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Autore: EvgeniaPsyche Rox    24/06/2013    7 recensioni
Roxas, un bambino di sette anni, fa conoscenza con Axel, il quale però si scopre presto essere un individuo ''particolare'' che si diverte utilizzando metodi strani...
-

«Senti, devi farmi un favore.»
«Quale?»
«Non devi dire a nessuno di questa cosa.»
Genere: Angst, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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Paradise's cemetery.


1. Entrance.


Si nasce,
talvolta,
si nasce,
come tutti,
ma talvolta,
si nasce
con la cattiveria
insediata nelle ossa.



E ti rode l'anima,
talvolta,
il fegato,
le interiora;
morirai,
se non la manifesti come si deve.



Ti vuoi troppo bene,
per lasciarti morire
troppo
troppo
bene.



Preferisci far morire gli altri
che te stesso.



Si nasce,
talvolta,
con la preferenza verso la pioggia.



Si nasce,
talvolta,
che quando mamma ti dice:
«Guarda, forse uscirà l'arcobaleno».
Tu rispondi:
«No, che schifo, voglio solo la pioggia, il sole non deve mettersi in mezzo.»




 

Meno male che mia madre sente sempre il profumo della pioggia in tempo.
Meno male.
Meno male, perché altrimenti ora sarei tutto bagnato.
La mia scuola non è molto lontana da casa quindi il tragitto lo faccio da solo a piedi.
La pioggia non mi piace però la cosa bella è che posso far vedere ai miei compagni il mio ombrello, che è il più speciale di tutti.
E' azzurro con i pallini bianchi. Mia madre l'ha comprato perché ha detto che è azzurro come il cielo, mentre i pallini bianchi sono le nuvole.
Ho il cielo nell'ombrello.
Ho compiuto sette anni qualche settimana fa e questo è stato il regalo più bello.
La pioggia inizia a peggiorare, ma per fortuna non manca molto; devo soltanto attraversare la strada e girare a sinistra. Allora vedrò la prima casa, poi la seconda, che è la mia. Casa mia è una piccola villetta bianca con il tetto rosso.
Mia madre dice che qualche volta sono sbadato e forse ha davvero ragione, perché ad un certo punto sento le mie scarpe da ginnastica inzupparsi tutte; allora abbasso gli occhi e noto che sono finito in una pozzanghera.
Anche le calze si stanno bagnando e penso che tanto ormai la situazione non può peggiorare: mia madre mi sgriderà comunque, quindi decido di approfittarne per giocare a saltare da una pozzanghera all'altra.
«Un salto, due salti, tre salti», conto ad alta voce e mi invento una canzone, come faccio sempre quando mi diverto. «quattro, cinque, sei, sei un campione!». Durante l'ultimo salto sbatto con forza i piedi sulla pozzanghera e ridacchio un po' perché è una cosa davvero divertente sentire il rumore dell'acqua sotto le mie scarpe. E' appiccicosa e un po' viscida, però non mi da tanto fastidio.
Poi alzo gli occhi e vedo un altro bambino a qualche metro di distanza. E' vicino ad un palo, sul ciglio della strada, e mi sta fissando.
Non mi piacciono le persone che mi fissano. E' come quando cerco di attaccare una scheda di matematica sul quaderno e mi rimangono i pezzetti di colla sulla mano. E' davvero fastidioso perché poi devo per forza andare in bagno a sciacquarmi le dita, se no non se ne va via. E devo interrompere la spiegazione della maestra e perdere un pezzo di lezione, per colpa della colla.
Le persone che mi fissano sono appiccicose come la colla.
«Perché mi guardi?»
«Sei tu che guardi me». Lui rimane lì, vicino al palo nero, e continua a fissarmi, mentre parla.
«Non è vero.»
«E invece sì. Vedi, mi fissi.»
«Io ti ho guardato perché tu guardavi me.»
«Ma se sai che ti fisso vuol dire che mi hai guardato anche tu». Parla in modo troppo veloce e fatico a stare dietro quella frase, infatti non l'ho capita molto. Allora sto zitto e mi avvicino al palo, non per chiedergli di ripetere perché non mi interessa, ma soltanto perché lì ci sono le strisce e devo attraversare la strada se voglio tornare a casa prima di bagnarmi anche i vestiti.
Il semaforo è rosso e quindi sono obbligato ad aspettare perché se passo con il rosso le macchine potrebbero investirmi.
Allora ne approfitto per guardare ancora il bambino accanto al palo e noto che è tutto bagnato. «Non hai l'ombrello?»
Lui scuote la testa e sembra un po' triste. Forse sua madre non sente l'odore della pioggia come la mia. Mi dispiace per lui. «Io sì.»
«Ho visto. Hai un ombrello bellissimo».
Non mi sta più così antipatico. Magari mi fissava perché ha visto che ho l'ombrello più bello del mondo.
«Grazie.»
«Prego. L'azzurro e il bianco sono dei bellissimi colori.»
Stringo il manico del mio ombrello e mi sento felice per tutti quei complimenti. «Sì, bellissimi! Perché sono i colori del cielo.»
«Ah, sìsì», dice lui e sorride. «E' proprio quello che ti stavo per dire io.»
«Veramente?»
«Sì.»
Sono felice perché voleva dire quel che ho detto io. «Se vuoi puoi stare sotto il mio ombrello.», quando glielo dico lui mi raggiunge subito e sorride ancora di più, sembra felice, proprio come lo sono io.
«Posso tenerlo?». Mi chiede e indica l'ombrello.
Non so che cosa rispondere perché ci tengo molto e ho paura che lo possa rompere. Rimango in silenzio per qualche secondo, indeciso. Se gli dico di no potrei sembrare maleducato e lui è stato gentile a farmi tutti quei complimenti.
