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Autore: Macaron    25/06/2013    6 recensioni
"Non piove il giorno del funerale di Mycroft Holmes e John quando si sveglia non può evitare di sentirsi infastidito. Si sente come se la città l’avesse tradito, come se gliel’avesse fatto apposta perché insomma è Londra e a Londra piove sempre e allora come diavolo è possibile che il giorno del funerale di un uomo che non ha mai visto senza l’ombrello non piova? "
Di primi bagni in mare, bigliettini infilati tra i libri di tuo fratello, cartelle cliniche, notti passate svegli a raccontarsi e api nel Sussex.
Pre-retirement!lock
Genere: Fluff, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non piove il giorno del funerale di Mycroft Holmes e John quando si sveglia non può evitare di sentirsi infastidito. Si sente come se la città l’avesse tradito, come se gliel’avesse fatto apposta perché insomma è Londra e a Londra piove sempre e allora come diavolo è possibile che il giorno del funerale di un uomo che non ha mai visto senza l’ombrello non piova? Il giorno del funerale di Mycroft Holmes John pensa che dovrebbe sentirsi molte cose, triste magari, ansioso per la reazione di Sherlock sicuramente, addolorato sicuramente, ma invece si sente solo arrabbiato con Londra perché ha deciso di non far piovere. Poi però mentre si sistema il nodo della cravatta, e cerca d’ignorare la crescente preoccupazione dovuta dal fatto che non vede il suo migliore amico da due giorni, pensa che forse per una città abituata a far piovere sempre il modo migliore di onorare un lutto, il lutto di un uomo che ha sicuramente speso la sua vita a proteggerla e renderla migliore, è proprio quello di sospendere i temporali per una giornata. John pensa che la città scelga di non far piovere proprio in quel giorno per rispetto per Mycroft, pensa che quell’assenza di pioggia sia l’equivalente di un minuto di silenzio, una giornata a ombrelli chiusi per una città che piange un uomo che l’ha molto amata. John pensa questo e anche se si sente un po’ infantile e stupido si sente anche meno arrabbiato con Londra, la odia un po’ di meno. Esce dal 221B di Baker Street con il suo ombrello più bello sottobraccio.

 

 


 

Sherlock Holmes non ha sempre odiato la scuola come sarebbe facile pensare. C’è stato un momento verso i nove-dieci anni in cui la scuola è interessante. Sherlock a posteriori lo identificherebbe come il periodo tra l’imparare a scrivere e contare, sciocco e noioso e comunque lui lo sapeva fare già quando gli altri bambini erano a dividersi pezzetti di pongo, e l’inizio della pubertà con l’arrivo di tutte le nozioni di astronomia, di storia antica e tutti i compagni di classe che lanciano bigliettini pieni di frasi sgrammaticate che dovrebbero fare colpo sulla ragazza più carina della scuola.

