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Autore: Amour_    21/06/2013    0 recensioni
E' passato qualche anno dalla rivolta ungherese del 23 ottobre 1956.
Elizaveta si ritrova a scrivere su un diario i propri pensieri, i suoi cambiamenti, il suo stato.
[ Leggera PruHun, leggerissima LitPol ]
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 23 febbraio 1959.


 
Caro diario,
io non ce la faccio più. Non sorrido da tantissimo tempo, magari ho pure dimenticato come si fa. Non ho mai smesso di piangere. Per la mia patria. Siamo sotto il dominio dell'URSS da troppo tempo, io lo ritengo un'eternità. Chi la vede dall'occidente penserebbe che la Repubblica Popolare d'Ungheria sia indipendente, come tanti Paesi dell'Est Europa. Ebbene, è solo la finta realtà. Qui c'è un governo opprimente, autoritario e che odia le obiezioni. L'URSS non ci lascia spazio. E' una situazione invivibile e non so per quanto durerà ancora quest'inferno. Si prospettano anni duri: siamo solo all'inizio.
La rivoluzione ungherese del 23 ottobre 1956 non è servita: è stata repressa nel sangue con l'arrivo a Budapest di enormi carri armati. I russi sono potenti. Noi in confronto a loro siamo misere formichine facilmente schiacciabili da titani e giganti. Siamo indifesi, senza alleati. Possiamo dire solo ''sì'' alle loro proposte, non possiamo esprimere le nostre idee se diverse da quelle di Mosca. C'è la censura, non esiste la libertà di parola o pensiero. Sembra che siamo tornati a quei livelli di inumanità di secoli passati. Invece di progredire regrediamo? E' tutto inutile, le nostre idee non vengono minimamente ascoltate; solamente soffocate. Noi siamo incapaci di reagire. Mi vergogno di quando mi vantavo di essere fiera, forte e coraggiosa delle mie gesta: in questo periodo faccio solo la vigliacca e la vittimista. Ma non posso fare altro. Il valore irrinunciabile e universale delle libertà e dell'indipendenza ci viene negato, pare resettato nella mente dei russi. "Siete sotto il nostro potere", certo.
Sta nevicando. La neve nasconde il sangue dalle strade: questo mi rallegra un po'. Viviamo tutti in una grande casa, vicino a Mosca, noi tutti "aderenti" - si fa per dire: era una semplice costrizione - al Patto di Varsavia. Ogni tanto Ivan ci fa visita. Il silenzio alberga in questa abitazione da ore.

Un cimitero sarebbe più rumoroso.

Siamo tutti seduti al tavolo sgombro. Non c'è un vaso che coi suoi fiori colorati porta allegria. Non ci sono nostre vecchie foto in cui sorridiamo, in modo da fare un tuffo nostalgico nel passato. La falce e il martello, simbolo del comunismo sovietico, brillano sopra gli stipiti della porta, come fossero Ivan che ci dice "La mia presenza è ovunque". Rabbrividisco al sol pensiero. Tutto ciò che facciamo lui lo viene a sapere, sempre e comunque. Non sappiamo chi sia la spia e alla fine manco ci interessa. I miei occhi sono spenti. Me l'hanno detto in tanti e io in risposta ho fatto loro un leggero sorriso mesto, campeggiante sul mio viso pallido, smorto, sconvolto e con le occhiaie. Paio un fantasma, un morto vivente. Gli occhi non emanano più quella speranza smeraldina; non hanno più luce, solo buio e tenebre. Non sorrido in modo sincero da qualche decennio. Che tristezza.

Feliks mi guarda: anche lui ha gli occhi verde prato stanchi, scavati, esausti. Mi rivolge uno sguardo eloquente, quasi di pietà. Sento un lieve pizzicore agli occhi, non riesco a sostenere lo scambio di sguardi. Mi sposto verso Gilbert, "Germania Est" come viene chiamato da Ivan in tono derisorio, per lasciargli intendere che la gloriosa Prussia che tutti temevano non esiste da un bel po'. I suoi occhi rubino non trasmettono più niente. Non parla. Non ghigna. Non mi offende. Sembra muto: forse ha capito che parlare è inutile. Ucraina e Bielorussia sono sedute in disparte. La prima si tortura le mani nervosamente, fissando terra. Forse non riesce a reggere la pesante e difficile situazione. Natalia gira meccanicamente la testa verso la finestra imbiancata nell'attesa che arrivi il suo fratellone adorato. I tre baltici non spiccicano parola. Mi guardano timidamente, come timorosi, come se io fossi un terrificante mostro che non attende altro che divorarseli in un sol boccone. A quel pensiero, per la prima volta, mi esce una piccola risata dalle labbra. Si spegne com'è iniziata, dopo qualche manciata di secondi. Gli altri mi fissano perplessi da quella mia strana reazione. Non sono abituati a ridere per un'assurdità, vero? Gilbert accende la radio, per sapere qualche notizia. Nessuna è per noi. Manco una. Spegniamo la radio, già annoiati dai soliti annunci che non ci scalfiscono nemmeno un po'. Non è quello che vogliamo sentire.
Voglio abbassare la testa, sfogarmi e far scendere dal mio viso altre lacrime, per compensare le altre. Voglio urlare, distruggere tutto. Ma non posso.
Yekaterina si alza con Natalia, vanno in camera loro, col sorriso incrinato e falso sul volto. 'Va tutto bene', sembrano dire. Sono così patetiche. Non le guardo nemmeno uscire; mi fanno ribrezzo. Gilbert mi guarda per un po', come se capisse il mio umore e i miei pensieri. Mi avvolge in un abbraccio, io non ricambio, gelidamente. Il suo abbraccio non porta calore, allegria, speranza, gioia di vivere, ma solo compassione e pietà. Si stacca e si allontana da me. I tre baltici paiono degli stranieri: non parlano -come tutti, d'altronde- ed evitano di interagire con tutti. Il più disponibile sembra Lituania, sempre accanto al biondo polacco. Mi elargiscono entrambi un sorriso sincero. Mi capiscon— cosa dico. Non mi può capire nessuno. N E S S U N O. Sono tutti falsi, vili, ipocriti, vigliacchi, anche io. Ognuno pensa a se stesso, alla propria incolumità, alla propria salvezza: l'altruismo è scomparso, anche in me.
Posso constatare di essere cambiata in peggio. Ma almeno sono diventata più diffidente, lo ritengo quasi un pregio. In questo periodo non posso essere persona con idee proprie e con i propri valori, ideali e sogni: sono solo una misera ungherese assoggettata al grande sistema dell'URSS.
Una misera pedina che insieme alle altre aiuta per lo scacco matto.
Che fine orribile che farò.
Erzsébet.
  
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