«Dai, veloce che è verde!», mi prende l'ombrello dalle mani e inizia a camminare lungo le strisce.
Sto per arrabbiarmi, ma cerco di restare calmo. Lo seguo passo per passo, prima veloce, poi vedo che rallenta.
E' più alto di me e ha i capelli rossi. Sono strani perché li ha sparati in aria, proprio come nei personaggi dei cartoni animati che guardo la mattina.
Ha una giacca verde e i pantaloni sono...
Non lo so di che colore sono. Non lo so perché non ci faccio più caso. Non ci faccio più caso perché lui si volta verso di me e fa scivolare per sbaglio l'ombrello che finisce sulla strada bagnata.
C'è un po' di vento. Stupido vento. «No! Prendilo, prendilo, ti prego!», urlo forte e intanto corro, ma il vento continua a spostare l'ombrello, sempre più in là, verso destra, lontano dalle strisce.
«Prendilo!». Vedo il bambino dai capelli rossi camminare velocemente; allunga la mano, veloce, ma non tanto, non è tanto veloce, né mentre cammina né mentre allunga la mano, e cerca di prendere l'ombrello, ma quello corre via, a destra, per colpa del vento.
«Nooo! Il mio ombrello!», urlo più forte e allora corro, intanto il bambino si ferma e indietreggia, poi si volta e raggiunge velocemente -Questa volta veloce per davvero- il marciapiede.
Dopo si ferma di nuovo. Resta lì, in piedi sul marciapiede, e sembra aspettare qualcosa.
L'ombrello continua a rotolare via e intanto sento gli occhi pungere, poi singhiozzo e piango, perché ho paura che il mio ombrello si rompa.
Di sicuro era l'ultimo ombrello del negozio. L'ultimo ombrello-cielo del negozio, se si rompe addio per sempre.
Mia madre dice che qualche volta sono sbadato e so che ha ragione perché scivolo sull'asfalto bagnato e cado in avanti. Sbatto le ginocchia su un tombino e vorrei piangere più forte, ma non lo faccio perché il vento ha smesso di soffiare e l'ombrello è lì, proprio davanti a me.
Allora lo prendo per il manico e mi sento meglio perché so che è salvo tra le mie mani.
L'ombrello è salvo e vorrei girarmi per gridarlo al bambino, ma non lo faccio perché vedo una macchina che sfreccia proprio davanti a me.
Come corre, la macchina! Corre veloce quanto il mio cuore.
Vorrei alzarmi e scappare, ma non ci riesco perché me ne sono accorto troppo tardi e perché c'è ancora la felicità nell'aver preso il mio ombrello-cielo.
Non ci riesco perché mi fanno male le ginocchia, sono ancora sul tombino, quando mi accorgo che forse sto per morire.
Forse.
No.
Mia madre dice che Dio manda gli angeli sulla Terrra per proteggerci sempre, anche di notte, mentre dormiamo. E so che ha ragione perché la macchina si ferma di colpo, proprio davanti al mio ombrello. L'uomo suona il clacson una, due, tre volte e urla qualcosa, ma non lo sento perché ci sono i finestrini chiusi.
Poi sento il suono di un altro clacson, ma più lontano, e capisco che c'è un'altra macchina dietro che vuole passare.
Piango e gattono verso il marciapiede. Cerco di appoggiare le mani sull'asfalto senza lasciare la presa sul mio ombrello-cielo. Mi bruciano le ginocchia, e quanto sangue, tantissimo sangue che cola via dalle mie ginocchia, lo sento perché è fresco e si appiccica sull'asfalto come la colla.
Gattono come i neonati e vorrei smettere di piangere perché mio padre dice che piangere è roba da bambini capricciosi, ma non ci riesco.
Raggiungo il marciapiede, la salvezza, sono salvo anch'io come l'ombrello, e sento le macchine sfrecciare subito. Sono tutti di fretta, si vede, e anche le mie lacrime hanno fretta di scendere.
Non c'è nessuno sul marciapiede e i negozi sono chiusi. Lo so perché ci sono le sbarre. Come le sbarre della prigione.
Continuo a piangere e mi bruciano le ginocchia da morire. Ho paura di alzarmi, ho paura di vedere come sono ridotte le mie ginocchia. Una ferita si deve curare subito, io non ci sono riuscito. Le mie ginocchia adesso saranno piene di pezzi di asfalto e di pioggia.
Che schifo.
Piango più forte, quando vedo una mano tesa davanti a me. Alzo la testa e vedo gli occhi verdi del bambino dai capelli rossi. Mi guarda e ha la stessa espressione che ha mia madre quando mi vede cadere dalla bicicletta.
E' preoccupato.
Gli prendo la mano, senza smettere di piangere però, poi parlo tra i singhiozzi: «Le ginocchia! LE GINOCCHIA MI FANNO MALE DA MORIRE!»
Mi fanno male da morire e non sto scherzando. E' la frase giusta, anche perché stavo per morire.
Lui si piega e mette una mano sul mio ginocchio sinistro. Io allora urlo e gli spingo via la mano, piangendo, perché mi brucia tantissimo, e lui come risposta mi tira uno schiaffo sulla gamba, proprio sotto il ginocchio, sotto la ferita brutta e schifosa che io non ho ancora guardato perché ho paura. «Non fare il moccioso, smettila di frignare. E' solo un taglietto. Passa subito.»
«E' colpa tua che hai lasciato il mio ombrello!», singhiozzo e cerco di avere un tono arrabbiato, ma non ci riesco perché la voce esce male, quasi storta, per colpa del pianto.
«Non l'ho fatto mica apposta. Ho anche cercato di prenderlo! Volevo raggiungerlo, ma il semaforo è diventato rosso. Te l'ho anche detto.», mentre parla mi guarda e continua ad avere la stessa faccia di mia madre. Ha la faccia preoccupata e un po' mi spiace.
Intanto mi asciugo gli occhi perché voglio smettere di piangere: non sono mica un moccioso! «No, non me l'hai detto.»
