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Autore: Midori Haruka    23/06/2013    0 recensioni
[ AU → Ospedale psichiatrico.
BelaUk → Male!BelarusXEngland; SergeyXArthur. ]
| Beta: Fritjof_ |
Bestia. 
Effettivamente lo sguardo che il bielorusso gettò all’alto uomo stempiato non era definibile umano.
I capelli chiari si appiccicavano al volto lercio di terra mentre sul petto nudo scorrevano gocce d’acqua tra le evidenti costole, andando ad infradiciare l’unico cencio che gli avevano lasciato indossare. Anche il viso era diventato scavato in meno di una settimana trascorsa rinchiuso là dentro; l’unica cosa rimasta invariata era il suo sguardo. Le glaciali iridi chiare, di una insolita sfumatura violacea, erano aggressive; nel complesso Sergey somigliava a un lupo selvatico posto nelle difficoltà dell’inverno in cerca di un singolo brandello di carne da sbranare.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Crack Pairing | Personaggi: Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Gender Bender, Violenza
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Sedeva in un piccolo, sporco e angusto angolo, ad ogni respiro l’olezzo di quell’ambiente gli entrava nei polmoni, quasi a volergli rubare anche l’ossigeno; la speranza moriva ad ogni secondo, ogni minuto, ogni ora trascorsa in quel luogo. Lamenti sconosciuti gli lambivano le orecchie in una litania continua, interrotti soltanto da qualche urlo e gorgoglio sconnesso. Il cigolio della porta giunse solo come un suono più spiacevole degli altri, accompagnato dalla voce roca e raschiante del medico.
 
« Svegliati, bestia. »
 
Nemmeno il tempo di aprire gli occhi chiari per abituarli alla luce riflessa dalle pareti bianche che una secchiata d’acqua gelida lo travolse, svegliandolo dagli ultimi postumi del  dormiveglia.
 
Bestia.
 
Effettivamente lo sguardo che il bielorusso gettò all’alto uomo stempiato non era definibile umano.
I capelli chiari si appiccicavano al volto lercio di terra mentre sul petto nudo scorrevano gocce d’acqua tra le evidenti costole, andando ad infradiciare l’unico cencio che gli avevano lasciato indossare. Anche il viso era diventato scavato in meno di una settimana trascorsa rinchiuso là dentro; l’unica cosa rimasta invariata era il suo sguardo. Le glaciali iridi chiare, di una insolita sfumatura violacea, erano aggressive; nel complesso Sergey somigliava a un lupo selvatico posto nelle difficoltà dell’inverno in cerca di un singolo brandello di carne da sbranare. Aveva già assalito due medici, nella speranza di fuggire,  di poter rivedere lui. Invece, nonostante il livido giallo che i denti di Sergey avevano lasciato sul suo braccio, quel medico si ostinava a tornare  in solitudine, visto il desiderio degli altri infermieri di lasciar morire il paziente problematico in quel buco.
Alla prima ribellione il bielorusso se l’era cavata con un semplice digiuno. Il pensiero del secondo castigo lo faceva sudare freddo: quel giorno aveva urlato di dolore.
Un tocco di pane gli venne gettato contro, rimbalzando e finendo tra i liquidi che inzaccheravano il pavimento: Sergey tese la mano e lo colse, iniziando a sbocconcellarlo appena e a portare piccoli pezzi alle labbra. Sapeva di muffa ed era duro, ma per sopravvivere il ragazzo si sarebbe cibato anche di quello schifo.
Gli occhi del medico lo osservavano, due disgustosi buchi neri lo stavano studiando: scrutavano minuziosamente ogni centimetro della sua pelle, e si soffermavano fin troppe volte sulle sfumature delle sue iridi.
 
« … --breve … domani al massimo saranno miei... »
 
Un bisbiglio, una frase persa a metà venne sputata da quelle labbra schifosamente sorridenti e i suoi occhi neri saettarono lontani dal viso del paziente, mentre l’uomo con il camice si richiudeva la porta metallica alle spalle.
Quegli occhi, quello sguardo; il bielorusso non sarebbe mai stato in grado di dimenticarlo.
Il giovane si sedette nuovamente sul pavimento freddo, il pane stretto tra le mani e le palpebre a celare la visione monotona di quel luogo.
Non si sarebbe lasciato rinchiudere in un manicomio per tutta la vita, doveva trovare una via di fuga, doveva andarsene; più per lui che per se stesso. Lui— lo stesso che non era riuscito a salutare, a baciare, a stringere; lui— lo stesso motivo per cui era stato rinchiuso in quel folle luogo e la stessa ragione che lo spingeva a lottare. Gli mancavano gli occhi verde prato, le sottili labbra color rosa, il calore del corpo snello che premeva contro il proprio.
 
