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Autore: Ely79    24/06/2013    2 recensioni
Vorreste trasformare la vostra ridicola Urbanhare in un mostro capace di far sfigurare le ammiraglie del Golden Ring? Cercate più spinta per i vostri propulsori a vapore compresso? Spoiler e mascherine su disegno per regalare una linea più aggressiva al vostro mezzo da lavoro? Una livrea che faccia voltare ogni testa lungo le strade che percorrete? Interni degni di una airship da corsa, con quel tocco chic unico ed inimitabile?
Se cercate tutto questo, grande professionalità ed un pizzico di avventura, allora siete nel posto giusto: benvenuti alla "Legendary Customs".
[Ambientazione Steampunk]
Genere: Avventura, Commedia, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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L.C. 2
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I tavoli dell’“Archituono”  diventavano la sede della “Legendary Customs” una volta terminata la giornata. In particolare il mercoledì, designato come giro di boa della settimana, Clayton concedeva ai ragazzi di cenare là e di restarvi fino alle dieci e mezzo. Anche lui si univa spesso: era un modo come un altro di tenere unito il gruppo, per svuotare le menti dallo stress delle consegne, ed era utile per appianare eventuali divergenze in maniera civile.
Il locale in sé non aveva nulla di particolare: era un semplice stanzone a L, con panche e tavoli rettangolari disposti perpendicolarmente alle vetrate che davano su Avenida de Nostra Señora de la Merced e Finner Street, e un lungo bancone che sul retro affacciava direttamente sulla cucina più caotica e chiassosa del circondario.
All’“Archituono” si potevano gustare piatti che andavano dalla più classica cucina delle Colonie Atlantiche alle specialità tradizionali del Vecchio Continente, per arrivare a scoprire le succulente invenzioni nate dalle padelle dei cuochi. Il tutto accompagnato da bevande dalle svariate provenienze, anche se le più gettonate erano le birre crude invecchiate, prodotte dal birrificio artigianale “La Gracieuse Pinte”.
Forse non sarebbe mai finito sulle blasonate guide per gourmet, ma di certo occupava un posto fisso nel cuore e negli stomaci degli avventori, sempre piuttosto numerosi, non da ultimo lo staff della “Legendary”.
«Secondo me, quel maledetto bugiardo di Cross non vincerà le elezioni, può scordarsi di mettere ancora il culo sulla poltrona di Governatore. Ha scontentato troppa gente negli ultimi due anni, a partire dagli agricoltori che si son visti ridurre i razionamenti d’acqua dalla diga di Bronnefild. E sono tanti e continueranno ad aumentare se non revoca la limitazione all’apertura delle chiuse» sibilò Iron, gesticolando come un forsennato.
«Stamattina ho letto sul FlyinGazette che venerdì è prevista una protesta davanti alla sede del Governatorato, per convincerlo a levarsi dai piedi e a rinunciare alle elezioni. Ma sarebbe una cosa che farebbe una persona per bene, non uno come lui» osservò caustico Pancake.
Lui e Iron erano di origini contadine e la questione stava loro particolarmente a cuore.
«Così però finirà dritto al Senato delle Colonie» obbiettò Hito. «Non so se è un guadagno. A parte per il suo portafogli, ovvio».
«Sai come si dice, no? I coglioni vanno in giro sempre in coppia e là c’è suo fratello che gli tiene calda la poltrona» precisò Patch, massaggiandosi la spalla indolenzita.
«L’altro genio della famiglia. Ma quando i genitori scopavano cos’avevano in mente?» chiese ridacchiando Odrin, mentre giocherellava con un pomodorino nel fondo del piatto.
Il contrasto del minuscolo ortaggio scarlatto tra le sue dita nerissime era molto curioso, tanto che Sandy ripeteva spesso quanto l’Andull le sembrasse fatto d’asfalto colato.
«Perché, tu pensi quando scopi?» ghignò Boy, agitando i fianchi tanto da urtare il tavolo.
