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Autore: miss potter    23/06/2013    3 recensioni
"Bisogna avere un pò di caos dentro per partorire una stella danzante." (1)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter fifteen








Affermare che John Watson, in quel  momento, stesse vivendo un incubo sarebbe stato scadere nell’eufemismo. O peggio, nel ridicolo.
Perché da un incubo la gente si risveglia, sudata, impaurita, le mani che tremano ma poi, beh, poi si ritrova nel proprio letto, nell’oscurità familiare e sicura della propria stanza e, semplicemente, richiude gli occhi, un sorriso rasserenato dipinto sulle labbra, rimettendosi a dormire sperando che quei fantasmi, in combutta con una più che fervida immaginazione – o è questo che vuoi credere, che sia tutta colpa di una fervida, fottuta immaginazione – ne abbiano avuto abbastanza, almeno per quella notte.
John Watson, invece, per quanto sbattesse gli occhi, si mordesse le labbra e pregasse un dio in cui non credeva da tempo di riportarlo alla realtà rassicurante della sua camera da letto, si trovava sempre in quella tenebrosa suite d’albergo in una scomoda posizione fetale, per la quale la spalla gliel’avrebbe fatta pagare per le seguenti due settimane, e due lame oculari puntate contro, senza forze per fare nient’altro se non boccheggiare come uno stupido pesciolino rosso suicida saltato fuori dalla sua boccia.
“John…” chiamò ancora la voce, arrochendosi. “John, devi alzarti.”
Il groppo di puro e semplice sgomento che mi aveva serrato la gola faceva male, come se avessi ingoiato una pietra e stessi bevendo dell’acido per rimuoverla. Ero tutto un pizzicore, un fremito, un brivido di sincera paura mista ad un tremendo ma familiare senso di inadeguatezza.
“Co-com’è possibile?” biascicai, la voce strozzata.
Avevano rapito mia moglie, la mia Mary, la mia dolce ed ignara Mary, ed io non riuscivo a fare altro se non rimanere accartocciato su quella dannata poltrona chiedendomi come fosse possibile tutto ciò, come se non sapessi che, prima o poi, chi si caccia nei guai, o ci va direttamente a letto, ottiene ciò per cui ha sacrificato una vita di normalità e routine, procurandosi l’adrenalina per la quale si è svenduto anima e corpo.
Mycroft si rimise dritto, guardandomi dall’alto della sua incrinata superiorità e, a giudicare dalle profonde occhiaie sotto gli occhi gelidi, non doveva aver dormito molto quella notte.
“Tua moglie è uscita verso le due questa notte e, a detta dei receptionist, non è più tornata.”
Dimentico della lancinante fitta alla gamba, mi tirai su raggiunsi in poche ed incerte falcate zoppicate la porta della stanza, lasciandomi Mycroft alle spalle.
“Dove stai andando?” chiese questi con un tono di voce sgradevolmente fermo.
“A cercarla.”
“Sono le quattro e mezza di mattina, John. Da dove pensi di cominciare?”
“Non lo so!” sbottai voltandomi di scatto al suo indirizzo mentre tutti i cinque litri di sangue che mi scorrevano in corpo mi confluivano in faccia. “Sua grazia cosa mi consiglia?!”
Sollevò un sopracciglio a quell’epiteto e poi, con l’incredibile flemma di sempre, un lembo della giacca, traendone fuori un foglietto bianco e spiegazzato che mi allungò tra indice e medio.
“Prudenza, dottore” disse solo, intensificando il suo sguardo marmoreo.
Gli strappai di mano il pezzo di carta e lessi con foga le due semplici parole scritte di getto:


Reichenbach Falls

 

Le guardai, rabbrividendo al cospetto di quella calligrafia che conoscevo fin troppo bene, gettando poi lo sguardo su quello di Mycroft, una statua di sale e nervi.
“Cosa diavolo è Reichenbach?”

“Una pista.”
“Una… pista?”
Si riprese il foglio, ripiegandolo in quattro e riponendolo infine nella tasca interna da cui l’aveva tirato fuori. Poi, da quella dei pantaloni prese un telefono cellulare, vi digitò sopra qualcosa e non disse più nulla per un paio di minuti.
“Perdonami, Mycroft, ma in questo preciso istante mia moglie potrebbe essere chissà dove con una pistola puntata alla testa o direttamente senza, la testa, dunque non ho intenzione di stare fermo a guardarti mentre chiacchieri con chissà chi!”
“Io non chiacchiero, dottore” disse altero mettendo via l’apparecchio, ed avanzò verso l’uscita con passo deciso. “Mio fratello sarà qui a momenti.”
“Sh-Sherlock?”
“Sì, beh, ringraziando il Cielo non ne ho altri. Seguimi.”
Gli andai dietro finché non ci ritrovammo al piano terra dove mi accolse quella che aveva tutto l’aspetto di una vera e propria guerriglia in tenuta da assalto: una decina di uomini in divisa, con tanto di giubbotto antiproiettili e mitragliette, mi squadravano per tutta la mia lunghezza con fare sospetto mentre, alle loro spalle, una mezza dozzina di gorilla in completo nero e occhiali scuri parlottavano alle ricetrasmittenti attaccate dietro l’orecchio.
“E questi?” domandai, sbiancando in volto.
“Precauzione” tagliò corto Mycroft appoggiandomi una mano dietro la schiena e spingendomi delicato ma risoluto verso l’uscita. “Vi seguiranno a distanza di cinque minuti dalla Lamborghini.”
Non feci in tempo a chiedergli cortesemente di ripetere che un rombo assordante mi fece letteralmente schizzare il cuore in gola: una sfolgorante macchina sportiva color nero opaco si accostò al marciapiede davanti all’hotel in tutta la sua fulgida anonimità, e solo quando il finestrino oscurato dalla mia parte si abbassò riacquistai l’uso della mandibola.
Nell’abitacolo, Sherlock Holmes fulminò con uno sguardo di ghiaccio bollente il fratello al mio fianco, il quale rispose a quell’occhiataccia incrociando le braccia al petto e sulle labbra, sottili come rasoi, gli si dipinse un’espressione altrettanto pungente.
“Era proprio necessario, Mycroft?” ringhiò il minore dei due, indicando nervosamente il cruscotto davanti a sé tempestato di decine di spie luminose ed ambigui gadget tecnologici. “Almeno avesse il volante a destra!”
“Smettila di lagnarti, fratello. C’è gente che ucciderebbe per poter guidare questo gioiellino.”
“C’è gente che ucciderebbe per essere figlio unico!”
