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Autore: La X di Miria    24/06/2013    0 recensioni
Avvertenza: non c'entra nulla con Hunger Games, sebbene il titolo sia simile.
La protagonista è Marta, una ragazza che lavora per una casa di moda, con il complesso della taglia 40 e dei fotografi. Impegnata nell'ennesima sfilata, sarà vittima di un gioco inumano e spietato.
Ma la verità era un'altra. La verità era che io avevo un terrore innato per i fotografi. Una fifa blu, perché la paura è blu, come i flash di quelle dannatissime macchine, che scoccavano all'unisono, tutte dirette verso un singolo obiettivo: tu.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dal cielo grigio del mattino, sembrava una giornata depressa come tante altre.

Quelle giornate in cui il sole rimane avvolto nel suo letto di nuvole soffici e non ne vuole sapere di alzarsi in cielo.

Quelle giornate in cui hai solo voglia di infilarti un maglione caldo e di sorseggiare una cioccolata, magari con una rivista. Un libro no, si potrebbe macchiare. E poi le riviste sono così colorate, ti fanno pensare alla primavera. Puoi leggere solo quello che t'interessa, puoi strappare le pagine, ci sono persino i campioni-profumo in omaggio!, e sì, puoi avere finalmente la tua personalissima vendetta contro quelle acciughe denutrite delle pubblicità.

Stavo dando un'occhiata a un reportage su una delle tante isole della Polinesia, uno di quei classici posti da sogno che non visiterai mai, quando mi accorsi che la tizia di Dior mi fissava con la solita espressione da “non-vali-un-cazzo”. Ne avevo viste di facce odiose, ma questa le stracciava tutte.

Estrassi una penna e, senza badare ai mille sobbalzi dell'autobus (è normale per le vie del centro), mi dedicai a una delle mie occupazioni preferite. Le ripassai la bocca più volte fino a farle assumere un sorriso ebete, le allungai le occhiaie fino agli zigomi e la tempestai di brufoli su tutta la faccia. Per finire le aggiunsi cinque chili per fianco e le riempii la gamba scoperta di peli scuri. Ecco qua: non era uno dei miei capolavori, ma mi aveva soddisfatto.

Le immagini migliori le tenevo appese al muro di camera mia: la sera prendevo le freccette e la vodka dal comodino e miravo a quella che mi stava più sulle balle. Quando sbagliavo, tracannavo un sorso: così era più difficile, più esaltante. Alla fine mi risvegliavo in posizioni assurde e con un mal di testa da stendere un cammello.

Sì, potrà sembrare un comportamento da pazza sclerata, o di una con seri problemi d'autostima, ma quando hai a che fare con quella gente ogni santo giorno, diventa una reazione più che normale.

L'autobus fermò nei pressi del teatro, una costruzione color ocra con una porta a due ante alta due metri. Già m'immaginavo la calca dei fotografi e dei giornalisti pressare, agitarsi, tendere i microfoni e spintonarsi per guadagnarsi l'esclusiva, per essere i primi ad entrare. Non avrei mai capito il perché di tanta foga: in fondo era solo una sfilata di moda come tante, eppure ogni volta la stessa storia.

Ma la verità era un'altra. La verità era che io avevo un terrore innato per i fotografi.

Una fifa blu, perché la paura è blu, come i flash di quelle dannatissime macchine, che scoccavano all'unisono, tutte dirette verso un singolo obiettivo: tu.

Non ero una modella, perché il mio corpo non era perfetto.

Non ero una modella, perché non avevo il portamento adatto.

Non ero una modella, perché odiavo essere svestita e rivestita, truccata, infilare dannatissimi tacchi a spillo, ridurmi ad acqua e insalatine e non potermi strafogare di gelato.

Ma soprattutto, non ero una modella, perché odiavo le macchine fotografiche.