Piatti e posate sobbalzarono tintinnando, e le bottiglie furono bloccate in tempo per evitare che si rovesciassero ovunque.
«Fermo e zitto, marmocchio, che nemmeno sai di cosa stai parlando!» lo rimproverò subito No Way, che nel frattempo faceva gli occhi dolci a un paio di ragazze in fondo al locale.
«Lo dici tu, bell’addormentato!» starnazzò, alludendo all’abitudine del collaudatore di appisolarsi ovunque.
«Allora dicci per chi voti» lo stuzzicò, assestandogli un calcio nello stinco e continuando imperturbabile le sue smancerie a distanza.
«Juan Hernández» scandì con sussiego.
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale i colleghi si scambiarono occhiate molto sorprese.
«Juan… Hernández?» ripeté sorpreso Choncho.
«È quello che ho detto» ribadì orgoglioso il ragazzo, scandendo ogni sillaba con un leggero pugno sul tavolo.
Altro silenzio. Altri sguardi attoniti.
«Voti per lui? Dici sul serio?» esclamò accigliato Iron.
«Sì, perché? Non posso votare un messicano che vive qui? Mi sembra una persona onesta, che sa quel che vuole. Ci sono un sacco di suoi cartelloni, dove promette di fare molte cose per la gente».
«Juan Hernández?» insisté Choncho, che evidentemente disapprovava la scelta.
«Sì! Voterò per lui! Lo merita!» dichiarò Boy, atteggiandosi a chi aveva la verità in tasca.
«Vuoi votare il nostro postino?» chiese Scorch, fingendosi perplesso. «Non sapevo fosse in lizza per il seggio di Governatore».
Boy strabuzzò gli occhi e per poco non finì soffocato dalla sorsata che gli andò di traverso mentre tutti scoppiavano a ridere fragorosamente.
«Cos… no!»
«Juan è il postino, quello che dici te è Gustavo Miguel. Non sai neanche come si chiama, stronzetto! E, tra l’altro, il postino è messicano ma l’altro è cubano, coglione!» rincarò Choncho, rifilandogli uno scappellotto sulla nuca, subito imitato dagli altri.
«Cynthia, porta un ciuccio prima che Boy si mette a piangere! Sbrigati! E anche un paio di Herraduras e una PinkQueen!» strillò Pancacke all’indirizzo di una delle cameriere, che rideva piegata in due sul bancone.
Subito le risate si tramutarono in mugolii schifati: solo lui poteva mangiare delle ali di pollo fritte e piccanti, accompagnandosi con una mousse di lamponi.
«Qualcuno mi vuole spiegare come cazzo siamo finiti a parlare di quelle mezze seghe del Governo? Mi devo essere perso qualcosa» commentò Clay, sbattendo la bottiglia ormai vuota sul tavolo con voluta malagrazia.
Il suo malumore era fasullo solo in parte: per tutta la serata non aveva fatto altro che tenere d’occhio le ordinazioni di Scorch, pronto a saltargli alla gola se avesse chiesto qualcosa di più forte di una gassosa. Nonostante la sbronza fosse passata, l’ingegnere era ancora piuttosto debole, aveva problemi di concentrazione e occasionalmente di equilibrio. In quelle condizioni, Clay sapeva bene quanto rischiasse di cedere alla tentazione di farsi un goccetto per tirarsi su, finendo sicuramente sotto il tavolo. Non poteva permetterlo, a costo di non godersi la serata.
«Non per essere maleducato, capo, ma nella mia busta paga del prossimo mese ti sei perso duecento trias. Te lo dico adesso così puoi correre a segnarmeli subito» ciancicò ancora Pancake, inghiottendo il boccone di pane con cui aveva ripulito il piatto, in attesa dell’ordine appena fatto.
Iron, suo fratello, scosse la testa rassegnato.
«Ti piacerebbe. E finiscila di ingozzarti o non si riuscirà più a distinguerti dall’accumulo di una caldaia!»