“Oh, te ne prego, dammi il loro indirizzo. Potremmo riunirci per fare un falò delle lettere a Babbo Natale in cui facemmo richiesta di un fratellino…”
“Dateci un taglio!” sbottai alzando le braccia al cielo ed attirandomi addosso l’attenzione degli Holmes come pure di circa metà del plotone alle mie spalle. “Che cosa significa tutto questo?”
Avevo già il fiatone, e non mi ero mosso d’un metro.
“Tutto questo cosa, John?” chiese il detective da dentro l’auto inclinando lievemente la testa.
Aveva un grande cervello, davvero, ma a volte stentavo a credere che dietro a quelle fattezze da palese trentenne in realtà non si celasse un marmocchio di due anni e mezzo con un QI lievemente superiore alla media dei coetanei e un’ossessione per le lucertole sventrate.
“Tutto questo… questo, Sherlock! La macchina da trecentomila sterline, l’esercito, Rachenback…”
“Reichenbach…” corresse lui con aria immancabilmente saccente.
“Non esageriamo,” intervenne Mycroft, scuotendo il capo “è solo una piccola divisione di esperti dalla Centrale.”
“Quello che diavolo è!”
Certo che, alla fine di quella giornata, mi avrebbero portato via in barella con un principio di infarto o, molto più probabilmente, indossando una camicia di forza, il maggiore degli Holmes si limitò a sbatacchiarmi una mano sulla spalla e sospirare, imperturbabile.
“John, sali e basta.”
“Cosa?!”
“Sali. In. Macchina.”
Guardai l’uomo al mio fianco, poi l’auto, poi di nuovo Mycroft ed infine l’altro uomo dentro l’auto che si stava allacciando una cintura la cui utilità, evidentemente, non aveva ritenuto indispensabile prima, e così seppi che John Hamish Watson era stato definitivamente messo all’angolo, di nuovo. Esercito o no.
“Con lui?!” esclamai, indicando Sherlock. “Neanche ce l’avrà, la patente!”
“John, dolcezza…” sbuffò quest’ultimo.
“Dolcezza questo cazzo, Sher! Esigo una spiegazione, e che sia la verit… Aspetta. Tu mi hai appena chiamato… dolcezza?”
Il sorriso imparagonabile che sfoderò come risposta ebbe lo stesso risultato di una mattarellata in pieno volto, su di me. Mi sentii formicolare da capo a piedi, e non erano certo i postumi del mio stramaledetto stress post-traumatico, nossignore.
“Fidati di me” aggiunse, allargando gli occhi.
Alla fine della fiera, mi ritrovai a rantolare qualcosa di molto simile ad un sermone di preghiere indù mentre salivo in macchina, allacciavo la cintura e speravo in cuor mio che fosse tutto un terribile scherzo mentre dallo specchietto retrovisore notai Mycroft rientrare in albergo, il broncio freddo di poco prima cangiato nel più radioso dei suoi sorrisetti inquietanti.
In un boato, il motore venne risvegliato e Sherlock diede briglia sciolta a tutte le centinaia di cavalli che mi ritrovai involontariamente sotto il sedere, facendoci rimettere in carreggiata.
Usciti dal centro città, stavamo imboccando quella che mi parve essere un’autostrada, i primi alberi e le case di legno all’orizzonte, come piccoli nei spruzzati nel corpo sinuoso e verde chiaro delle colline lontane. Guidò per una buona mezzora in silenzio religioso, trafitto soltanto dai profondi ringhi del veicolo ad ogni cambio automatico di marcia, prima che estraessi le unghie piantate sul bracciolo della portiera di destra e mi schiarissi la voce.
“Ehm, come… come stai?” domandai, badando a tenere lo sguardo fisso sulla strada.
“John, per piacere… Piuttosto davvero parliamo del tempo, ti va?” disse burbero, stringendo così tanto il volante che le nocche gli diventarono bianche. Più del solito, almeno.
Mi morsi l’interno di una guancia e lo stomaco mi si restrinse: chissà quanto sarebbe durato il viaggio, ovunque stessimo andando, e chissà quanto sarei durato io prima di decidermi a strangolarlo con la cintura di sicurezza.
Volsi lo sguardo al cielo e sbuffai.
“Mi sa che stasera piove” dissi dunque.
L’improvvisa e brusca decelerata che seguì a quelle mie parole mi fece intuire che neanche il tempo fosse propriamente l’argomento preferito del mio interlocutore, affetto da una strana forma di meteorismo compulsivo.
“John!” abbaiò.
“Che c’è?!”
“Sta’ zitto, okay? Sta’… zitto.”
“Stare zitto?! No, carino, forse non ti è chiaro un piccolo, insignificante particolare. Mia moglie è scomparsa, e io non so dov’è, e mi sono fatto convincere a salire su questa stramaledetta auto, con te, cioè non esattamente l’essere più affidabile del pianeta Terra, diretti chissà dove, chissà da chi!”
“Non te l’ha chiesto nessuno di farla venire qui.”
“Oh, certo. E secondo te cosa avrei dovuto fare? Dirle semplicemente: ‘Mary, tesoro, vado in Svizzera a sollazzarmi col mio amante, uomo, mentre tu te ne stai buona buonina a casa a lavar piatti mentre pensi ad un solo, misero motivo per cui dovresti meritare me come marito’?!”
Sherlock sospirò pesantemente, alla maniera cinica e completamente disinteressata con cui trattava circa il novantanove virgola nove periodico percento delle persone sulla Terra, solo noiosi e mediocri individui che con lui non hanno niente in comune se non il fatto di respirare la sua stessa aria.
“John, solo… fidati, okay?”
“Fidarmi!” esplosi, assumendo una tonalità di voce al limite dell’isterico “D’accordo. Fidiamoci del grande, immenso intelletto di Sherlock Holmes, consulente detective, spia e… distruggitore di vite.”
Mi accorsi subito di averla sparata grossa, enorme, e mi morsi un labbro quasi a sangue per questo, ma non era certo rimorso quello che mi grattava le pareti delle viscere, né pena. Forse ci stavamo solo abituando all’idea che per distruggerci le vite a vicenda, alla fine dei conti, ci eravamo semplicemente nati, e che sarebbe stata la nostra fine migliore. Avrebbe incassato quel colpo come uno dei tanti pugni nello stomaco per cui entrambi stavamo sviluppando il callo, un poco alla volta.
“Perdonami” mi riuscì solo di dire dopo uno sconquassante silenzio da parte di entrambi, e gettai nuovamente lo sguardo al paesaggio che ci sfrecciava di fianco, all’asfalto lucido, al timido sole che colorava di rosa ed ambra tutto ciò che il suo caldo ed avvolgente abbraccio d’alba sfiorava, mentre dentro, invece, mi sentivo lentamente estinguere.