E’ il periodo dei primi libri di scienze, il periodo in cui inizi ad andare a scuola da solo e non ti accompagna più la governante e non ci sono più sciocchi cartoni animati ma puoi iniziare a sgattaiolare in biblioteca a leggere i libri sui serial killer e guardare i film da adulti, non quel tipo di film da adulti, fino a quando tuo fratello maggiore non ti scopre. E’ il periodo in cui la scuola è interessante anche per un bambino come Sherlock Holmes perché ci sono ancora così tante cose da scoprire e così tante cose che può decidere come utilizzare. E’ il periodo in cui il suo hard disk è così libero da poterlo occupare anche con qualche dato che in seguito andrà cancellato ma che sul momento sembra così interessante. In quel periodo a scuola arrivano i primi testi di biologia e Sherlock scopre il corpo umano, il suo funzionamento, le malattie che possono comprometterlo. E’ un periodo frenetico fatto di ore perse tra il microscopio, tra testi polverosi tirati giù dallo scaffale più alto della libreria ed esperimenti improvvisati su se stesso. E’ un periodo fatto di visite al pronto soccorso perché a quanto pare le dita non ricrescono se provi a tagliarle e “per fortuna che è arrivata la governante e ti ha trovato con il coltellino ancora in mano perché non so cosa sarebbe successo altrimenti, Sherlock!” e di notti insonni a confrontare le morti celebri con i primi dati raccolti. E’ un periodo in cui è facile trovare Sherlock nascosto nella vasca da bagno a fotografare il corpo della madre senza alcun tipo di morbosità, e al tempo stesso senza alcun tipo di tenerezza e non per cercare il contatto umano che in famiglia gli è spesso negato, ma solo per poterlo confrontare con le foto dei libri, per studiarne la storia clinica, i mutamenti, la forma. E’ il periodo in cui Sherlock confronta il fisico di suo fratello maggiore, ormai diciassettenne, con quello delle persone sui libri e lo scopre terribilmente mancante. E’ il periodo in cui Mycroft Holmes trova nei suoi libri di scuola bigliettini lasciati con una grafia quasi indecifrabile che fanno riferimento al suo sovrappeso e a possibili malattie cardiache. Per settimane, quasi per mesi, la stanza di Mycroft è piena di questi bigliettini. Alcuni contengono dati, studi, addirittura fotocopie di grafici che illustrano come l’obesità nell’adolescenza possa pregiudicare la salute da adulti. Altri sono sarcastici, per quanto possano esserlo biglietti scritti da un bambino di nove anni, sono battutine, frecciate, disegni di fette di torte e di teschi come quelli che si vedono nei libri sui pirati. Mycroft si arrabbia, s’innervosisce, minaccia Sherlock di sequestrargli il microscopio, di mandarlo al campo estivo e obbligarlo a socializzare, risponde per le rime alludendo all’evidente sottopeso del fratello minore che è sicuramente più evidente della sua presunta obesità (perché di presunta obesità si tratta visto che Mycroft è solo qualche chilo in sovrappeso), ma il pasto successivo alla lettura dei bigliettini si serve sempre una porzione più sostanziosa di insalata e una più ridotta di costolette d’agnello impanate. Sherlock è convinto che suo fratello da grande morirà per qualche malattia cardiaca dovuta al suo sovrappeso e non manca di ricordarglielo. Mycroft sbuffa, si lamenta, si arrabbia, mangia una porzione meno consistente di costolette d’agnello ma non capisce mai. Non capisce mai che in quei bigliettini c’è tutto quello che non riesce a vedere nel fratello minore, c’è tutta quella sensibilità che nessuno riconosce in Sherlock perché per tutti loro Sherlock è solo un bambino asociale, complicato, è un bambino che non sente niente e invece non è vero perché Sherlock le cose le sente solo che le sente poco o le sente tutte insieme e i sentimenti non sa cosa siano, non sa come funzionino perché nessuno si è mai sprecato ad insegnarglieli (perché forse nessuno sa come fare anche solo a parlarne o dimostrarli in quella famiglia) e quindi scrive dei bigliettini in cui dice a Mycroft che morirà d’infarto perché è troppo grasso e in realtà vorrebbe dire qualcos’altro. Mycroft muore per un edema cerebrale dovuto a un ictus a sessantasette anni. L’edema è la conseguenza di un ictus e tutto avviene in maniera rapida, incredibilmente rapida per un uomo così lento pensa John e si sente cattivo, e il medico ripete diverse volte che il peso non c’entra nulla, che in alcun modo il peso di Mycroft che negli ultimi anni è diminuito considerevolmente può aver influenzato quello che gli è successo. Il peso, il sovrappeso di Mycroft che ormai non è nemmeno più un sovrappeso perché come testimoniano grafici e tabelle è giusto giusto, non c’entra nulla con la sua morte ripete il dottore e Sherlock si sente un po’ felice mentre lo sente.

 

 


 

Non si siedono vicini in chiesa ma Sherlock è lì e già di questo John è contento e anche un po’ sorpreso e questo gli fa quasi male perché non dovrebbe essere sorpreso, perché è il funerale di suo fratello ed è normale che lui sia lì. La chiesa è enorme e piena. Piena di addobbi, piena di persone, piena di gente che parla. E’ così piena che sembra che non ci sia niente e John pensa al funerale di stato che ha ricevuto Sherlock, non il primo, non quello in cui non c’era nessuno ma quello arrivato quando ormai il suo nome era stato riabilitato, e a come anche lì tutto sembrasse pieno e vuoto insieme. John ricorda quel funerale, ricorda se stesso in prima fila e ricorda Mycroft e il suo ombrello e come, nonostante tutto gli sembrasse così poco adatto a Sherlock, vedere suo fratello maggiore l’avesse fatto sentire meno solo. Più arrabbiato, arrabbiato con lui che aveva venduto il suo migliore amico a Moriarty e non era nemmeno riuscito a scusarsi davvero maledetto damerino con l’ombrello, sicuramente ma anche meno solo.