Nessuno capiva come avesse potuto metterli al mondo la stessa madre: tanto Lamar “Iron” Parker era alto, robusto e atletico, come si conveniva a un addetto ai lavori pesanti, tanto Delwin “Pancake” Parker era basso, parecchio in sovrappeso e flaccido quanto uno straccio bisunto.
«A me ne mancheranno duecentocinquanta!» irruppe Boy, facendo eco alla richiesta.
«A me cento, sono più economico di questi due» sbadigliò No Way stiracchiandosi sornione.
«Anche a me farebbero comodo un centinaio in più» rise Odrin.
«Idem. Ho un paio di spesucce in programma» esclamò Iron, agitando eccitato il pugno.
«Io mi accontento di essere pagato» concluse saggiamente Hito, ricevendo gomitate e gestacci dai colleghi.

***

Uscendo dal locale, Odrin, Patch e Ozone puntarono all’officina, dove avevano lasciato i loro mezzi. Camminavano senza fretta, i primi due parlottando tra loro, l’altro accompagnando all’occorrenza la discussione con cenni del capo ed eloquenti smorfie. Attorno a loro, le luci dei palazzi si spegnevano una dopo l’altra, man mano che per gli inquilini andavano a dormire.
Il quartiere di La Roscas era abitato principalmente da operai, carpentieri, manovali dei cantieri avionavali e muratori. Tutta gente abituata alla fatica e alle levatacce, non c’era da stupirsi se a quell’ora il silenzio nelle strade era già piuttosto denso. Tra gli edifici residenziali si aprivano ampi slarghi recintati, che segnalavano le aree per la sosta dei mezzi di carico e per lo stoccaggio dei materiali di piccole e medie imprese.
Lungo il marciapiede correva il muro di cinta del “Legendary Customs”, alto e sormontato da una fila di spuntoni acuminati, e interrotto solo dal cancello d’ingresso, poco oltre.
«Il ragazzo si sta facendo troppo invadente per i miei gusti, Ozone. Cerca di tenergli… come dice No Way? Una mano sulla testa?» ridacchiò Patch, passando entrambe le mani fra i capelli corti e scuri.
«Già. Forse però sarebbe meglio ficcargliela dentro la testa e togliere un po’ di quello che c’è. Comincio a pensare che manchi l’ossigeno là dentro».
Un pesante sospiro indicò che Ozone non condivideva del tutto le loro lamentele. Lui riusciva a vedere altro dietro la catastrofica irruenza di Boy.
Il cancello corse sul binario con uno stridio appena percettibile. In un angolo erano posteggiati la Urbanhare di Patch e un ammasso di ferraglia che disegnava l’approssimativo contorno di un trike.
«Quando mettiamo mano al roll bar?» chiese Patch, tastando il tubolare che sovrastava il posto di guida.
Il metallo cigolò lieve nei giunti.
«Fammi finire l’ordine per la Φ-nix e ci mettiamo all’opera».
«Per sabato ce la fai? Vorrei sistemarlo alla svelta, prima che piova».
«Che fretta hai? Fojdhos è mio. E la pioggia non mi fa paura» disse, agitando la mano fra le barre nude della copertura, lì dove ancora mancava la capotta.
«Ah, questo lo so, Signore delle Lande. Tu vivi di pioggia e foglie» lo canzonò Patch, appoggiandosi alla propria airship. «Ma si dà il caso che non voglia averti sulla coscienza se questo coso decide di andare in pezzi mentre sei in giro».
Odrin si allungò sull’ampio sedile, una versione provvisoria di quello che avrebbe installato alla fine del lavoro. Aveva già messo da parte le pezze adatte e le imbottiture.
«Dov’è il problema? Sarò io a finire spappolato sulla strada» chiese poggiando i piedi sul manubrio.
«Il problema è che non sapremo come fare a distinguerti dalla carreggiata e resteremo per anni a domandarci dove sei fuggito e perché» rispose con enfasi melodrammatica.