Avrei dato tutto il mio cuore e tutto il coraggio che non avevo per poterlo abbracciare così, in quel momento, lui che adesso mi appariva così fragile, di cristallo ammaccato dietro a quella sua onnipresente, stramaledetta maschera d’apatia.
“Sai,” fece ad un certo punto, tirando su col naso “non sono sempre stato così.”
Dovetti socchiudere gli occhi per un momento quando il riverbero dei primi raggi solari incontrò il vetro splendente dell’auto, concentrandovi tutta la loro potenza.
“Così come?” chiesi quasi sottovoce, asciugandomi gli occhi irritati dalla luce e da un paio di pensieri altrettanto fastidiosi.
“Così che risolvo casi ben più complessi dell’amore ma che, nonostante tutto, esso rimanga sempre un mistero, per me.”
“L’amore non si spiega, Sherlock. Si vive, e basta.”
Per la prima volta da quando ero salito in macchina, distolse lo sguardo dalla strada per gettarlo nel mio, le spesse sopracciglia aggrottate, un grosso e lampeggiante punto interrogativo al centro dell’ampia fronte e gli angoli della bocca lievemente rivolti verso il basso. Ne risi mentalmente, di quel cipiglio, come se per l’ennesima volta stesse cercando di decifrarmi e si stesse maledicendo da solo per l’ennesimo buco nell’acqua.
“Non puoi pretendere che tutto possa essere spiegato attraverso la logica” aggiunsi infine, sorridendogli con tanta dolcezza quanta amarezza.
Scosse leggermente il capo e riportò l’attenzione davanti a sé, mantenendo quell’espressione tra il perplesso e il deluso, e mise la freccia per imboccare un’uscita sulla destra. Poi, prima di parlare, prese un lungo respiro che sembrò costargli più fatica di quanto normalmente un gesto simile richiederebbe.
“All’università,” principiò “c’era un ragazzo. Io ero ancora una matricola ingenua e troppo invasata di scienza quando lo incontrai in aula microscopi. Faceva da tutor agli studenti più giovani e aveva due, tre anni più di me. Ne rimasi subito estremamente colpito, e non solo per la sua grande passione verso catalizzatori ed elettromagnetismo. Era… gentile, di quel tipo di gentilezza genuina, disinteressata, l’unico ad esserlo stato con me fino ad allora, soprattutto nel contesto in cui ero stato inserito: figlio degli Holmes, in un’università pubblica. La reputazione della mia famiglia, ricconi con gli stemmi in soggiorno ma senza un briciolo di empatia verso gli umani sentimenti, padre diplomatico, madre grande dirigente d’azienda e un fratello a scienze politiche, mi precedeva ovunque andassi, influendo su chiunque. Ma non su questo ragazzo.
“Cominciammo a parlare, a scherzare – per quanto orribili fossero le sue battute – ed io a lasciare che mi desse alcune dritte riguardo ad esperimenti e strategie da adottare agli esami. Studiavamo insieme, mangiavamo allo stesso tavolo alla mensa e, qualche volta, l’avevo portato a casa, sai per… ripetizioni pomeridiane. Per fartela breve, ci finii a letto in un semestre e no, non è come pensi.
“I miei avevano divorziato da poco, Mycroft se n’era andato negli Stati Uniti in vacanza studio ed io ero rimasto solo, solo coi miei libri e un unico amico con cui potermi confidare che non fosse lo specchio o i becher.
“Era Capodanno e, beh, mi aveva invitato a una festa, a casa sua. Tutta gente che più o meno conoscevo e che non poteva sopportarmi, colleghi di università e anche qualche professore. Insomma, l’alcol scorreva a fiumi, gente che vomitava e fumava di tutto tranne che tabacco in giardino… Lui, ubriaco fino all’osso, mi prese in disparte con la scusa di presentarmi la sua ragazza, e mi portò in camera da letto dei suoi nella quale ci chiuse a chiave. Rideva in continuazione, come un pazzo, e puzzava di vodka e marijuana in una maniera allucinante. Gli dissi di smetterla, che non mi pareva il caso di comportarsi in quel modo, che non sapeva quello che stava facendo… Ma non sembrava esserci. Quello non era il ragazzo gentile e disponibile che avevo conosciuto, diverso dalla restante marmaglia di schizzati troppo occupati a rendermi la vita impossibile.
“Ad un certo punto, da un cassetto di un mobile tirò fuori una bustina che cominciò ad agitarmi sotto il naso mentre continuava a ripetere: ‘piccolo, adesso ce la spassiamo’, ‘vedrai che non te ne pentirai’, ‘voglio farti un regalo’. Ricordo come fosse adesso la mia prima volta… Cocaina e sesso, due in uno, come in una di quelle offerte da discount. La sensazione della droga, deflagrante su per le narici, e le sue mani sotto i miei vestiti mentre la percezione della realtà si affievoliva sempre di più insieme alla forza di ribellarmi a quelle carezze.
“Fece male, John. Parecchio. Mi risvegliai la mattina seguente in un letto d’ospedale e mia madre in lacrime seduta di fianco. I dottori mi dissero che ero andato in overdose, un cocktail di coca e alcol, e… beh, da medico puoi immaginare il resto del referto. Li pregai di non dire niente a mia madre di cosa fosse successo, e da stupida matricola qual ero, invasata tanto di scienza quanto di bugie, m’illusi che non gliel’avessero già detto, prima che mi risvegliassi. Lei non mi disse niente, mai, né riparlò più della faccenda. Mio fratello lo venne a sapere da ricerche fatte craccando l’archivio dell’ospedale e mio padre, vivendo all’estero, restò sempre all’oscuro di tutto. Non avrebbe mai potuto reggere il fatto di avere un figlio… come me, insomma.
“Ora ti dirai: ‘beh, l’avrà denunciato, questo tizio. Gliel’avrà fatta pagare, in qualche modo’. Lui lo rividi in facoltà due mesi dopo, in segreteria mentre mi occupavo delle carte che accertavano la mia prolungata assenza dalle lezioni. Inspiegabilmente, non sentii nulla. Né rabbia, né voglia di vendicarmi. Solo un enorme vuoto, un vuoto bruciante che avevo bisogno di colmare, in un modo o nell’altro, a qualunque costo. Perché, quella roba, la prima volta che l’assaggi… oddio, è quella definitiva. Un po’ come il sesso, in cui la prima volta va un po’ così, ma poi ti accorgi che ne vuoi ancora, dopo, e ancora, sempre di più per sapere se la prossima sarà migliore della precedente.
“Lo richiamai. Mi chiese come stavo, se avevo intenzione di rivederlo, se eravamo ancora amici. Non mi chiese mai scusa per ciò che mi aveva fatto, anche perché io non le avrei mai accettate, le sue scuse. Così, suggellammo la nostra ritrovata amicizia una mattina, durante la pausa tra due lezioni sul retro dell’edificio, brindando con due strisce sulle assi di una panchina.