La chiesa è enorme e piena di gente, piena di personaggi pubblici che ha visto solo sui giornali, tutti eleganti e impettiti e l’unica cosa che John vede oltre alla bara con la bandiera inglese è Sherlock. Sherlock con il suo cappotto scuro e con la sciarpa anche se dentro si muore di caldo, e mentre lo vede con la sciarpa stretta stretta come se fosse una coperta di Linus John sente così freddo che ha un po’ paura, e gli occhi fissi davanti a lui. Sherlock a cui non chiederà come sta perché tanto non gli risponderebbe, o gli risponderebbe con una frase che non vuol dire niente e che lui sa benissimo che non vuol dire niente, e a cui non si siederà vicino perché lui vuole così. L’unica cosa che vede John in quella chiesa è la testa riccioluta di Sherlock. Si siede in un posto un po’ troppo laterale e vicino a lui c’è una signora impellicciata con un profumo che sembra impestare tutta Londra perché da quel punto sulla panca riesce a vedere la testa del suo migliore amico. Non vede altro che qualche ricciolo, ormai color antracite, disordinato e un pezzo dell’orecchia sinistra e qualche centimetro della sciarpa ma sono i riccioli e l’orecchio e la sciarpa di Sherlock e tutto il suo mondo è racchiuso in quell’occhiata. La chiesa è enorme e rumorosa ma quando il prete inizia la predica John chiude gli occhi e gli sembra di non sentire altro che il respiro di Sherlock, lo riconoscerebbe ovunque perché non gli sembra di aver mai sentito nessuno respirare in maniera così profonda proprio come nessuno ha quella voce, e tutto il suo mondo è in quel respiro.

 

 


 

Sherlock non chiede a John di sedersi accanto a lui. Sherlock dice a John che si siederà in prima fila da solo perché non basta non chiedere al dottore di stargli accanto, lui lo fa comunque, deve dirglielo chiaramente. Non è che non lo voglia lì. Non è che non lo voglia accanto a lui. John è l’unica persona che vorrebbe accanto in qualsiasi momento anche quando non lo vuole vicino. E’ che gli sembra una mancanza di rispetto, è che pensa a Mycroft che ripete che le persone muoiono e che i sentimenti non sono un vantaggio e non pensa che sia giusto sedersi accanto a John e tenergli la mano o anche solo sentire la pressione del suo ginocchio contro la sua gamba. Tutti sanno di loro anche se in pubblico non sono mai stati particolarmente affettuosi e in ogni caso solo un idiota penserebbe di poter tenere all’oscuro l’uomo che controlla le CCTV di tutta Londra ma è una questione di pudore, di rispetto. Non ha mai dato nulla a Mycroft, non si è mai scusato con lui per essere stato semplicemente Sherlock ed avergli quindi detto sempre ogni cosa cattiva che gli è passata per la testa, non è mai stato per lui più di un fastidio e non ha mai visto in lui più del fratello maggiore pronto a scombinargli i piani, ad annoiarlo mortalmente e disturbarlo durante i suoi esperimenti quindi il minimo che può fare adesso è mostrargli un po’ di rispetto. L’unica cosa che può offrire a Mycroft durante il suo funerale è quella compostezza che l’ha sempre contraddistinto, è l’astensione dai sentimenti. Non è molto e probabilmente arriva troppo tardi ma è l’unica cosa che Sherlock è può dargli in quel momento. Sherlock non si siede accanto a John ma per tutta la durata della cerimonia sente lo sguardo del dottore sulla sua nuca, non spende nemmeno un secondo a chiedersi se lo possa vedere anche Mycroft perché il lutto non lo rende così stupido e sentimentale e perché comunque se c’è qualcuno capace di vedere tutto e ovunque quello è sicuramente suo fratello, e per un attimo sorride pensando a come il dottore gli stia anche in quell’occasione guardando le spalle. Non rimane per il banchetto dopo la sepoltura, non saluta nessuno e si perde per Londra. John gli manderà dei messaggi a cui lui non risponderà e sarà ancora lì quando lui tornerà nell’appartamento e non gli dirà niente e andrà bene così. Almeno un po’.