«E scommetto che ti piangerà un occhio sì e l’altro no, eh?» replicò Odrin sullo stesso tono.
Patch, infatti, aveva gli occhi di due colori diversi, il che aumentava sia la possibilità di battute sia di emicranie quando si parlava per troppo tempo con lui.
Ozone si unì alle risate con un borbottio sommesso. Spingeva un tozzo velocipede a due tempi, un fascio ritorto di tubi e valvole dalle funzioni misteriose, che si lasciava alle spalle l’alone azzurrato del focolare sotto l’accumulo. Raggiunse i due e alzò uno sguardo interrogativo all’officina.
«Quella è proprio fissata» commentò Patch, indicando la luce accesa al primo piano.
L’ombra di Charlotte si stagliava dietro gli spessi profili della finestra. A giudicare dalla difficoltà con cui si muoveva e dall’occasionale biancheggiare di piccoli triangoli, doveva tenere tra le braccia qualcuno degli enormi volumi che affollavano le librerie dell’ufficio. Lo chignon poggiava scomposto sulla nuca, attorniato da un’aureola di ciocche. Aveva slacciato i polsini della camicetta e li aveva rivoltati fino al gomito. Se si fosse accorta che la stavano vedendo in quello stato, con ogni probabilità sarebbe morta di vergogna. Non prima di aver comminato loro una qualche sanzione.
«Vai su e dalle una bottarella o due, Odrin, magari le fai passare certi atteggiamenti. Se ti lasci infilare le dita nella macchina per scrivere e poi ti fai picchiare con le fatture, secondo me ti dice di sì» malignò Patch.
L’Andull ridacchiò scuotendo il capo. L’amico sapeva del suo interessamento nei confronti della segretaria e non perdeva occasione per punzecchiarlo, nella speranza che da un eventuale incontro ne venisse qualcosa di buono per il resto del team.
«Tu che dici, Ozone? Dovrebbe andare a farle due moine?» indagò Patch, ammiccando.
L’uomo si grattò pensieroso il mento, nello spazio libero tra la coppia di spesse trecce della barba, dondolando il capo in un parziale, esitante assenso. I suoi silenzi sapevano dire molto.
«Beh, gente, vado. So che non ci crederete, ma ho una casa» salutò il meccanico, subito imitato dai compagni, ciascuno a suo modo.
Mentre inforcavano i mezzi, preparandosi alla partenza, Odrin lanciò un ultimo sguardo alla finestra. La silhouette scura di Charlotte guardava la città, le braccia incrociate sul corsetto e i capelli arruffati, ora sciolti sulle spalle. Non riusciva a scorgere la sua espressione, ma indovinò da un lungo sospiro che fosse preoccupata.

***

La Torran di Clay filava per le strade di Port Serafine, trasformando le luci ambrate dei lampioni a gas in rombanti sfavillii. La voce roca di Cob Sloan cantava “The world unwinds inside me” dai coni del fonografo ai lati della plancia.
Pur essendo un modello vecchio di quasi quarant’anni, restava uno dei più in voga tra gli appassionati di muscle-ship. Il profilo ribassato dell’abitacolo, unito alle linee affusolate del muso e alle ali continue lungo il terzo inferiore, avevano per anni suscitato l’ilarità degli esperti del settore, che l’avevano ribattezzata “la seppia”. A dispetto del soprannome tutt’altro che lusinghiero, le sue prestazioni erano rimaste ineguagliate per parecchio e anche tra le muscle-ship di più recente fabbricazione, poche erano in grado di superarla.
«I ragazzi come stanno?» domandò un tratto Scorch.
La sua voce era tesa e impastata per il supplizio appena concluso: passare ore con birre che andavano e venivano sotto i suoi occhi, quando era costretto ad accontentarsi di un imbarazzante bicchiere di seltz e succo d’arancia, l’aveva lasciato con i nervi scossi più di quanto credesse.