“Non so per quanto andò avanti questa storia prima che mi scoprissero. Ricordo solo che non superavo un esame e che erano più le lezioni che non frequentavo di quelle a cui partecipavo strafatto. Le tirate sporadiche, così, diventarono vera e propria dipendenza, e non potendomi permettere i miei grammi quotidiani né certo di chiedere a mia madre dei soldi, mi rifornivo da lui, al solo prezzo di un paio d’ore del mio corpo.
“Poi, un giorno, quello che mi fu fatale ma per il quale stranamente avrei volentieri venduto l’anima affinché arrivasse il più presto possibile, arrivarono dei poliziotti in facoltà a seguito di alcune segnalazioni per la detenzione di sostante stupefacenti tra alcuni studenti.
“Ero prudente, non mi portavo mai la roba appresso, per questo quando me la trovarono in una delle tasche dello zaino mi crollò semplicemente il mondo addosso. L’ultima cosa che ricordo, del suo viso, è l’espressione svuotata di qualsiasi emozione, un Giuda che restò semplicemente a guardare mentre mi portavano via, il braccio appoggiato sulle spalle di una ragazza dell’ultimo anno che immaginai essere stata la sua amante mentre si vedeva con me. O forse ero io l’amante, la puttana drogata, il capro espiatorio da macchiare delle proprie nefandezze, quello che poi mi sarei sempre dimostrato essere.
“Fui espulso dall’università, ovviamente, e per intercessione di mio fratello, che intanto era tornato a Londra e si era laureato, mi fu evitata la prigione. Ero sempre stato un ragazzo intelligente, molto più della norma dei ragazzi della mia età, propenso all’osservazione, alle deduzioni, affascinato dalle applicazioni scientifiche nel campo della medicina legale.
“Questa allegra storiella insomma finisce con me che si quasi-disintossica e con Scotland Yard che mi assume prima come stagista e poi come consulente detective dell’ispettore Lestrade, senza stipendio, ma con tutte le garanzie che un ventenne genio senza speranze potrebbe meritare. La faccenda dei servizi segreti è top secret. The end.”
L’aurora lasciò velocemente spazio al chiarore di un cielo spruzzato di nuvole un po’ ovunque, sulle valli sconfinate, sulle montagne già innevate, giocando sui toni dell’verdazzurro, del grigio plumbeo e del cremisi, una tavolozza di colori stupendi che nelle grandi città è quasi impossibile ammirare ma che, in quel preciso istante a racconto concluso, mi stavo godendo come un proiettile in pieno petto.
Come psichiatra avrei fatto pena, odiavo la mia analista e non ero in grado di risolvere neanche i miei, di problemi, dunque quando aprii bocca non riuscii a fare altro se non rantolare un misero “mi dispiace” che probabilmente sentii solo io.
Fu come se qualcuno mi avesse preso per la gola ed avesse stretto, fortissimo, ma non abbastanza da uccidermi, facendomi assistere al lento ed indecoroso spettacolo dell’anima che muore lasciando il corpo in vita.
“Sei la prima persona in dieci anni a cui lo dico. Dovresti ritenerti… lusingato, come minimo” disse alzando di poco il tono, molto probabilmente per mascherare una quasi impercettibile incrinatura nella voce che si affrettò a camuffare con un breve colpo di tosse.
Mi umettai le labbra tre, quattro volte prima di riprovarci.
“Io… io non… non potevo…”
“Sapere? Certo che no. Tu sei stato il primo in tante cose, John. Nonostante tutto.”
Il primo. C’era stato qualcun altro prima del sottoscritto, ma nonostante questo mi riconosceva come primo?
“Mi è sembrato che… insomma, quando noi… la sera prima del matrimonio…”
“Il sesso, credimi, è tutt’altra cosa” m’interruppe, e lo ringraziai. Sarei stato incapace di proseguire, in effetti, di tornare sul discorso fisico, Dio, non dopo quello che mi aveva confidato.
“Sei stato il primo, John” ribadì in un mormorio, quasi più a se stesso che a me. “Mi hanno rovinato la vita, la salute, incrinato il modo di vedere e di vivere i sentimenti, e tu sei stato il primo a tendermi la mano, a restituirmi la vista…”
Si bloccò per un attimo, facendo incontrare nuovamente i nostri occhi ora così diversi, trasparenti ed incredibilmente veri, forse mai così tanto, e, tutt’a un tratto, quell’espressione vitrea fiorì nel più mesto e al tempo stesso sereno dei sorrisi che gli vidi mai sorgere sul viso, come il sole più caldo in un cielo pallido e troppo spesso tempestoso.
“Tu sei il mio conduttore di luce” disse infine in un mesto sussurro riportando lo sguardo sulla strada, mentre già io non ascoltavo quasi più, godendo soltanto di tutto quell’amore, lo stesso che diceva di non sapersi spiegare ma che, in quel momento, semplicemente ed inconsciamente lo stava invadendo in tutto il suo essere facendolo brillare come il più bello e vicino tra gli astri celesti, anche se non l’avrebbe mai ammesso, soprattutto a se stesso.
Fu quello, credo, il preciso istante in cui seppi che Sherlock Holmes mi amava. E non di quell’amore ingenuo, inerte, inconsapevole e finto. Di un amore tutto suo, forse troppo sfacciato, maldestro e deliziosamente spontaneo, svuotato di tutta l’ipocrisia e solo troppo stupido per accettare di essersi esposto troppo, arrivando al famigerato punto di non ritorno. Di un amore diverso, un po’ fisico, un po’ platonico, un po’ poetico, un po’ tanto scemo, ma un amore vero, quella razza di amore di cui avevo bisogno per sanare la mia moltitudine di sfregi.
Da ragazzo, non credevo che potessero esistere cose del genere, cose per cui la gente darebbe un braccio solo per… sentirsi così, anche solo per un minuto. Ma non è detto che qualcosa non esista solo perché ancora non si è palesata alla nostra attenzione, sempre troppo impegnata a cercare l’anima gemella quando invece dovremmo sapere aspettare, amando quando si è innamorati e non quando se ne sente semplicemente la necessità, come gli animali.
Fu quello dunque, credo, il preciso istante in cui seppi che ero innamorato di Sherlock Holmes, o che comunque ne ebbi la prova schiacciante. E non di quell’amore bisognoso, come temetti che fosse sempre stato tra noi, ma di un amore adorante e speciale e catartico, di quella specie d’amore che libera e guarisce e salva, senza chiedere nulla in cambio se non il leggero piacere di un bacio o di una carezza sotto il buio delle lenzuola.