 


 

 

Quando Sherlock torna a casa è sera inoltrata. John ha passato tutta la giornata con persone che non conosce che hanno raccontato di eventi che non conosce con una persona che in realtà non conosceva nemmeno. Sherlock è scomparso ancora prima che iniziasse il banchetto e ovviamente non gli ha chiesto di andare con lui, dovunque sia andato, ed è andata bene così perché è così che lui si comporta e soprattutto in questo giorno John si sente più incline al perdono. Gli ha mandato un paio di messaggi, nulla di strappalacrime, nulla di vagamente sentimentale, a cui non ha risposto e poi è tornato a casa e ha messo il tè nel bollitore ed ha aspettato il suo ritorno.

Quando Sherlock torna a casa non lo saluta nemmeno, si limita ad appoggiare un borsone che la mattina al funerale non aveva e poi scompare in cucina a dedicarsi a qualche esperimento. John si alza, accende il fuoco sotto il bollitore e versa una tazza d’acqua non proprio bollente in una tazza che gli appoggia sul tavolo. Sherlock non gli dice nulla, non alza nemmeno lo sguardo dal microscopio ma quando ritorna alla sua poltrona John riesce a sentirlo appoggiare le sue lunghe dita contro la tazza bollente come a crogiolarsi in quel calore.

Sherlock si dedica ai suoi esperimenti per ore senza degnarlo di considerazione. Verso mezzanotte mentre John è immerso nella lettura di una rivista medica che ormai conosce a memoria, non ha acceso la televisione perché non gli sembrava il caso d’invadere la casa con le grida dei commentatori durante l’ultima partita dell’arsenal, finalmente gli parla.

“Dovresti andare a dormire, tu dormi avrai sonno.”

“ No non ho sonno” obietta mentre soffoca uno sbadiglio che arriva in maniera quantomeno inappropriata “ Rimango qui nel caso avessi bisogno di qualcosa.”

“ Di cosa dovrei aver bisogno?” risponde Sherlock arricciando un po’ il nasco come quando è genuinamente stupido.

“ Non parlavo di te, parlavo di me. Nel caso io avessi bisogno di qualcosa preferisco rimanere qui, sono più vicino a te rispetto a camera nostra.”

“ Hai sonno, vai a dormire.”

“ Rimango qui. Rimango qui e quando avrai finito il tuo esperimento sarò ancora qui. E anche quando avrai fatto esplodere la cucina sarò ancora qui. Con i capelli dritti ma sarò ancora qui.”

John dice così e spera che sia abbastanza. Sherlock annuisce e risponde con un mugugno.

 

 


 

Sono quasi le tre del mattino quando John si sveglia di soprassalto. Non sa nemmeno quando si è addormentato, anche se dev’essere successo mentre leggeva l’ultimo capitolo di The Rotters Club stando al libro caduto ai suoi piedi, ma quando sveglia davanti alla sua poltrona è stato trascinato maldestramente il divano e Sherlock vi è sdraiato con la schiena appoggiata a lui. E’ un’immagine buffa, Sherlock sdraiato sul divano che sembra quasi il lettino di uno psicanalista con la testa che arriva a sfiorare il suo grembo, ma in quel momento c’è anche così tanta intimità che ha quasi voglia di piangere e di tirarsi un pizzicotto giusto per essere sicuro di non star ancora sognando.

“ Mi ha insegnato a nuotare.” La voce del consulente investigativo è più bassa e roca del normale e John si perde ad ascoltarla in silenzio.