Ah, Amore è malattia.
 
Era lui la causa per cui era stato mandato in quel luogo dal fetore d’urina, perché aveva amato qualcuno che pareva comprenderlo.
Sergey digrignò i denti, sentendo dal profondo montare un’oscura rabbia per la propria condizione; nello stesso momento la porta tornò a cigolare con meno decisione ed il bielorusso scattò in piedi, non resistendo alla tentazione di sfogare sul suo aguzzino la propria rabbia. Dietro mano dello slavo la porta si spalancò con violenza e rapidità rivelando così non un medico pazzo, bensì un fine ragazzo dai capelli biondi e gli occhi smeraldini.
 
« … sapevo che eri qui. Ho sentito i medici parlare di te »
 
Non gli lasciò nemmeno concludere la frase, non gli importavano le parole dei medici: lui era lì, ora tra le sue braccia. Ma nel posto sbagliato.
 
« Arthur... Cosa ci fai qui dentro? Devi … Devi fuggire. »
 
L’inglese frappose una mano nel loro abbraccio, allontanando leggermente l’amato e guardandolo negli occhi.
 
« Sono venuto a prenderti; dobbiamo muoverci in fretta. »
 
Un sorriso frettoloso apparve sulle sue labbra spaccate e a Sergey venne voglia di catturarlo in un bacio, ma non avevano tempo, dovevano andarsene da quel luogo al più presto.
La mano di Arthur che si era posata leggera sul suo petto scivolò frettolosa a raggiungere quella del compagno. Sergey la strinse: era gelida e sudata.
 
Paura.
 
Un’infima e subdola emozione che pretendeva il predominio assoluto sulla mente dell’uomo; tuttavia né Sergey né Arthur avevano intenzione di lasciarsi sopraffare da quella e dalla voglia che avevano l’uno dell’altro: l’avrebbero potuta soddisfare al meglio una volta fuori dal manicomio.
La mano salda nella sua, e il bielorusso avanzò di un passo. Abbandonò la propria cella e s’inoltrò in un corridoio umido e scuro, senza la minima traccia di un inserviente o simili.
Dovevano fuggire e dovevano farlo in fretta. Sergey sospettava cosa sarebbe toccato ad entrambi se li avessero scoperti e non era nulla di piacevole.
Scivolò  lungo la parete fredda e piastrellata, appiattendosi contro di essa; tirò il compagno con sé  non appena avvertì dei passi frettolosi sul cemento del pavimento, mentre dalle labbra lacerate sfuggì una mezza imprecazione quando un infermiere gli piombò davanti.
L’occhiata che gli rivolse fu lo sguardo di una persona persa, sorpresa di aver appena incontrato una bestia sul suo cammino; la bestia reagì nell’immediato e con un colpo secco tramortì il sorpreso carnefice.
La mano colpevole di quel misfatto tornò a cercare la compagna, ma non trovò altro che la fredda e gelida superficie del muro.
 
« … Arthur? »
 
La stessa sensazione di freddo e gelo gli raggiunse il cuore, quando gli occhi gli fecero presente la situazione che si era creata alle sue spalle.
I due pozzi neri, gli occhi del proprio psichiatra lo stavano guardando, emozionati, come un bambino che ha appena trovato un inaspettato e piacevole dono vagando per casa.
 
« Oh la la. Belva non è stato carino da parte tua tacermi di questo piccolo smeraldo. »
 
Lui era catturato nella presa di quel demonio. Il braccio di quell’essere serrato attorno a collo a sottrargli il respiro, e la paura era apparsa a prender pieno possesso delle sue iridi verdi.
 