Lucciole, eravamo, no? Vive della sola luce dell’altro nel nostro barattolo di astrusità che un po’ era quell’auto lussuosa, il mondo intero sfrecciante di fuori, i suoni attutiti, i colori amplificati e nient’altro al di fuori di noi.
Saremmo morte, noi lucciole, nello spegnersi di quella nostra luce al mattino quando la Terra si risveglia e si va sempre troppo di fretta per ricordarsi di aprire il coperchio e lasciarci uscire, libere.
“Ti amo. Lo sai questo, vero?” mormorai, allungandogli una mano dietro l’orecchio ed accarezzandoglielo in punta di polpastrelli.
Un sorriso e, Dio, si può arrivare a venerare qualcuno?
“E tu lo sai che siamo arrivati, vero?”
In tutto quel detto e non detto e finalmente detto e non del tutto detto, mi ero quasi completamente estraniato dallo spazio e dal tempo circostanti.
Mi resi così improvvisamente conto che, usciti dalla strada principale, ci eravamo addentrati in una specie di strada rurale inghiottita nel verde delle colline.
“Dove siamo?” chiesi quindi.
“Cantone di Berna, tecnicamente” rispose, tamburellandosi una tempia, gesto che probabilmente voleva indicare il GPS integrato del quale, secondo lui, avrei potuto fidarmi ciecamente senza sentire il bisogno di tormentarlo con ulteriori, boriose domande.
Parcheggiò l’auto in uno sprazzo ghiaioso senza curarsi se fosse il luogo più adatto dove lasciare un auto che, nel bel mezzo di un bosco, sicuramente non si mimetizzava con scoiattoli ed edera.
“Sherlock, sei…”
“Sì, John, sono sicuro. Goditi la natura.”
Detto questo, spense il motore e uscimmo dall’abitacolo. Una brezza leggera e fredda c’investì in pieno facendoci accapponare la pelle e, ovunque posassi lo sguardo, il verde smeraldo della vegetazione e il silenzio ventoso della foresta ci circondavano come una rassicurante coperta profumata di muschio. Se non fosse stato per mia moglie, avrei volentieri invitato Sherlock a un picnic sotto un albero, vicino al torrente di cui si sentiva distintamente il rumore impetuoso dei flutti più in basso. Almeno se fosse stato un tipo da picnic, Sherlock… e non da inseguimenti di psicopatici nel bel mezzo dell’Europa.
“E ora che si fa?”
“Mio fratello vuole che lo aspettiamo.”
“E dunque che facciamo?”
Un vago sorriso da ‘John, me lo stai davvero chiedendo?’ mi bastò come risposta per starmene definitivamente zitto e andargli semplicemente dietro, come sempre, affidandomi al suo infallibile fiuto per mettere nei guai se stesso e gli altri.
Camminammo per circa una mezz’ora, inerpicandoci per dei sentieri invasi dalla vegetazione ed immersi nella penombra, e sperai solamente che quel suo infallibile navigatore mentale fosse aggiornato perché oltre che a seguire il corso del fiume non mi pareva che rispettasse una qualche sorta di itinerario prestabilito, facendo basare il suo criptico senso dell’orientamento sullo sfioramento apparentemente illogico di rami spezzati e sassi che, a detta sua, non avrebbero dovuto stare dove stavano.
Qualche minuto e parecchie mie imprecazioni dopo aver superato un grosso albero dalle lunghe e floride fronde, tanto grandi da nascondere il ruscello che cominciava a farsi sempre più impetuoso, Sherlock inchiodò improvvisamente, annusando l’aria come un bracco e puntando verso una piccola cascata a circa cinquanta metri in linea d’aria dalla nostra postazione, sopra una roccia.
Il sole, ormai splendente ed alto in un cielo ceruleo, giocava nei suoi milioni di riflessi con la schiuma dell’acqua che, cadendo, scrosciava violenta esplodendo in tutto il suo fragore sui massi lucenti parecchie decine di metri più in basso, defluendo oltre la valle, giù, fino a scomparire dietro l’ennesima collina inghiottita dalla foresta.
“Ehm, è questa la cascata del tuo biglietto?”
“Sento puzza di domanda retorica, John…”
Mi limitai a sospirare, rassegnato al fatto che uno Sherlock nel bel mezzo di un caso e di una foresta, non propriamente il suo habitat naturale, fosse più psicologicamente instabile di una donna mestruata e che il sottoscritto si dovesse  astenere dall’aprire bocca, ad esclusione di casi eccezionali come imminente omicidio della mia persona, fine del mondo o Mycroft in costume da bagno a pois che sguazza nel ruscello in compagnia di una paperella di gomma.
Ci muovemmo facendoci strada tra gli alberi e stando attenti a dove mettevamo i piedi dato il terreno sdrucciolevole ed umido che caratterizzava la zona al di sotto della quale ci aspettava nient’altro che un piacevolissimo strapiombo sulle rocce.
C’era una grotta, sopra la cascata, piccola e buia, ma certo non abbastanza spaventevole per l’impavido detective e il molto rassegnato me che, certo, aveva combattuto una guerra, suturato nel deserto, e dunque cosa sarebbe mai stato qualche metro di caduta libera e barra o un più che probabile proiettile nel cranio?
“Silenzio!” tuonò ad un tratto il mio compagno, giunti all’imboccatura della spelonca.
“Non ho detto nulla, per Diana!”
“Stavo parlando alle tue ginocchia, John. Soffri di manie di egocentrismo?”
“Sherlock, stai facendo più casino tu che io con le mie ginocchia. E poi, se vogliamo dirla tutta, non sono propriamente io quello a soffrire di…”
Non arrivai a terminare la frase che ad un tratto mi sentii stritolare da dietro, un braccio corposo ed avvolto nella pelle di quello che doveva essere un giubbotto mi circondò la gola con la forza di un boa constrictor, e tutto quello che riuscii a fare fu guardare Sherlock impallidire e alzare le mani al cielo.
“Benvenuti, signori, alle cascate di Reichenbach” disse la voce pacata alle mie spalle, la stessa che avevo incontrato in quel vicolo la sera prima. “Cosa vi porta da queste parti?”
“Mettila giù, chiunque tu sia, e nessuno si farà del male” mormorò Sherlock con una bizzarra voce arrochita, spostando lo sguardo raggelato dalla mia faccia a quella del mio assalitore di cui potei avvertire contrarsi su una tempia il sorriso deforme.
“Oh, ma che maleducato sono. Non ci siamo neanche presentati, io e te. Forse John, qui, può rimediare a questo madornale errore.”