«Bene» rispose Clay stringendo le cloche.
«Stanno con te questo week-end?»
«Ci sono stati quello passato. Ti aspettavano» sputò, in un’accusa non troppo velata.
Scorch passò una mano sulla faccia, per non dare a vedere che si stava mordendo la lingua. L’aveva completamente dimenticato.
«Merda. Io… mi dispiace».
Clay imboccò a tutta velocità la parallela di Via del Corso, sul limitare di Surrexit Rome. Alcuni negozi erano ancora aperti per la festa di San Giuseppe, che ogni anno richiamava folle di curiosi presso gli antiquari e le botteghe che trattavano merce d’importazione dal Bel Paese, oltre che nei ristoranti tipici.
Superò i tripli viali che portavano al Core, il quartiere centrale della città, e seguì le indicazioni per Cenelia.
Dopo qualche minuto, Clay riprese a parlare.
«Bonnie ha deciso che vuole fare la stilista da grande. Voleva farti un sacco di domande sul come disegnare un cappello da donna pilota che non venga strappato via dal vento. Junior invece continuava a ripetere che lo zio gli aveva promesso di portarli entrambi al parco a prendere un frappè al Sabine’s. Ti hanno aspettato tutto il giorno e non ha voluto che ce li portassi io» rincarò.
Il cugino sganciò le fasce superiori della cintura di sicurezza per riuscire a prendere un respiro decente e schiarirsi le idee.
«Io… non pensavo se la sarebbero presa tanto. Sono solo dei bambini».
Clay inchiodò bruscamente, minacciando di sfondare il pianale e la scocca inferiore mentre pigiava sul pedale, facendo intraversare l’aeronave proprio sulla linea di mezzeria. I freni a vapore compresso sibilarono altissimi, assordanti. L’ingegnere rischiò di sfondare con una testata il cruscotto e di dire addio ai gioielli di famiglia quando la cinghia inferiore entrò in azione, mantenendolo ancorato al sedile dalla vita in giù.
«Sì, sono solo bambini! Proprio per questo dovresti tenere di più a loro!» ruggì Clay agguantandolo per la giacca e scuotendolo con tanta forza da scatenargli un conato di vomito. «Della tua vita fai quel cazzo che ti pare, Scorch. È inutile che te lo ripeto ogni volta, tanto non mi ascolti, fai sempre di testa tua. Però non far star male i miei figli! I tuoi nipoti! Non t’azzardare a deluderli di nuovo, o tutte le sbronze che ti sei beccato in questi anni saranno niente a confronto di come ti riduco io se vedo mio figlio piangere un’altra volta per colpa tua!»
La minaccia suonò talmente concreta che per un istante Scorch fu tentato di balzare giù dal mezzo e darsela a gambe levate. Se il pugno del cugino non fosse stato ancora chiuso saldamente attorno al bavero della sua giacca, probabilmente l’avrebbe fatto.
«Bonnie è più grande, comincia a diventare una signorina indipendente, come sua madre. Capisce da sola su chi può fare affidamento, di chi può fidarsi, anche se questo non le impedisce di restarci male. Junior no. Ti vuole bene e per qualche strano motivo ti reputa il suo migliore amico. Una specie di esempio persino. Tienilo a mente la prossima volta che ti avvicini a una bottiglia».
La Torran ripartì con un sospiro rauco, riportandosi al centro della carreggiata con una rapida sterzata.
L’aria fresca della sera riprese a schiaffeggiare i volti dei due, incapace di distendere i nervi.
Rimasero in silenzio per tutto il resto del tragitto fino a Cenelia.
Il quartiere si allungava su un susseguirsi di basse colline inframmezzate da giardini pubblici e viali tutti uguali. Era stato costruito durante il boom edilizio quindici anni prima, come esempio di quartiere modello. Clay aveva abitato lì fino al divorzio. Ora ci viveva Sandy con i bambini e lui aveva preso un appartamento a La Roscas, non lontano dall’officina.