«Sì invece. L'ho urlato. E' colpa tua che non mi hai sentito.»
«Veramente?»
«Certo. Stavo anche per venire a prenderti. Volevo salvarti.»
«Grazie.»
«Prego. E scusami se ho lasciato il tuo ombrello.», poi mi sorride, come quando gli ho chiesto se voleva stare con me sotto l'ombrello.
«Fa niente.», gli dico e poi faccio un passo, tanto per vedere se riesco a camminare con queste brutte ginocchia, quando il bambino dai capelli rossi mi ferma prendendomi con forza una spalla. Poi mi fa girare velocemente e continua a sorridere, però questa volta non ha il sorriso preoccupato di mia madre. «Senti, devi farmi un favore.»
«Quale?»
«Non devi dire a nessuno di questa cosa.»
Mi scappa un altro singhiozzo e non riesco a soffocarlo in gola. «Che cosa?»
Lui sbuffa. «Che ti stavano per mettere sotto, no?»
Io non rispondo, rimango in silenzio. Il bambino dai capelli rossi allora sembra innervosirsi e continua a parlare: «Del semaforo rosso e di tutta 'sta storia lì! Non devi dirlo a nessuno, hai capito?!»
«Perché?»
«Perché adesso siamo amici e gli amici si fanno i favori.»
«Ma le bugie hanno le gambe corte. E ti fanno crescere il naso, come succede a Pinocchio.»
«Ma chi fa la spia non è figlio di Maria, né figlio di Gesù.», poi sorride, sembra contento e capisco che ha ragione.
Allora lui abbassa gli occhi verso le mie ginocchia e il suo volto sembra scuro; si fa più serio e torna a guardarmi. «Tu sei scivolato su una pozzanghera perché stavi giocando.»
«Ma non è vero!»
«Sì invece. Stavi giocando.»
«Sì, ma...»
«E' andata così. Devi dire ai tuoi genitori che ti sei fatto male su una pozzanghera, capito?»
Non voglio fare la spia. Non voglio che Gesù e Maria mi odino, quindi annuisco. «Va bene.»
«Ti accompagno a casa, così non rischi di scivolare su un'altra pozzanghera.», poi mi prende di nuovo l'ombrello tra le mani e lo tiene in alto, anche se ormai non serve molto perché siamo bagnati tutti e due.
Bagnati come dei pulcini, così dice mia madre. Lui però non sembra un pulcino, con quei capelli rossi.
Durante il tragitto rimaniamo zitti, anche se qualche volta lui dice cose come ''Ho le scarpe bagnatissime'' o ''I miei capelli adesso sembrano un minestrone''.
Non appena giriamo a sinistra vedo qualcuno correre verso di noi.
«Mamma!», urlo e mi allontano dal bambino dai capelli rossi per raggiungerla il più velocemente possibile. Ha ancora i pantaloni del suo pigiama preferito e sopra si è messa una giacca. Non ha nemmeno l'ombrello.
Lei mi abbraccia forte e mi stringe al suo petto. Quando fa così vuol dire che è molto molto preoccupata.
Quando è molto molto preoccupata prima è triste, poi dolce, e dopo ancora si arrabbia con me.
«Perché ci hai messo così tanto a tornare, Roxas?!», mi chiede lei e già sento dal suo tono di voce che si sta arrabbiando.
Non so che cosa dire e quindi rimango zitto. Non voglio fare la spia, il bambino dai capelli rossi ha detto che gli amici si fanno i favori.
Però ho paura. Sento il bisogno di parlare, di piangere e di dire tutto.
Poi mia madre mi allontana un po' e vede le mie ginocchia. «Oh Signore, ma Roxas che cosa ti è successo?!»
Non so di nuovo come rispondere. Lei allora alza gli occhi e sta per chiedermi di nuovo qualcosa, quando il bambino dai capelli rossi ci raggiunge. Sorride un po', un sorriso dolce, e poi mi porge l'ombrello-cielo.
Lo prendo e poi lo sento dire a mia madre: «Salve, io sono Axel. Ho visto suo figlio scivolare su una pozzanghera e allora l'ho aiutato. Poverino, si è fatto molto male.»
Mia madre lo guarda con attenzione dall'alto verso il basso, poi dal basso verso l'alto. «Quanti anni hai?»
«Dieci.»
Mia madre sorride. «Sei stato molto gentile Axel, davvero. Ti ringrazio di cuore.» 
«E' stato un piacere per me aiutarlo.», risponde lui, poi si guarda attorno, come se fosse alla ricerca di qualcosa. Intanto mia madre continua: «Ma sei da solo?»
Lui annuisce. «Sì, ma casa mia non è lontana da qui.»
«Tua madre si starà preoccupando.»
Lui annuisce un'altra volta, ma non se ne va. Continua a spostare la testa da una parte all'altra, proprio come fanno quelli che giocano a nascondino quando devono trovare gli altri.
«Noi abitiamo lì», parla ancora mia madre e indica la nostra villetta bianca. «Puoi venire a trovarci quando vuoi.»
Allora lui smette di spostare gli occhi e sorride. «Grazie, tanto adesso io e Roxas siamo amici. Vero?», mi guarda e io annuisco.
«Bene», mia madre mi prende per mano e si volta. «E' meglio che adesso torniamo tutti a casa se non vogliamo prenderci un raffreddore.»
«Ciao-Ciao!», ci saluta Axel e io alzo la mano per rispondere. Poi sento i suoi passi allontanarsi in mezzo alla pioggia.
«Ti avevo detto di non indossare i pantaloncini.», dice mia madre, guardandomi le ginocchia. «E poi come hai fatto a scivolare? Non dirmi che stavi giocando sulle pozzanghere?»
Io stringo il mio ombrello e non rispondo.
Cerco di guardare la terra e non le mie ginocchia. Ho ancora tanta paura di vedere i pezzetti di asfalto incastrati. Non le ho guardate proprio, neanche quando siamo tornati a casa. Neanche quando mia madre mi ha messo il disinfettante e mi ha bruciato da morire.
Le ho guardate solo quando le ha coperte con due cerotti.