Per permettermi di parlare, spostò la canna della pistola, con la quale evidentemente teneva sottoscacco Sherlock, dietro la mia nuca, liberandomi così la gola.
“Tu… lo conosci?” chiese quest’ultimo, assottigliando gli occhi al mio indirizzo.
“Io…” sospirai, e non ebbi il coraggio di continuare a guardarlo in faccia. “Lui è Sebastian Moran. Noi ci siamo incontrati ieri sera, in città, e…”
“Oh,” m’interruppe il detective “il tuo amico dell’hashish.”
Sentii Sebastian irrigidirsi, la sua voce naturalmente calma incrinarsi.
“Come sai che…”
“Irrilevante. Dov’è lei?”
“Al sicuro. Per ora.”
“Se le avete torto anche solo un capello…” ringhiai io, tutt’a un tratto temerario e dimentico di avere una pistola puntata alla testa.
“Calma, capitano. Non è lei che lui vuole.”
L’ultima reazione che in quel preciso momento mi aspettavo di vedere materializzarsi sul volto di Sherlock era l’euforia.
Una risata inquietante uscì baritonale dai suoi polmoni che mi fece rabbrividire più del freddo metallo dell’arma dietro la nuca.
“Ecco il perché di tutta questa sceneggiata, allora” disse il mio complice, ancora ridendo. “Ecco il perché del far venire qui l’unica cosa che per me a questo mondo abbia un valore, renderla fragile… per colpire me.”
Ad un tratto, mi vennero in mente le parole d’avvertimento di Sebastian della notte prima.
Sapeva chi ero, qualcosa l’aveva spinto ad avvisarmi dell’imminente pericolo, della possibilità per me di salvarmi… Ma, come ben sa anche lui, le cose si salvano una alla volta e a coloro che tentano di fare gli eroi, vivendo in bilico di più di una cosa per la quale essere disposti a dare la propria stessa vita, spetta nient’altro che perdita.
Avevo fatto la mia scelta.
“E tu sei l’unica cosa che per lui abbia un valore, Sherlock Holmes” sussurrò il cecchino, non senza una punta d’amarezza. “E per ottenere le cose a cui teniamo più di ogni altra cosa al mondo, la gente oggigiorno è disposta a tutto. Tu gli devi tutto.”
“Come lui a me.”
“Allora consegnati e piantiamola qui.”
“Lo farei… se fosse vero. Che non appena sono nelle sue mani tu non premerai il grilletto.”
“Sempre così perspicace, non è vero sexy?”
Una voce, profonda come l’abisso in attesa alle nostre spalle e graffiante come quelle pareti di pietra, attirò la nostra attenzione nonostante Sherlock si fosse limitato a sorridere sotto i baffi senza la necessità di voltarsi per riconoscerne il proprietario.
“James. Sempre a bazzicare nell’illecito, non è vero?”
“Oh, ma mi conosci, bellezza” sogghignò l’uomo di tutto punto vestito, avvicinandosi.
Una mano si andò a posare da una tasca dei lussuosi pantaloni sotto il mento di Sherlock, che si scostò bruscamente. “Di certe cose non ne posso proprio fare a meno.”
“Se provi a toccarlo ancora, io giuro che…” ringhiai facendo un paio di passi in avanti, ma fui subito bloccato dalla canna della pistola dell’uomo alle mie spalle che me la premette forte sulla gola, cingendomi il torace con un braccio.
“Che cosa, dottor Watson? Mi tira addosso la cassetta del pronto soccorso? Oddio, sto tremando di paura!” mi schernì Moriarty, mimando una voce di donna. “Mi sembra ancora di sentire la sua adorata moglie gridare dallo spavento quando non voleva accettare il mio gentile passaggio. Non è proprio galante lasciare una bella donna come lei girare tutta sola, in lacrime, nel bel mezzo della notte. Ho dovuto farla sedare da quanto strillava.”
Mi sentii morire. O almeno fu per un attimo questo, il mio desiderio: che Sebastian premesse il grilletto e mi sollevasse da quell’atroce tormento, una volta per tutte, di sapere mia moglie in quella grotta umida, incosciente e sola, ignara di tutto, mentre suo marito non riusciva a fare altro se non tremare di paura e fare il leone quando non era altro che un misero animaletto spaurito messo in gabbia ad aspettare la morte.
“Sa, John,” continuò, venendo verso di me ghignando “lei è proprio patetico. E per giunta pretende di tenere i piedi in due scarpe. Oh, ma non mi guardi così… Offende la mia intelligenza e la sua, benché minima, se pensa di potermi mettere nel sacco. Vi ho capiti, voi due, sapete? Sexy non si sarebbe mai scomodato tanto per una donna che, contro ogni dubbio, è l’unico ostacolo tra se stesso e lei. Perché Sherlock ci tiene, a lei, vero? È sempre stato un po’ il suo difetto, in verità, tenere alle persone sbagliate, fidarsi. E si è sempre fatto… male.”
E ad un tratto, tutto mi fu improvvisamente, terribilmente cristallino.
“Tu. Tu sei quel figlio di puttana del college…”
Il nero pece dei suoi occhi, poco distanti dai miei, sembrò inghiottirmi da quanto li sbarrò.
“Ma ti ha raccontato di quella vecchia, vecchissima storia del college? Devi essere davvero molto, molto importante per lui, allora. Comunque non saltiamo a conclusioni affrettate perché io non l’ho sfiorato con un dito, il caro Sherlock. Quella è stata un semplice, stupida svista di quell’imbecille di Victor.”
“Victor?”
“Victor Trevor! Ero il suo pusher di fiducia, ai tempi dell’università. La facoltà di Chimica e quella di Medicina erano affiancate e lui era il mio unico appiglio per… ampliarmi. So che un giorno venne da me, con un sorriso che gli partiva da un orecchio e gli arrivava all’altro, dicendomi che aveva trovato un buon cliente, un ragazzino che tutti detestavano e che si era scopato l’ultimo dell’anno. Non era un cazzo di nessuno, Victor. Ero io quello che dava da mangiare al nostro animaletto, qui.”
“E dimmi,” intervenne Sherlock, come se stessimo parlando del risultato dell’ultima partita di football “dove è andato a finire quel povero diavolo?”
“Chi? Vic? Oh, credo in qualche buco di carcere, giù in Siberia. Ma non c’entro niente io, questa volta. O almeno, da quanto mi pare di ricordare. Ma bando al passato! Che si stava dicendo? Ah sì, del fatto che ora Sherlock si fa scopare da lei, dottore.”
“Sporco bastardo…”
“Stia calmo, John, perché non ci metto niente a farle saltare quella testolina da fedele cagnolino. Che direbbe Mary, l’amore della sua vita? Oh, ma che sbadato. Lei non la ama.”