Uno dei miei incubi ricorrenti mi vedeva in un camerino claustrofobico, circondata da truccatrici, stiliste, sarte, giornaliste, tutte appiccicate. Mi infilavano un vestito strettissimo e giallo (io odio il giallo!), mi riempivano la faccia di cerone fin dentro la bocca, mi spingevano i piedi dentro scarpe di due numeri più piccole, con la punta stretta e i tacchi a spillo. Mi alzavano, mi strattonavano, mi trascinavano verso la passerella: cercavo di divincolarmi, le giornaliste mi placcavano, mi tempestavano di domande, i microfoni stridevano (o erano i tacchi a spillo sul pavimento?).

Cento paia di mani mi spingevano fuori e per dei lunghissimi attimi mi sembrava di essere sola... fotografi vigliacchi, emersi dall'ombra, mi mitragliavano di scatti, facevano fuoco su quel briciolo di dignità che mi era rimasto. Mi giravo, mi rigiravo, mi coprivo la faccia, accecata dai bagliori, scoppiavo a piangere, non sapevo come difendermi, gridavo, muggivo come un animale goffo e inutile, mi montava l'ansia, l'ansia, l'ansia!! Smettetela, smettetela, basta, basta, basta!! Perdevo l'equilibrio, non sapevo più dov'era il sopra, dov'era il sotto, cadevo nel buio e mi risvegliavo rintanata sotto le coperte, in fondo al letto.

«Ciao Marta! Siamo presto oggi!»

Come sempre, Ale arrivava prima di tutti.

Stava sistemando file di abiti per la sfilata e non s'era nemmeno tolta il cappotto. L'aiutai a mettere in ordine e feci la spola almeno dieci volte, da bravo attaccapanni ambulante.

«Mannaggia, questo ha uno strappo.»

Era un abito da sera color verde acqua con un lungo strascico bordato di perle.

«Passami l'ago, Marta.» Si sistemò sul naso gli occhiali stile John Lennon e spinse la sciarpa multicolore dietro le spalle. Mi piaceva quando faceva così, aveva un'aria molto professionale.

Sgarfai nella mia borsa delle meraviglie ed estrassi l'astuccio con dentro tutto il necessario: ago, filo, forbici, spille, bottoni a caso. E quelle che prima erano le quinte di una sfilata, si trasformarono in una sala operatoria a tutti gli effetti.

Ale stese il vestito sul tavolo e prese a rammendarlo con mosse rapide e decise. Riattaccò il filo di perle sotto i miei occhi alla velocità di una cucitrice.

Ale era una maga con i vestiti, riusciva a sistemarli e a valorizzarli come mai nessuno avevo visto fare, aveva sangue freddo, riusciva a mantenere la calma anche nel bel mezzo della sfilata, quando il fermento era palpabile.

«E questo è fatto! Bene, il prossimo!»

 

Le sei arrivarono in un battibaleno. Dalla sala giungeva il vocio dei critici, dei fotografi, dei giornalisti, di tutta quella gentaglia buona a nulla, capace solo di campare con qualche scritto idiota su un'ancora più idiota sfilata di moda. Un brusio interminabile, che ricordava il sordo rumoreggiare della risacca del mare. Già mi veniva ansia.

Ed ecco le prime ragazze entrare dietro e quinte, ondeggiando su tacchi vertiginosi come i palazzi di Tokyo durante un terremoto.

«Salve a tutti, gente!» La prima era Jacqueline, che faceva rima con plin-plin, con la sua immancabile coda di cavallo e il sorriso da cihuahua messicano. Dietro di lei spuntò una massa di capelli biondi e il fisico asciutto, anzi prosciugato, di Carolina Insalatina, seguita dal viso aguzzo di Luciana la Poiana, che ruotò la testa come un rapace e ci squadrò crudele.

«Oh, oggi non ho nemmeno avuto il tempo di risistemarmi il trucco!» disse a voce alta Carolina: sfarfallò le ciglia appesantite dal mascara e socchiuse le palpebre impestate di ombretto. Si specchiò sulla superficie di un armadio «Guarda qui, è tutto sbavato... ».

Ma sarà il tuo cervello sbavato!

Jacqueline e Luciana poggiarono le borse su un tavolino. «Avanti, mettiamoci all'opera, belle care. Voglio essere perfetta stasera.» Jacqueline ghignò e si avviò nella sala trucco sculettando.

Mi stava salendo l'omicidio. Ed erano appena arrivate.

  
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