La maestra per Lunedì ci ha dato tre problemi di matematica e io li ho già finiti tutti.
Sono molto felice perché adesso ho il Sabato libero. E anche la Domenica, sì.
Sento il campanello suonare e capisco chi è.
Mi infilo le scarpe da ginnastica (Ho già imparato ad allacciarle da solo) e scendo le scale come un fulmine. Corro verso la porta e vedo che l'ha già aperta mia madre. Sta chiedendo ad Axel come sta.
«Molto bene, grazie», risponde lui, poi gira la testa verso sinistra e sorride. «Ecco Roxas!»
Sono felice perché ho finito i compiti, perché è Sabato e perché Axel è venuto a trovarmi.
«Non allontanatevi troppo», ci raccomanda mia madre prima di lasciarmi passare. «E Roxas, torna entro l'ora di pranzo.»
«Sì, mamma», rispondo velocemente e Axel aggiunge: «Saremo due angioletti.»
Salutiamo mia madre e lei chiude la porta. Poi mi volto verso Axel e gli chiedo: «Oggi che cosa facciamo? Andiamo al parco come ieri?»
«No, oggi facciamo una cosa molto più divertente.»
«Veramente? E che cos'è?»
«Vedrai, vedrai», risponde lui, poi mi fa capire che devo seguirlo e inizia a correre; superiamo i quartieri di casa mia e raggiungiamo il marciapiede vicino alla strada dove Axel aveva per sbaglio lasciato cadere il mio ombrello-cielo.
Oggi non succederà niente del genere perché non piove, anche se ci sono tanti nuvoloni grigi.
«Vieni, muoviti», mi dice con un tono frettoloso e poi corre dietro ad un cespuglio, cercando di non farsi vedere da nessuno. Io lo seguo e mi inginocchio vicino a lui, piano però, perché se no i cerotti si staccano.
«Stiamo giocando a nascondino? Ma chi sta contando?»
«No, scemo.», risponde lui e un po' mi offende. Sto per rispondergli con qualcosa tipo ''Chi lo dice lo è cento volte più di me'', quando ricomincia a parlare: «Sai chi è la signora Thompson?»
Rimango in silenzio per pensare in pace. Signora Thompson, signora Thompson... No, non credo di ricordare nessuna signora Thompson.
«Dai, quella che porta dei capellini gialli orrendi e ha quel cagnolino che fa schifo.»
«Mmmh...», alzo gli occhi al cielo e poi mi illumino. «Sì, so chi è!», e lo so per davvero, non faccio finta come quando ricevo dei brutti regali e dico che sono belli. Io vorrei essere sempre sincero, ma mia madre dice che qualche volta bisogna dire delle piccole bugie per non offendere gli altri.
Io questa cosa non la capisco.
Però davvero, la mia non è una bugia, conosco veramente la signora Thompson perché è quella che abita nella casa dietro la nostra.
«E sai che cosa le è successo?», poi Axel abbassa la voce e si avvicina al mio orecchio.
Io scuoto la testa. So soltanto che qualche giorno fa ha finito lo zucchero ed è venuta a chiederlo a noi perché doveva fare una torta al cioccolato, ma non credo che c'entri con quello che mi deve dire Axel.
«Suo marito è morto un mese fa.», continua a parlare piano, poi alza la testa e guarda il marciapiede. C'è un po' di gente, soprattutto mamme con i bambini.
Mi sento triste per la signora Thompson. E' simpatica, mi porta sempre qualche merendina quando viene a trovarci. Però è stanca. E' quasi sempre stanca e mi spiace.
«Poverina.»
Axel si gira verso di me e mi guarda per un po'. Poi sorride, non so perché, non ha senso il suo sorriso perché mica è una cosa bella. «Già, poverina. Comunque esce sempre verso quest'ora.»
«Come fai a saperlo?»
«L'ho osservata per un po'. Esce per portare a spasso quel suo schifosissimo cane.»
«Perché schifosissimo?»
«Tu fai troppe domande.», mi dice con un tono duro, come quello che usa mia madre quando rompo per sbaglio qualcosa con il pallone.
«Dicevo, esce sempre per portare il suo cane», continua a parlare Axel, sempre a bassa voce. «quindi tra poco la vedremo.»
«E allora?», chiedo io, poi mi mordo la lingua e un po' ho paura che Axel si arrabbi perché ho fatto un'altra domanda, ma così non succede: lui guarda verso il marciapiede e poi indica un punto davanti a noi. «Vedi quel palo?»
Annuisco.
«Vedi che sopra c'è un volantino attaccato?». Io allora cerco di concentrare  lo sguardo verso il palo: poi mi illumino e annuisco di nuovo.
«Perfetto. Adesso manca solo la signora Thompson.»
«Ma che cosa c'entra lei?»
«Perché grazie a lei ci divertiremo.»
«Ma perché dobbiamo rimanere qui nascosti?». Di nuovo troppe domande. Lo capisco perché Axel mi guarda male e mi costringe a stare zitto, come quando la maestra in classe mi sgrida perché non seguo la lezione.
Passa un po' di tempo, non so però quanto con precisione. So solo che mi stufo, proprio come quando vado dal dottore e aspetto il mio turno.
Vorrei parlare un po', però Axel ha lo sguardo concentrato verso il palo e so che se gli dicessi qualcosa mi obbligherebbe a chiudere la bocca.
Vorrei alzarmi, ma ho paura che poi si arrabbi davvero con me.
Le persone passano e qualcuno ci vede. Alcune signore ridacchiano, magari pensano che stiamo giocando a nascondino. E' quel che pensavo anch'io, all'inizio. Forse è davvero così. Magari la signora Thompson è quella che conta.
No, impossibile. Lei è troppo stanca e vecchia per giocare.
«Eccola!». Capisco che Axel sembra felice di vederla. Lo capisco dal tono, anche se continua a parlare a bassa voce.
Punto gli occhi verso il marciapiede e la vedo anch'io. Ha il suo cappellino giallo, una lunga giacca beige con grandi bottoni e degli stivali neri. Invece nella mano sinistra tiene il suo cagnolino, quello che ad Axel non piace.
Dal cappello sbucano dei ciuffi di capelli grigi, per questo so che è vecchia. Ma non glielo dico mai davanti a lei perché so che è maleducazione, me l'ha detto mia madre. E se glielo dicessi magari smetterebbe di portarmi le merendine.
La signora Thompson cammina abbastanza lentamente; si avvicina al palo, qualche volta guarda il suo cane e sorride, sembra felice di averlo, poi vede qualcosa, sembra scioccata, cammina più velocemente, le si stancano di sicuro le gambe perché è vecchia, però arriva davanti al palo, quello che mi aveva indicato Axel.
Non capisco.
All'inizio non succede niente. Ci sono solo le voci della gente, le madri che chiamano i bambini.
Poi, dopo qualche secondo, la signora Thompson urla.
Si girano tutti, tutti quanti. Tutti i bambini, tutte le madri e tutti i padri.
Io vorrei alzarmi e correre a vedere meglio cosa succede, ma Axel mi afferra il braccio, me lo stringe forte e mi fa capire che non devo muovermi.
Il cane della signora Thompson si spaventa ed inizia ad abbaiare. Un altro cane vicino fa lo stesso e le persone si guardano tra di loro. Non sanno cosa sta succedendo, nessuno lo capisce, nemmeno io.
Nessuno capisce, tranne Axel e la signora Thompson.
«CHI E' STATO?!», chiede gridando la signora Thompson e il suo tono mi spaventa perché non l'ho mai sentita così. Ha il volto rosso, come i capelli di Axel, lo vedo fin qui.
Che cosa sta succedendo? Non lo capisco, non lo capisco per niente, però mi batte fortissimo il cuore.
«CHI E' STATO, EH?! CREDETE CHE SIA DIVERTENTE?! VI FA RIDERE?! VI FA RIDERE?! RIDIAMO TUTTI INSIEME, FORZA!». La signora Thompson strilla quasi fino a perdere la voce. E' rossa, tutta rossa, e mi fa paura. Ha lasciato il guinzaglio e il suo cane non smette di abbaiare.
«Susan, che succede?». Un uomo dai capelli marroni si fa largo tra la gente e si avvicina alla signora Thompson che si è piegata a terra con le mani sulla testa.
Non l'ho mai vista così.
Non ho mai visto gli adulti fare questi gesti.
Sta piangendo? Non riesco a vedere.
Ma gli adulti non piangono. Non possono piangere.
Ho paura e il mio cuore batte fortissimo.
«Poverina, ha perso il marito da poco.»
«Un duro colpo per lei.»
«Sta impazzendo.»
«Andiamocene, dai.»