“Io amo mia moglie.”
“Beh, allora la ama male. Avrebbe dovuto accogliere l’invito del signor Moran ad andarsene quando ancora era in tempo. Ma sa che le dico? Grazie. Grazie per avermi reso le cose più facili e soprattutto più divertenti, collega.”
Riuscii a malapena a cogliere il gesto minimo del capo del criminale prima che venissi spinto a terra in ginocchio ed avessi il tempo di trasalire per il click metallico della sicura dell’arma che veniva disinserita.
L’urlo agghiacciante lanciato da Sherlock risuonò come un allarme lungo l’intera vallata sotto i nostri piedi, e la sua eco tornò indietro frastornandomi. Credei, sperandoci in fondo anche un po’, che fosse l’ultimo suono che mi avrebbe accompagnato nella mia corsa giù nell’abisso.
“Ti amo, Sherlock” dissi solo, sottovoce, perché morire col suo nome sulle labbra mi pareva semplicemente la cosa più meravigliosa, l’unica e sola, che mi potesse capitare in quel momento.
Chiusi gli occhi, aspettando la sensazione che già avevo incontrato in battaglia, del proiettile che trapassa la carne, che sbriciola le ossa ed esce dalla parte opposta con un fischio, lasciando spazio per il defluire del sangue, e dell’anima insieme ad esso, al bianco del dolore accecante dietro agli occhi e sotto la pelle, finché tutto non si fa finalmente scuro e non si sente più nulla.
È un po’ come addormentarsi, infine.
“Sebastian! Che cazzo fai? Sparagli, adesso!”
La canna della pistola mi tremava addosso e col cervello ero già proiettato nella fossa.
“Io… io non…”
Non seppi cosa mi diede in quell’istante preciso la forza di non svenire. So solo, da quanto mi è dato ricordare, che il tutto avvenne in pochissimi istanti: sentii Moriarty inveire contro il complice, un rumore metallico, poi un tonfo secco, come di due corpi che si scontrano, uno sparo.
Riaprii gli occhi nell’esatto momento in cui, sul bordo del precipizio, il detective e il criminale erano uno riverso sull’altro, Moriarty con la giacca strappata su una spalla e una rivoltella fumante in mano, la stessa a cui era disperatamente appeso Sherlock,  l’espressione sofferente, con la camicia sotto al cappotto macchiata di sangue.
Sebastian stava singhiozzando. Molto probabilmente era nel pieno di una crisi in quanto mi guardava dall’alto al basso battendo i denti come un bambino, cianotico e sudato, il viso martoriato dalla guerra e disfatto dalla colpa, e tutto quello che riuscii a fare approfittando quel suo momento di buio fu rialzarmi e gettarmi sul corpo del mio amico, inerte a terra, mentre il suo antagonista lo spingeva sempre più verso il baratro.
Impegnato com’era nella distruzione della sua nemesi, non si accorse del mio destro che arrivò dritto a destinazione, facendolo caracollare insieme alla sua preda alla quale si teneva strettamente ancorato, come se ne andasse della sua stessa vita nonostante le circostanze.
“Sherlock!”
Lottai per qualche istante contro l’incredibile forza di quelle braccia furiose, in un disperato tira e molla che avrebbe segnato la sorte della mia vita e di quella di moltissime altre persone. Del mondo, forse.
“Se devo cadere, John, che lui cada con me!” gridò Moriarty rabbiosamente, una maschera d’orrore, attaccato con una mano a una sporgenza rocciosa bagnata e con l’altra al braccio del mio migliore amico, oramai quasi incosciente.
“Mai,” rantolai, puntandomi sui piedi “gli devo la mia vita. Non puoi portarmelo via. Non di nuovo.”
Rideva, rideva come uno psicopatico che ha perduto tutta l’antica umanità ed ogni cosa per cui lottare, se non quel piccolo ma significante dettaglio che inspiegabilmente ci univa nel filo rosso della necessità.
“Non può amarti, John!”
Erano due necessità diverse, le nostre.
“Tu non sai cos’è l’amore. Non l’hai mai provato,” e in quel momento, con la coda dell’occhio, intravidi Sebastian cadere in ginocchio, poco distante da dove eravamo noi, la pistola in grembo, il volto scarnificato dal supplizio mentre con gli occhi inondati di lacrime scuoteva la testa all’indirizzo dell’agghiacciante scena a cui stava assistendo. “E non ne hai mai concesso. Non saprai mai cos’è, sentirsi come mi sento quando sono con lui.”
Moriarty staccò il contatto visivo con me per allacciarlo a quello del suo compare, ormai piegato in un pianto disperato, immobile nell’erba e fragile come mai avrei pensato di vederlo, di vedere qualsiasi altra persona.
“Seb,” lo chiamò, la voce improvvisamente e innaturalmente dolciastra “cosa fai? Aiutami, Seb. Io…”
“Sta’ zitto!” tuonò il colonnello, ormai fuori controllo. “John ha ragione… Non c’è niente di particolarmente malvagio, in me. È che sei sempre stato tu la parte malvagia di me, in realtà…”
“Ma cosa stai dicendo?”
Percepii nella voce e negli occhi del malvagio la prima, fatale sfumatura di fallimento. Come se tutti i grandiosi piani, le congetture, le sfide e lo stesso destino gli fossero crollati addosso nel giro di quei cinque minuti scarsi in cui se la stava vedendo non più con uno, ma con ben due soldati di Sua Maestà, uno più incazzato dell’altro, se vogliamo dirla tutta, per motivi diversi ma entrambi paurosamente influenti per il suo futuro.
Ma che futuro può avere un uomo che gioca con la vita degli altri, che non conosce l’amore, che lo guarda in faccia e non sa fare altro se non chiedergli…
“Perché?”
Il colonnello lo fissò col suo sguardo verdastro, liquefatto dalla pena per se stesso e la compassione verso qualcuno che probabilmente gli aveva mentito fin dall’inizio. Poi guardò me, e lo sentii terribilmente vicino.
“In quel vicolo ti è bastato uno sguardo per sapere tutto di me, John, e anch’io lo credevo. Di sapere tutto della persona che mi salvò la vita, a Kabul, parandosi davanti e prendendo la pallottola per me. Già, ti ho portato io via da quel Tartaro, fino al campo medico per farti medicare, ma tu sei svenuto prima di potermi vedere in faccia. Col tempo ho dimenticato la tua ma non certo chi sei. Ora so a chi devo davvero ciò che sono.”