“ Mycroft. Da bambino avevo paura dell’acqua, almeno dell’acqua che non capivo, dell’acqua di mare. Avevamo questa casa nel Sussex con una pineta e una spiaggia privata e io sapevo già nuotare in piscina, avevo imparato a quattro anni senza braccioli, ma l’acqua di mare mi terrorizzava. Era scura e non la capivo.” La voce di Sherlock trema un po’ e John non sa se leggervi una fragilità o una risata a ripensarsi un bambino spaventato. Seppellisce le mani tra i riccioli del suo migliore amico e inizia ad accarezzarglieli. E’ un contatto familiare, quello con la testa di Sherlock, con i suoi capelli. Le sue dita non sono lunghe e sottili e belle come quelle del consulente investigativo ma sembrano essere perfette per incastrarsi tra quei riccioli. Lo sono sempre state, lo sono state nelle prime settimane dopo i tre anni d’assenza di Sherlock quando passavano le notti vicini, solo a sfiorarsi appena senza capire come riuscire a passare da essere solo amici ad anche amici. Lo sono state le volte in cui il suo migliore amico è finito in ospedale e si è ritrovato a sbrogliare quei capelli disordinati e sporchi di sangue e sentire in quel contatto che lui era vivo e che poteva continuare a respirare. Sembrano nate per incastrarsi, per giocare e per accarezzare quei riccioli almeno quanto lui è nato per proteggere Sherlock Holmes.

“Nessun Holmes aveva paura dell’acqua“ continua Sherlock mentre si rilassa sotto le sue mani “disse mio padre, nessun Holmes poteva aver paura di una cosa così stupida come l’acqua ma io ero solo un bambino, avevo solo cinque anni e il colore di quel ritaglio di mare davanti alla nostra villa nel Sussex era così scuro che mi tremavano le ginocchia.”

John sorride per quell’immagine e poi pensa al suo amico sul cornicione dell’ospedale e si chiede se anche quel giorno prima di tuffarsi gli tremassero le ginocchia e se la sua voce gli sia stata di un qualche conforto.

“ Mycroft era nel pieno dell’adolescenza, non doveva avere più di tredici anni, ed era davvero più grasso del normale e mi ricordo che un giorno mi si avvicinò mentre ero arrampicato su uno scoglio a far finta di non avere paura dell’acqua e si offrì di portarmi a fare il bagno. Non ero convinto, ovviamente, non cambiava nulla, l’acqua era sempre la stessa anche se lui era lì con me. Ma poi Mycroft disse qualcosa di stupido, di così poco da Mycroft, come che visto quant’era ingrassato mi avrebbe fatto da boa o da salvagente o qualcosa di simile e che non dovevo avere paura perché sarebbe stato lì a controllare che non mi succedesse nulla.” La voce di Sherlock a questo punto è solo un sussurro e una mano del dottore si sposta dai riccioli per andare ad accarezzargli la spalla. “ Ho dimenticato la frase esatta perché si trattava di sentimenti e perché poi le cose con Mycroft sono state come le hai sempre viste tu e perché Mycroft ed io siamo sempre stati come ci hai conosciuti ma in quel momento mi ha preso la mano e io non ho avuto paura dell’acqua. Se cadessi nel Tamigi adesso non morirei perché Mycroft si è reso ridicolo paragonandosi a una boa per insegnarmi a non aver paura di nuotare anche quando l’acqua è scura.

Il silenzio cala e per qualche minuto rimangono entrambi ad ascoltare i rispettivi respiri che si sincronizzano.

“Ti piace il mare, John?” E’ Sherlock a ricominciare a parlare, di nuovo.

“ Perché? Sì mi piace, mi piace come piace a tutti direi.” Risponde vagamente perplesso.

“ Pensavo alla casa nel Sussex, c’è ancora ed è mia. Potremmo andarci.” Lo dice così, come se gli avesse appena proposto di andare a mangiare dei biscotti della fortuna nel ristorante cinese e a John quasi prende un colpo.

“ Cosa? Ma perché?”

“ Hai visto la borsa che ho portato a casa prima? Dentro ci sono tutti i tuoi documenti clinici, tutta la storia della tua famiglia. Ho fatto questo oggi pomeriggio, sono andato a conoscere la tua storia.” Se non fossero così vicini John pensa che non riuscirebbe nemmeno a sentirlo parlare, che capirebbe che sta dicendo qualcosa solo dal suono del suo respiro.

“ Come hai fatto?”

“ Stai diventando lento, John Watson mi deludi.” Ride giusto un pochino. “ I pass di Mycroft, le meraviglie della lentezza del nostro sistema informatico. Lui è praticamente il governo inglese, lo sai.”

Questa volta è John a ridere e in quella risata c’è un po’ di sollievo, c’è il riconoscere il suo Sherlock che è sempre lì, che è sempre stato lì.