La gente parla, sento i bla-bla di tutti.
L'uomo intanto ha appoggiato una mano sulla spalla della signora Thompson. Poi ha alzato gli occhi verso il volantino. Scuote la testa e si gira all'indietro, verso la gente. Poi parla, in mezzo ai cani che continuano ad abbaiare: «Questo scherzo non è per niente divertente. Chi è stato, si può sapere?!»
Nessuno risponde.
Quando rompo per sbaglio un vaso non dico mai che sono stato io. Non ci riesco, anche se vorrei essere sempre sincero.
Non capisco che cosa sta succedendo, non lo capisce nessuno. Lo sanno solo Axel, la signora Thompson e adesso anche l'uomo dai capelli marroni.
«Perché continuate a tornare?! PERCHE' NON MI LASCIATE IN PACE?!», continua a strillare la signora Thompson e io allora mi tappo le orecchie perché non ho mai sentito una persona gridare così.
''Sta impazzendo'', ha detto qualcuno.
Axel continua a stringermi il braccio. Poi si alza e mi obbliga a fare lo stesso. Non capisco. Vorrei chiedergli che cosa sta facendo, ma inizia a correre tra la gente. Non ci vede nessuno,  le persone sono troppo concentrate a guardare la signora Thompson. Come quando la gente va al circo e tutti guardano lo spettacolo. O come quando si è al mare e qualcuno fa pipì in acqua: non se ne accorge mai nessuno perché si è impegnati a divertirsi e a parlare.
Corriamo, continuiamo a correre. Arriviamo al quartiere di casa mia, ma non ci fermiamo. Axel continua a tenermi il polso per obbligarmi a correre insieme a lui. Forse si è spaventato per quello che è successo. Anch'io sono spaventato. Quando sono spaventato vado da mia madre. Dovremmo tornare a casa. Sarebbe la cosa migliore, ma Axel continua a correre. Forse dovrei fermarmi, ma rischieremmo di cadere tutti e due. Allora dovrei calmarlo, ma non so come fare.
Ci sono molti alberi da queste parti. E' un posto che mi piace tanto perché posso giocare a nascondino con i miei amici.
Arriviamo davanti alla strada e raggiungiamo le strisce pedonali. C'è un vigile che ha un cartello verde e fa passare le macchine.
Ci siamo solo noi che dobbiamo attraversare.
Il vigile ci vede, ma continua a far passare le macchine ancora per un po'.
«E muoviti, dai, muoviti, dannazione», sento che Axel dice qualcosa a denti stretti, sembra nervoso. Passano altri dieci secondi, lui si arrabbia. Mi stringe forte il polso e sta per fare un passo verso le strisce, ma io lo fermo, tengo i piedi attaccati al marciapiede.
Lui si gira e mi guarda in modo strano. Forse è ancora più arrabbiato. Sta per dirmi qualcosa, quando il vigile ferma le macchine. Muove la testa verso di noi, è il nostro turno, possiamo passare.
Finalmente. Finalmente per Axel, perché io non sono nervoso come lui.
Camminiamo molto velocemente, Axel è pronto a correre di nuovo. Infatti appena raggiungiamo l'altro marciapiede parte di nuovo in avanti. Sto per dirgli di fermarsi perché c'è il cancello, ma lui mi lascia il polso e lo scavalca.
Mi giro e guardo il vigile. Non ci ha visti, sta ancora controllando le macchine.
Ho paura che Axel possa fare qualcosa di stupido. Non capisco che cosa voglia fare, forse è davvero spaventato per la signora Thompson.
«Ti muovi o no?», mi chiede lui e capisco che vuole che io scavalchi il cancello. Ma io non voglio, forse non sono nemmeno capace.
Io faccio ''no'' con la testa.
Lui sembra arrabbiarsi di nuovo. Solo per un secondo però; poi si calma e sorride. «Guarda che ti voglio fare vedere una cosa.»
«Che cosa?»
«Prima forse non ti sei divertito perché non sono riuscito a farti vedere che cosa c'era sul volantino. Adesso però lo capirai, dai, vieni.», poi allunga la mano verso di me e io gliela stringo; allora appoggio un piede tra le sbarre e uso l'altro per scavalcare l'intero cancello.
Axel mi lascia la mano e io  mi aggrappo subito: porto dall'altra parte anche il primo piede e raggiungo l'erba con un salto.
Il vigile intanto ha fermato di nuovo le macchine per far passare due vecchie signore.
«Veloce, prima che ci veda», Axel mi prende di nuovo il polso e mi obbliga a correre.
C'è una piccola salita in collina e mi sento già stanco, ma Axel non si ferma.
«Manca poco.»
«Poco quanto?»
«Ecco, siamo arrivati.», allora mi lascia il polso e ci fermiamo. Ho il fiatone e mi fanno male le gambe. Vorrei sdraiarmi sul prato, ma non credo che ci sia abbastanza posto perché siamo circondati da grandi pezzi di pietra conficcati nel terreno.
Per terra invece ci sono molti fiori. Non fiori naturali del prato, ma fiori che si comprano nei negozi per la festa della mamma. Alcuni sono incartati e hanno anche dei bellissimi fiocchi.
«Dove siamo?», chiedo poi guardando Axel che intanto sembra cercare qualcosa.
«In un cimitero.»
«Cimitero?»
Lui annuisce e intanto cammina tra una pietra e l'altra. Decido allora di guardarmi attorno anch'io e noto che su ogni pietra c'è scritto qualcosa.
«Già, un cimitero. E' il posto dove ci sono gli zombie.», io allora alzo la testa e guardo Axel che mi sorride. Sembra divertito.
«Ma guarda che gli zombie non esistono mica.»
«E invece sì. Ti divorano il cervello.»
«Non è vero.», gli dico io e spero di fargli capire che ho ragione. Mi da fastidio quello che dice perché sono delle bugie grosse come una casa. Come la mia villetta, ecco.
«Sì che è vero, io li ho visti.»
«E quando?»
«Boh, non mi ricordo.», risponde lui. Poi si piega verso una pietra e ricomincia a parlare: «Però li ho visti. Hanno mangiato il cervello di un mio amico.»
«Che schifo!»
«Sì. E sai che nei cimiteri ci sono anche i fantasmi?»
«Loro che cosa fanno?»
«Niente, ti spaventano e basta.», poi mi guarda e con la mano mi fa capire che devo avvicinarmi a lui. Così faccio e mi piego sulle ginocchia, sempre piano però.
Lui indica la pietra davanti a noi. «Guarda.»
«Phi... Phi- li- pp... Thom... Thompson...». Mi sento orgoglioso perché ormai ho imparato a leggere benissimo. Sono uno dei più bravi della classe.
«Sì. Sai chi è?»
Faccio ''no'' con la testa.
«E' il marito della signora Thompson.»
«Ma non è morto?»
«Sì. Qui c'è il suo corpo.», e indica il punto su cui siamo inginocchiati.
Io allora lancio un urlo e mi alzo.
Ho paura di Phi-li-pp Thompson. Magari l'ho disturbato. Non si disturbano i morti, lo sanno tutti.
Axel ride e indica di nuovo la pietra. «Non noti che manca qualcosa?»
Io allora prima guardo la pietra, poi Axel e dopo ancora mi guardo attorno. Osservo le altre pietre e in tutte vedo le stesse cose: i fiori, una fotografia e i nomi.
Poi torno a guardare la pietra su cui Axel è inginocchiato. «Manca la fototrafia di Phi-li-pp?»
Axel annuisce e sorride. «E sai chi l'ha presa?»
«Tu?»
«Sì, esatto.»
«E perché l'hai presa?»
Axel si alza e mi guarda con attenzione. «La signora Thompson non è mai andata a trovare suo marito, tranne al funerale. Non ci voleva pensare per non soffrire. Io allora ho preso di nascosto la fotografia che c'era qui e l'ho appiccicata sul volantino. E sai che cosa ci ho scritto sotto? ''Cercarsi Thompson Philipp: se qualcuno l'ha visto lo preghiamo di invitarlo a lasciare il regno dei morti per prendere una tazza di té con sua moglie, visto che lei non fa altro che girare di casa in casa per avere un po' di compagnia e la gente ormai ne ha le palle piene.»
Io rimango in silenzio, non so che cosa dire.
Axel invece ha tanto da dire, lo so perché ha parlato molto, senza fermarsi mai. Poi scoppia a ridere fortissimo. C'è l'eco e le sue risate rimbombano tra le pietre e i morti.
Sta disturbando i morti. Deve smetterla di ridere. Mi fa paura. Mi fa paura lui, quello che ha detto e questo posto.
«Hai fatto una cosa cattivissima. Non hai visto come ci è rimasta male la signora Thompson?», finalmente apro la bocca e parlo.
Axel smette di ridere e mi fissa. «Che stai dicendo?»
«Hai fatto una cosa bruttissima. Adesso la signora Thompson soffrirà.»
«E allora? E' stato divertente. Hai visto come urlava? Sembrava pazza veramente.»
Io stringo i pugni. Mi sento arrabbiato. Sono arrabbiato con Axel. «Devi dire alla signora Thompson che sei stato tu, così poi le chiederai scusa.»
Poi.
Poi Axel si arrabbia tantissimo, ma proprio tanto.
Mi guarda. Mi guarda con tanta rabbia.
E' più arrabbiato di me.
Molto di più. Si avvicina. Si avvicina a me, io allora faccio un passo indietro perché ho paura. Ho paura perché è più alto.
«Provaci, Roxas, prova a dire a qualcuno di questa storia. Provaci e ti rompo il cranio lì.», poi indica la pietra di Phi-li-pp.
Tremo. Mi tremano prima le gambe, poi le braccia. Ballano tutte insieme.
Axel non è normale.
Il cranio è la testa. Lo capisco. Lo capisco dal suo tono arrabbiato che cos'è il cranio. Mi vuole rompere la testa su Phi-li-pp. Così morirò accanto a lui.
morirò.
«Hai capito?», si calma, ma non sorride. Io annuisco perché ho capito, oh, eccome se ho capito.
Poi Axel si gira e se ne va.
Mi lascia lì, da solo.
Non lo seguo perché credo che non mi voglia più, se no mi avrebbe chiamato. E anch'io preferisco così. Non voglio seguirlo.
Aspetto qualche secondo e poi me ne vado anch'io.
Comunque continuo a tremare per un bel po'.







