illuminato, di poco, dalla luce giallognola dei lampioni di fuori per quelli che gli sembrarono minuti interminabili, non si accorse nemmeno di essersi addormentato.
 
Caldo. Caldissimo. Sabbia ovunque, una tempesta in arrivo. Poca acqua, poco cibo, tanti –troppi- malati. Richieste d’aiuto, nessuno che ci poteva fare niente. Soldati che sorridevano allegri, amici per il tempo che aveva concesso loro di esserlo, dottori sul campo che tentavano l’impossibile per salvare più vite possibili.
«John! Ci serve della morfina qui!»
Di morfina non ce n’è più.
«Lacci emostatici!»
Sono finiti anche quelli.
«Ne lanceranno un’altra tra poco, dobbiamo fare qualcosa!»
Non c’è niente da fare. I rifornimenti non sono arrivati, gli alleati nemmeno, sono soli e non sanno cosa fare.
Parte una scarica di pallottole da non molto lontano e sanno che non sono le loro.
John si alza e corre in mezzo alla folla -fucile alla mano- e tenta di salvare più gente che può, gettandoli a terra, parando loro le spalle, gridando loro di fare attenzione. Succede quando John raggiunge il colonnello riverso a terra e lo volta con malagrazia: nota in meno di un battito di ciglia che non c’è più nulla che possa fare per lui, ma qualcuno della schiera nemica pensa che sparargli una pallottola dritta nella spalla sia una grande idea.
John cade, grida. E vede buio.
 
Si svegliò di nuovo e questa volta urlò.
E se ne infischiava del farsi sentire, se ne infischiava di preoccupare la gente della casa e…
Un uomo lo stava fissando, chino lì, vicino al suo letto. Un uomo alto, magro, dai contorni indefiniti a causa del buio e della sua ombra proiettata su di lui. Lo guardava senza dire nulla.
Sentì la spalla un po’ più calda di tutto il resto del corpo e capì (senza sapere bene come in quel momento) che, con tutta probabilità, fino poco prima lo stava scuotendo per farlo svegliare.
E gli ricordava dannatamente tanto colui che aveva visto il primo giorno in quella casa, lassù, in quella soffitta.
A John girava pericolosamente la testa, non capiva cosa stesse succedendo, sapeva solo che stava per dire qualcosa, ma quello si voltò lesto e, silenzioso come un gatto, corse fuori dalla porta lasciando quest’ultima aperta.
Il dottore avrebbe voluto alzarsi e andargli dietro, prendendolo e chiedendogli chi diavolo era, cosa volesse, perché era lì? Ma le coperte gli aggrovigliarono le caviglie, la gamba tornò a fargli un male cane e il sonno sembrò tornare ad impossessarsi di lui. Che diavolo c’era in quella dannata, dannatissima boccetta?
Si riversò a faccia in giù mezzo fuori dal materasso e tornò ad addormentarsi senza volerlo. Una parte di lui sperò di non vomitare e soffocarsi.
 
Sentì bussare alla sua porta e la prima cosa che pensò fu lasciatemi stare. La seconda la porta è rimasta aperta questa notte. E la terza era che si doveva svegliare immediatamente, prima di credere di aver immaginato tutto di nuovo.
Si alzò di scatto e la sua schiena e la sua testa gli urlano contro ma non gliene poté importare di meno.
«Chi è?»
«Sono Siger, John. Volevo sapere se venivi a lavoro oggi.»
No, no, no, nemmeno per sogno.
«E se va tutto bene. Ti abbiamo sentito urlare questa notte, ma quando siamo arrivati dormivi già.»
«Non mi sento un granché bene, a dirla tutta, vorrei riposare almeno oggi, se non è di disturbo.» si morse le labbra: avrebbe tanto voluto non aver mai detto le ultime cinque parole. Voleva rimanere in casa e basta.
Il Rettore non entrò in camera, lasciando la porta assolutamente chiusa, e gli rispose che non c’era problema e di riposare ancora un po’. John ringraziò e aspettò che se ne andasse, cosa che fece poco dopo.
Scalciò via le coperte con le gambe e fece per prendere l’orologio dal comodino, quando vide qualcosa che decisamente non era suo e decisamente non era lì la sera quando era andato a dormire.
Un  semplice libro con la copertina verde scuro: Psychosomatic Disorders: A Behavioristic Interpretation.
Lo prese e aprì la prima pagina.
Sorrise come un bambino a cui era appena stato fatto un bellissimo regalo.
In una calligrafia che non conosceva –e quindi non appartenente a nessuno che avesse conosciuto in quella casa- su un piccolo foglietto volante c’erano semplici parole: Questo è sicuramente più adatto dell’inutile lettura di questa notte.
 
   
 
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