Gli occhi cominciarono a bruciarmi. Un po’ per i riflessi del sole che l’acqua scrosciante sotto di noi rendeva accecanti, un po’ per l’odore del sangue che mi tingeva le mani, un po’ per tutte quelle rivelazioni così importanti in un giorno solo, un po’ per la visione di un uomo ridotto alla stregua della cartapesta che baciò la sua Nikita prima di aprire le labbra e premere il grilletto… E seppi che nell’animo umano si combattono battaglie ben più feroci di quella a cui entrambi avevamo preso parte, perdendo entrambi qualcosa, io la testa, lui il cuore. Ma la testa, come si sa, a volte si può anche rimettere a posto, cancellando e rimuovendo qui e lì, ma quando al cuore si toglie un pezzo di sé, è difficile recuperarlo e molte volte la gente crede di poter sostituire il moncone con tristi surrogati in un puzzle di pezzi incongruenti che vivono nel loro incastro sbagliato, sformandosi, rompendosi, non riuscendo più a riunirsi con nessuno, neanche col proprio complementare se mai gli capita la disgrazia di incontrarlo.
Ci dovevamo entrambi qualcosa, io e il colonnello Moran, che forse aveva perso entrambi. La sola differenza tra me e lui, oltre alla carriera, sarebbe per sempre rimasta l’avere qualcosa per cui vivere e per cui sarebbe anche valso morire col sorriso sulle labbra e con la certezza di aver ricevuto tanto amore quanto ne avevamo dato.
Con uno strattone, sottrassi Sherlock dalla morsa di James Moriarty il quale, privato di ogni appiglio fisico e morale per continuare a combattere, si lasciò semplicemente andare alla voragine, sparendo in silenzio tra i cavalloni d’acqua e andandosi a schiantare sulle pietre con un botto quasi inudibile.
Il seguito di questa storia è vagamente immaginabile: Mycroft, puntuale come sempre, e Lestrade con mezza Scotland Yard al seguito arrivarono di corsa sguinzagliando il loro plotone di precauzione su un cadavere e su un moribondo mentre io, con quest’ultimo in un lago di sangue tra le braccia, prima che la vista mi si oscurasse del tutto feci in tempo a mormorare il nome di mia moglie.



Per la prima volta in vita mia, mi resi conto di quanto nauseabonde sono le pareti piastrellate di una camera d’ospedale. Voglio dire, come medico non dovrei farci caso. A quanto pare avevo sviluppato un’assuefazione per cose diverse, ultimamente.
“Sher… Sherlock. Dov’è Sherlock?”
Ma gli occhi che mi guardavano impassibili poco lontani dal letto in cui ero inchiodato, grandi e color nocciola, non erano quelli che cercavo. Nonostante tutto, si fecero trovare e, in un qualche modo che ancora non mi riesco a spiegare, mi sorrisero.
“John.”
La guancia destra di Mary era arrossata. Aveva inoltre un piccolo taglio sul mento e i capelli sporchi, raccolti disordinatamente in uno chignon improvvisato.
Nonostante tutto, nonostante tutto il resto, si è fatta sempre trovare.
La guardai e non seppi che dire. Chiederle perdono sarebbe stato decisamente inappropriato, chiederle di tornare oltremisura grottesco, perché conoscevo quello sguardo, fin troppo bene, perché senza il bisogno di architettare il famoso Discorso che prima o dopo avrei dovuto farle, riguardo a lui, aveva già capito tutto. Forse con un aiuto esterno – il candido sorriso di Mycroft alle sue spalle me ne faceva sospettare – forse no. Ma il risultato non cambiava.
Le allungai una mano sul viso, pallido come il muro alle sue spalle, ed altrettanto duro, di ceramica incrinata.
Dio, quanto le volevo bene…
“Io…”
“No, John” intervenne, scostandosi lentamente da me. “Non voglio le tue scuse, non… voglio niente. Sono solo contenta che questa brutta storia sia finita e che entrambi ne siamo usciti incolumi. O quasi.”
Si alzò dalla sedia e, avviandosi verso la porta, si voltò un’ultima volta verso di me sorridendomi malinconica.
Non poteva essere più forte di così.
“Ti voglio bene, lo sai questo, no? Te ne vorrò sempre tanto. Hai il mio numero” ed uscì, silenziosamente, portandosi dietro tutta la sua amarezza.
L’avrei rivista a Londra, qualche settimana dopo, per firmare le carte che ci avrebbero reso la nostra libertà e a me la possibilità di evadere dalle mie menzogne e, conseguentemente, dalla mia analista.
Sherlock fu operato d’urgenza per l’estrazione del proiettile di Moriarty che, ancora qualche paio di centimetri più in basso, gli avrebbe preso in pieno il cuore.
Non ero spaventato. Sapevo che quel cuore era mio e che niente e nessuno avrebbe avuto il diritto di deciderne il destino.
L’operazione andò bene. La sanità svizzera e i soldi del governo inglese fecero il proprio lavoro e lo dimisero quasi subito.
Nessuna parola o dichiarazione speciale. Solo un diretto per l’Inghilterra e niente più che un grazie.
“Mi viene il vomito se penso al fatto che altri dottori a parte te mi hanno toccato” mi disse in una smorfia contrariata all’indirizzo del braccio sinistro piegato sul petto con un tutore.
Risi a denti stretti sfogliando svogliatamente una rivista, e non mi servì sentire l’odore polveroso delle poltroncine di Heathrow per sentirmi a casa. 




















Author's Corner:

*si asciuga il sudore dalla fronte e successivamente le lacrime dagli occhi*
Caro fan, sì, proprio tu che hai seguito questa storia dall'inizio alla fine, a te rivolgo questo immenso GRAZIE.
Questo dovrebbe essere l'ultimo capitolo di questa mia prima long che posso comparare minimizzando a un parto plurigemellare con cesareo e con più di un mese di travaglio.
Il bimbo non mi dispiace. Ha gli occhi di Sherlock, il coraggio di John e la bellezza di Anderson. Nel senso che sarebbe potuto venire mooolto meglio ma sono comunque fiera della mia creatura =) Chiedo immenso perdono per tutte le vittime che ho mietuto: Mary in primis, Seb in secundis.
A questo capitolo 15esimo seguirà un mini epilogo che aggiornerò in settimana, giusto una finestra senza senso, la ciliegina su questa torta storta peggio di quella del sedicesimo compleanno di Aurora fatta dalle fatine...
Bene, sono ufficialmente fusa.
Mi scuso per la lunga, eterna attesa ma in preparazione agli esami di maggio e giugno la mia ispirazione e voglia di vivere sono crollate a livelli meno infinitesimali.
Grazie ancora a tutti coloro che hanno seguito e recensito, per il loro supporto e affetto, per i consigli, le critiche, gli apprezzamenti. Vi abbraccio tutti virtualmente *si commuove*
Alla prossima,

miss potter
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