«Roxas, mi potresti passare il sale?»
«Oh, ci penso io.», Axel, che è seduto vicino a me, prende il sale e lo dà a mia madre che sorride per ringraziarlo.
Axel è venuto a pranzare da noi. L'ha invitato mia madre perché dice che è proprio una brava persona.
Io non ne sono così sicuro. Avrei voluto raccontarle della signora Thompson, ma non l'ho fatto. Non l'ho fatto perché ho paura di morire vicino a Phi-li-pp.
«Sei molto elegante oggi, Axel.», dice mia madre e Axel sorride. Ha indossato dei pantaloni neri e una giacchetta dello stesso colore. Ha anche un fiocchetto rosso al collo, proprio come gli uomini eleganti e ricchi dei film.
«Volevo fare bella figura. Siete stati molto gentili ad invitarmi.», risponde lui e continua a sorridere.
Io abbasso gli occhi verso il mio piatto. Ci sono gli spinaci e il pesce. Non mi piacciono gli spinaci. Non mi piace nemmeno il pesce.
Gli spinaci sono verde vomito. Infatti mi fanno venire voglia di vomitare. E il pesce ha un gusto schifoso.
«Roxas, allora? Non mangi?», mi chiede mia madre e io scuoto la testa. Lei lo sa che gli spinaci non mi piacciono. Glielo dico sempre, quasi tutti i giorni. Non mi piacciono gli spinaci, il pesce, le carote e la lattuga. Perché allora mi fa lo stesso queste cose? Non mi piacciono, non serve farle.
«Non ho fame.»
«Devi mangiare.»
«Mi fanno schifo gli spinaci.»
«Roxas!», mia madre alza il tono della voce e mi guarda male. Lei non vuole che io dica ''schifo'' davanti al cibo. Dice che non è una bella cosa.
«Ma è la verità!»
Mia madre sospira, fa un sospirone lungo e stanco, poi si mette una mano sulla fronte. «Non so proprio che cosa fare con te.»
Io abbasso di nuovo gli occhi. Questa volta non per guardare il piatto, ma perché non mi va di vedere mia madre che mi dice tutte queste cose.
Silenzio per qualche secondo. C'è solo il rumore delle posate e dei bicchieri.
«Gli spinaci contengono molto ferro». Axel alza la testa dal piatto e si pulisce la bocca prima di parlare. Ha già finito tutti i suoi spinaci. «Di sicuro i supereroi ne mangiano molti per essere così forti. Anch'io vorrei essere un supereroe per questo mangio gli spinaci. Voglio salvare le persone in pericolo.»
Mia madre allora sorride e si alza per sistemare il suo piatto nel lavandino. «E' un pensiero molto bello, Axel. Sono sicura che diventerai un supereroe con i fiocchi.»
Mi arrabbio.
Sono arrabbiato per quello che ha detto Axel. Ha detto che vuole salvare le persone. Ha detto proprio così, ma allora perché ha fatto soffrire la signora Thompson? Salvare non vuol dire anche non far soffrire la gente? Axel non può essere un supereroe.
«Roxas, posso mangiare i tuoi spinaci, visto che tu non li vuoi?», Axel mi sorride e indica il mio piatto. Sono ancora più arrabbiato.
«Oh, no, lascia stare», parla di nuovo mia madre, scuotendo la testa. «Roxas deve imparare a mangiare anche quello che non gli piace. Avanti Roxas, non vuoi essere anche tu un supereroe?»
No, vorrei rispondere, ma sto zitto e prendo la forchetta in mano.
No, se essere un supereroe vuol dire essere come Axel, non voglio.