La casa di Niklas invece si trovava a parecchi isolati di distanza, all’altro capo del sobborgo. L’attico-studio sporgeva dal tetto in una costruzione di mattoni bassa e lunga, dando l’impressione che una forza proveniente dal centro della terra avesse gonfiato in maniera comica la struttura, deformandola fino a farla somigliare ad un fungo di ferro e vetro. Anche al buio era possibile intuire la quantità di sporcizia che l’incuria depositava giornalmente sulle finestre a larghe pennellate.
La fissavano da alcuni minuti, quando Scorch decise di scendere. Abbozzò un saluto a malapena udibile e fece per avviarsi, ma la voce di Clay l’ obbligò a fermarsi.
«Domani ci portano una Glohess. È per il figlio di un commerciante di piastrelle di Uplands. Minima spesa, massima resa. Due settimane di lavoro; otto o novecento trias al massimo, inclusa la verniciatura. Vedi di farti venire qualche idea per darle un’aria più aggressiva, deve ricordare la Cannonball di Gunner».
Il progettista fece una smorfia. Quella sì era una signora airship, la regina delle corse sul miglio lanciato, un gioiello di potenza e aerodinamica, anche senza un fuoriclasse come Tyren Gunner ai comandi.
«Dici niente. Passare da un’utilitaria a un aeromobile da corsa non è uno scherzo» protestò debolmente.
«Il re dell’aerodinamica sei tu, Ingegner Almgren. Fai fruttare quella cazzo di laurea ogni tanto» lo riprese.
La lieve vena d’ironia incoraggiò Scorch a sollevare gli occhi dal marciapiede. Clay non lo stava guardando. Non l’aveva perdonato per l’appuntamento mancato, tuttavia sembrava essersi calmato, il che era di per sé un guadagno: se fosse sceso dalla Torran con l’intenzione di prenderlo a pugni, era certo che non se la sarebbe cavata a buon mercato. L’ultima volta era stato spedito al tappeto con incredibile facilità, nonostante fosse più grosso del cugino. In Clayton scattava qualcosa d’incomprensibile e terribilmente violento quando venivano toccati i suoi figli, qualcosa che lo rendeva una belva sotto ogni punto di vista, e che gli restava incollato addosso per ore, a volte per giorni. Qualcosa che Scorch era ben lontano dal comprendere o anche solo dall’intuire. L’unica cosa che sapeva, era che in quei momenti doveva evitare di avere a che fare con lui.
«Potenzierai il motore?» s’informò, sperando di distrarlo da qualunque ipotesi di aggressione.
L’altro annuì meccanicamente, armeggiando con una manopola per riassettare i diruttori2 del fianco destro.
«Devo dargli quei trenta cavalli in più, altrimenti è come vestire Pancake da corridore».
«Vedrò di pensare a qualcosa come si deve. Faremo un bel lavoretto» promise timidamente Scorch, aggiungendo una strizzatina d’occhi per sembrare più convincente.
In realtà, non era mai stato così poco fiducioso nelle sue capacità come in quel momento. Dentro di lui covava una paura folle, il timore di non essere all’altezza del proprio compito. Di non esserlo mai stato.
Clay lo fissò a lungo, il volto squadrato attraversato da pensieri indefinibili. La luce intermittente di un’insegna si rifletteva sulla testa rasata, lucida quanto la carrozzeria della muscle-ship, e sulle guance ispide che mordicchiava nervoso dall’interno. Uno scarpone tamburellava sul poggiapiedi con ritmo lento e ostile.
Infine tese la mano, senza sorridere.
«Mi fido di te, Niklas».


1 Archituono: macchina a vapore ideata da Leonardo da Vinci.
2 Diruttori: detti anche spoiler, sono dei piani mobili che consentono di far perdere portanza alle ali degli aerei, migliorando l’aderenza a terra durante l’atterraggio ma possono essere usati anche con funzione di aerofreni.


   
 
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