“ Soffrivi d’apnea notturna da bambino. Tuo padre pensava che fosse dovuto al fatto che eri un bambino leggermente più tozzo del normale ma tua madre ti trovava perfetto e ti ha portato da diversi medici insistendo fino a che non ti hanno tolto le adenoidi. Da allora hai smesso di soffrirne, anche se russi ancora.”

“ Io non russo!” risponde John scandalizzato.

“ Russi. Sono vent’anni che non-dormo tutte le notti al tuo fianco, lo so che russi.” Sherlock continua a parlare come se leggesse una cartella clinica. “ La prima volta che sei finito in ospedale da solo avevi sette anni, ti sei rotto un dito in bicicletta. Frattura da schiacciamento, insolita per una caduta in bicicletta.”

“ Io sono caduto ma è caduta anche Harry e mi è caduta addosso, il dito me lo sono rotto così. Non siamo mai andati d’accordo nemmeno noi, lo sai.”

Sherlock annuisce. “ Salmonella a dodici anni. Di solito non si finisce in ospedale per questo ma tua madre non pensava si trattasse di salmonella ma di una semplice influenza intestinale quindi non l’ha curata per due settimane e sei stato ricoverato. Roba di tre giorni.”

“ Non è colpa di mia madre, avevo provato a fare il tiramisù come lo faceva sempre mio padre per il mio compleanno e non volevo dirglielo perché lui era morto e a lei sarebbe dispiaciuto.” John arrossisce.

“ Uova non pastorizzate, ovvio. Poi qualche contusione. L’Afghanistan ovviamente. Tutte le visite in ospedale con me, quelle le conosco così bene che non ho bisogno di sfogliare nulla. Tuo padre è morto per un incidente, tua madre per un infarto. Le malattie cardiache sono comuni per la tua famiglia e come lo sciocco medico ha insistito a ribadire oggi, probabilmente pensando di avere a che fare con Anderson, lo stress non fa bene per chi ha una predisposizione del genere quindi il Sussex.”

“ Il Sussex?”

“ Inizio a pensare che qualcuno mi abbia tenuto nascosto un caso di precoce demenza senile. Sì il Sussex, John. Per la pensione, la tua e la mia. Da domani possibilmente. Mrs Hudson potrà mandarci le nostre cose senza problemi, tanto tu non possiedi praticamente niente e io posso ricomprare tutto. Non sono risultati componenti della tua famiglia allergici alle api, sei allergico alle api?”

Questo è il genere di momento in cui John si chiede se è stato teletrasportato in un altro universo e se quella è davvero la sua vita, poi guarda in basso, aggancia gli occhi a quelli chiarissimi e luminosi del suo compagno e sa che non potrebbe volere nulla di diverso nemmeno quando si sente stupido e non capisce le cose.

“ No nessuna allergia, ti devo chiedere perché?”

“ Pensavo di allevare delle api, c’è spazio nella Villa. Ho sempre pensato che mi sarei dedicato all’apicoltura durante la pensione.” C’è un con te non detto che aleggia su di loro ma Sherlock non ha bisogno di dirlo ad alta voce, entrambi lo vedono fluttuare.

“ Potrei iniziare a dolcificare il tè con il miele, dicono che esalti particolarmente il bancha.” John dice così e dentro a quella frase c’è tutto il loro mondo, c’è: sì voglio partire domani per un posto che non conosco e vivere una vita di cui non ho idea perché tu hai letto tutta la mia storia clinica solo per sapere come fare a non farmi andare mai via e va bene, va bene anche se non me lo dirai mai, va bene anche se continuerai a trattarmi come un idiota, a non parlarmi per me e non dirmi come stai perché io continuerò ad esserci, perché non ci sono alternative. Perché non voglio delle alternative. “ Non ti annoierai nel Sussex? Senza i casi, non ti annoierai?”

“ Ci saranno le api, John.” Ci sarai tu.

“ Mi piacciono le api.” Ci saremo noi.

 

 

 


 

 

Solito pippone e blabla: Tutto ciò è colpa di quest’immagine e di Nat e Cri che hanno iniziato a parlarne e a me è venuta fuori questa cosa che doveva uscire (roba che ero con aperti altri due file di word e niente la testa continuava ad andare a questa storiellina). Solita dose di diabete e malinconia e coccoline. Si ha sempre bisogno di coccoline, almeno io ne ho sempre bisogno, sono un cuore di panna. 

 

 

 

 

 

  
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