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*Note di Ev'*
Tre o quattro giorni fa qua ha piovuto un bel po', quindi mi è venuta l'ispirazione per tirare fuori qualosa del genere.
Il fatto è che mi sono appassionata al Thriller. Se fino a tre anni fa tentavo pateticamente di comprendere la differenza tra gli Horror e i Thriller, adesso ho finalmente compreso che Horror equivale a tutto ciò che spaventa, che possa essere sangue, facce mostruose, killer psicopatici o situazioni agghiaccianti. Thriller, invece, è il genere che trasmette principalmente ansia e angoscia.
E niente, dopo la visione di diversi film mi sono accorta di amarlo profondamente. Questa è la mia prima storia che ha come genere principale il Thriller.
Come al solito doveva essere una One shot, inizialmente. Ma, sempre come al solito, mi sono dilungata e mi sono ritrovata un documento word infinito. Quindi niente, l'ho diviso, come al solito. Questo anche per dire che l'ultimo capitolo è quasi pronto. Devo solo scrivere un paio di scene e pensare ad un finale decente.
Anyway, andiamo all'analisi.



Quando stavo per premere il tasto che avrebbe fatto /magicamente/ apparire la prima lettera della prima parola della mia prima storia Thriller, mi è subito venuta voglia di fare tutto in prima persona. Sia per cambiare un po', sia perché ciò avrebbe reso molto più facile la correzione, poiché si tratta sempre un bambino di sette anni (Tra parentesi, quindi è ovvio che ci sono delle ripetizioni, che le frasi siano semplici e cose del genere) e, soprattutto, perché sentivo di dover fare così. Non avevo voglia di costruire la storia con descrizioni accurate dei personaggi, degli ambienti e cazzate del genere. Volevo che il lettore guardasse la situazione attraverso lo sguardo della povera vittima sfigata di Roxas, di un bambino.
E niente... Parlando proprio di Roxas, alla fine non c'è molto da dire; è appunto un bambino, come tutti gli altri, forse da un lato è più sveglio perché collega sempre le emozioni che vive o le situazioni ad avvenimenti che gli accadono quotidiantamente, giusto per comprendere meglio la realtà che lo circonda. Dall'altra parte è ingenuo, com'è giusto che sia; si fa prendere facilmente per il culo abbindolare facilmente da Axel con semplici frasi.
Axel è il solito psicopatico un bambino particolare, evidentemente, e lo dimostra già nella prima scena. Lo fa capire prima con i suoi gesti, poi con le frasi. Fa uno scherzo particolarmente crudele alla signora Thompson e si diverte di fronte alla sua reazione, il che è assolutamente anormale per un bambino di dieci anni. Ma che dico, è anormale e basta.
Poi fa pure lo stronzo è addirittura ipocrita, poiché è pronto a tirare fuori una maschera di fronte alla madre. E qui, già che ci sono, apro un'altra piccola parentesi; il titolo, appunto ''Il cimitero del Paradiso'', è stato scelto per sottolineare questa particolarità di Axel, ovvero il fatto che sembra un bambino normale, addirittura buono e tranquillo, ma sotto c'è qualcosa di sinistro.
Boh, niente, credo di aver detto tutto, per quanto riguarda l'analisi.





Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento e vi prego, vi supplico, vi imploro, vi obbligo a commentare, in caso l'abbiate letto, poiché è fondamentale per un autore conoscere le opinioni altrui. In fondo non vi costa niente premere dei miseri tasti, mlml.
E mi auguro che seguirete anche il capitolo successivo, poiché Axel ne combinerà veramente tante.

Qui oggi ha piovuto di nuovo, anche se mi pare che stia sbucando il sole. Preferisco così, sinceramente; almeno di tanto in tanto l'aria si rinfresca.
E intanto si avvicina Luglio... Brr, mi sa che prima o poi dovrò toccare i compiti. Vabbeh, toccare no. Sfiorare, magari. Andiamo con calma. Prima li guarderò, poi li sfiorerò, dopo li toccherò e infine, forse, li farò.
Bah, per il resto nulla. Momenti no, momenti sì, spruzzi di gioia improvvisa, altri di malinconia, gente che mi fa girare le ovaie come mulini a vento... C'est la vie. So soltanto che quest'anno sono decisa ad andare al Lucca Comics. Non so come cazzo farò a preparare il vestito sia perché i soldi non mi escono dal culo, sia perché non ho mai preso un ago in vita mia (E se ci provassi sono sicura che al massimo mi cucirei le mani insieme. Oppure potrei cucire la bocca di qualcuno, mmh...), ma qualcosa mi inventerò. Voglio comprarmi un dannatissimo pupazzo di Roxas, ohw. :c
Adesso che mi sono sfogata abbastanza posso svanire di scena.
Alla prossima.
E.P.R.

 

   
 
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