« È ora di tornare indietro … e suppongo ci toccherà anticipare i tempi—… »
 
Le labbra dell’aguzzino s’arcuarono in un sorriso distorto: non stava aspettando altro.
Un gesto repentino di Arthur portò il suo gomito a conficcarsi nello stomaco del carnefice, liberandolo così dalla presa soffocante; Sergey si sporse verso di lui, doveva prenderlo, doveva allontanarlo da quell’uomo, esploso in un’imprecazione seguita da un borbottio che pareva essere una bestemmia. Quattro forti braccia afferrarono il bielorusso per le spalle tirandolo indietro, serrandolo in una presa maggiore rispetto alla già vigorosa morsa di una camicia di forza. Il medico sorrise alle sue vittime, attirando a sé l’inglese per i capelli; colpì con una mano il viso chiaro, stringendo con forza il braccio attorno al suo collo.
Una lama sottile luccicò sotto le luci artificiali del corridoio avvicinandosi repentina agli smeraldi di Arthur.
 
« Imparerete a stare al vostro posto... »
 
Si mise a ridere, mentre lo faceva.
Incise con una lentezza innaturale la pelle sotto l’occhio, affondando con forza nelle sue carni. Il sangue iniziò a scivolare lento sulla guancia scarna dell’amato, rosso vivo correva a tingere il suo pallore, mentre Sergey cercava disperatamente di liberarsi dalla presa dei due infermieri, inutilmente. Con un gesto improvviso una siringa venne conficcata all’altezza del collo nella pelle bielorussa, senza la minima delicatezza. Un tranquillante dato ad ammansire la belva.
 
« A-ARTHUR— »
 
L’iride verdastra abbandonò il viso del proprietario, stanziandosi nella mano dell’aguzzino ridente.
Gli ultimi suoni che raggiunsero Sergey non furono altro che urla di dolore, mentre la figura del biondo sfocava pian piano davanti ai suoi occhi.
 
 —————
 
Si risvegliò dall’oblio troppo presto,quando per lui sarebbe stato meglio perpetrare l’incoscienza nel limbo all’infinito.
Nuovamente le pareti bianche ed il fetore di quel luogo lo accolsero, un odore che gli sarebbe rimasto dentro per sempre.  Il sudore gli impregnava la fronte, la mente, stanca, era fin troppo memore dell’incubo vissuto. Tuttavia come poteva non sperare che tutto ciò non fosse altro che un misero sogno?
Le catene strette attorno ai polsi stridettero quando Sergey tentò di sollevarsi dalla pavimentazione bagnata: la prima volta le braccia non ressero il suo misero peso e il ragazzo si ritrovò ad osservare il soffitto con il fiato mozzato per lo sforzo. Passarono diversi minuti, racimolò le forze e appoggiò la spalla nuda contro la dura parete, mentre le iridi violacee vagavano spaesate per la stanza. Ben presto si scontrarono con una sottile figura, supina, che gli dava le spalle senza emettere il minimo suono.  Non un lamento, nemmeno il suono stesso del suo respiro.
Un violento brivido scosse il bielorusso quando in quella sagoma sul pavimento riconobbe lui; le braccia stanche si tesero fino allo spasmo, afferrarono i suoi fianchi e con un semplice gesto cercarono di voltarlo per intravederne il caro e amato viso. Le mani si strinsero sulla sua carne ormai fredda, senza più il minimo sentore di vita, e due rosse orbite infossate furono l’unica cosa che ricambiò lo sguardo dolente del bielorusso.
Paura, disperazione e orrore rimasero le uniche compagne nell’animo del ragazzo, speranza e amore lo abbandonarono con tutte le sue lacrime, e pian piano Sergey divenne sempre più simile a una folle e rabbiosa bestia.
Le sue labbra chiamarono il nome di colui che non poteva più sentirlo, chinandosi a premere contro le sue in cerca di piccolo respiro; mentre i suoi occhi piangevano colui che non poteva più vederlo.
Mai più.
 
 ——————
 


13.01.1993
“Concludo qui queste mie memorie, ironicamente nella stessa data in cui il mio mondo andò in frantumi. Con tutto questo desidero soltanto che si abbia ricordo degli orrori perpetrati all’interno di quelle mura, che si abbia rispetto per i pazienti morti tra le mani degli aguzzini spietati; dei carnefici il corpo è posto dentro una bara, ma delle vittime è già tanto avere il nome inciso sulla lastra di marmo posta all’entrata dell’inferno.
Di Arthur non sono rimaste nemmeno le lettere del nome. Apparentemente lui è diventato una mia idea, un mio sogno; eppure per me posare i fiori sopra l’ossario comune non è mai stato sufficiente.”
Sergey Arlovskij

  
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