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Autore: White_099    25/06/2013    2 recensioni
Gli Hunger Games visti da Marvel.
Il percorso di un ragazzo verso la morte.
Un ragazzo che aveva come unica colpa quella di essere troppo ingenuo.
(Accenni Marvel/Glimmer quasi inesistenti)
"Sentì la verità colpirlo con la stessa forza della freccia.
Stava morendo.
Stava morendo e vedeva il tempo che gli rimaneva scorrere sull’erba macchiandola di rosso.
Stava morendo e non era più un dio.
Stava morendo e nessuno si sarebbe ricordato il suo nome."
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Lux , Marvel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gods of death

"As I try to avoid looking at his family,
I learn that his name was Marvel.
How did I never know that?
I suppose that before the Games I didn't pay attention
and afterwards I didn't want to know."
-Marvel

Marvel era stato ingenuo.
Aveva creduto a tutto quello che gli avevano raccontato. Dall’inizio alla fine aveva ingoiato quelle menzogne, le bugie spudorate di chi sa che gli ascoltatori crederanno a tutto quello che dice, e le aveva fatte sue, se le era ripetute, lo avevano visitato nel sonno fino a quando non era più riuscito a ricordare quando avesse iniziato a crederci davvero.
Sarai famoso.
Sarai ricco.
Sarai ricordato.
Sarai felice.
Sarai un dio.

Marvel aveva dieci anni. “Pensa a una qualsiasi cosa, Marvel. Intendo letteralmente. Una cosa che desideri più di qualsiasi altra, che ti renderebbe felice.” Era suo padre a parlargli, tenendogli una mano sulla spalla con un affetto che non aveva.
Il bambino ci pensò un attimo, con aria concentrata cercava una risposta adeguata ad una domanda che non aveva ancora bene compreso. “Vorrei che Scarlett mi amasse.” Si illuminò mentre pensava alla bambina dai capelli rossi e il vestitino luccicante che gli aveva rubato il cuore. Suo padre rise divertito, gli scompigliò i capelli castani e gli rispose: “Sai cosa dovresti fare? Vincere gli Hunger Games, tornare a casa incoronato dal Presidente Snow e allora tutte le ragazze ti vorrebbero. Stanne pur sicuro. Impegnati, allenati, preparati. E poi vai. Potrai avere tutto quello che vuoi. Sarai padrone del mondo.”
E Marvel, bambino, ingenuo, abituato a credere ai suoi genitori, pensò che era una ottima idea.
“Diventerai un dio.”
E suonava così bene, quella parola così strana.

Marvel aveva diciassette anni e le ragazze dai capelli rossi non gli interessavano più.
Marvel non aveva tempo per interessarsi a niente.
Per gli ultimi sette anni la sua vita era stata un alternarsi di allenamenti e promesse e promesse e promesse.
Avrebbe avuto tempo per il resto dopo aver vinto.
La fatica sarebbe stata ripagata.
Il suo nome sarebbe restato vivo per sempre.
Ormai Marvel aveva smesso di opporsi al flusso di parole che scorrevano per il suo cervello.
Le lasciava entrare, lasciava che diventassero vere.
In fondo era quello che aveva scelto.
Marvel aveva diciassette anni e tutto il Distretto lo guardava mentre saliva sul palco.
Volontario.
Scrutava la folla che applaudiva dall’alto e sapeva che quello era il suo posto, che quello era il suo destino. Sembrava di respirare un’aria diversa, più fresca, più saporita.
Marvel si godette a fondo quella nuova sensazione. Lui non apparteneva alla folla, lui era diverso.
Era speciale.
Marvel salutava suo padre e sua madre, orgogliosi di lui, con abbracci arroganti che dicevano “a presto”. Li salutava e mentre saliva sulla locomotiva non vedeva l’ombra di timore che aveva attraversato gli occhi di sua madre.
E ora era sul treno e scrutava la ragazza seduta di fronte a lui.
Capelli biondi, acconciati alla moda del Distretto. Occhi verdi, sicuri, implacabili. Un sorriso crudele che le deformava leggermente i lineamenti ma allo stesso tempo le donava molto. Lo stesso sorriso che Marvel si sentiva comparire sul viso.
Il sorriso di chi è sicuro della vittoria.
Il sorriso dei Favoriti.
Il sorriso degli dei.

Marvel aveva diciassette anni ed era entrato nell’Arena.
Finalmente stava per fare quello per cui era stato allenato. Vincere.
Corse verso la Cornucopia più velocemente degli altri.
Arrivò per primo e schivando un fendente inesperto del Tributo del Distretto Sei riuscì a raggiungere una spada che aveva adocchiato dall’inizio.
Mentre la lama affondava nel corpo del ragazzo di fronte a lui, Marvel cercava di ignorare il suono strozzato che proveniva dalla gola del Tributo morente, le gocce di sangue che gli arrivavano in faccia. Estrasse la lama e spinse il corpo di lato prima di poterlo guardare.
Sangue, sangue.
La gola squarciata di una ragazza.
La testa spaccata di un’altra.
Gli squarci nel torace di un Tributo.
E raggiunse la cima.
Scelse con cura le proprie armi, prendendosi il suo tempo, respirando piano, scacciando con determinazione il disgusto che aveva provato per sé stesso, la paura.
Si sentiva bene, non era stato colpito, i muscoli non gli dolevano. Era potente.
Si godeva la quiete dopo la tempesta.
Ormai tutti i Tributi erano morti o scappati.
Rimanevano loro quattro.
Si girò a contemplare lo spettacolo insieme agli altri.
Erano dei, che osservavano con disprezzo e superiorità i mortali. E sebbene lo spettacolo fosse disgustoso, loro erano quello.
Erano dei della morte, e morte era quello che davano.
Il prato era disseminato di corpi, circondati da macchie di sangue ancora fresche.
Occhi che sembravano seguirlo come fantasmi.

Marvel aveva diciassette anni e non credeva più a niente.
Marvel aveva ucciso, aveva squarciato gole, trafitto petti.
Tributi sorpresi alle spalle o rincorsi per ore. Alcuni li avevano implorati, altri non ne avevano avuto il tempo. Alcuni avevano provato a respingerli fino all’ultimo respiro, altri si erano abbandonati nella braccia della Morte quasi sollevati.
Ma alla fine erano tutti uguali.
Carne e sangue.
Tutto quello che erano era carne e sangue.
Non c’era nient’altro.
E nemmeno Glimmer era riuscita ad evitarlo. Nemmeno lei con quell’aria così sicura, nemmeno lei che sembrava camminare su una passerella anche in mezzo al fango. Nemmeno lei che era una di loro.
Era caduta. Bruscamente la Morte aveva deciso di ricordarle che neanche gli dei sono immortali.
Lei che era tanto bella con quel viso dagli spigoli arrotondati.
Lei con gli occhi verdi che sfidavano chiunque ad attraversarle la strada.
Lei ora giaceva sulle foglie secche.
Gonfia, coperta di pus, il volto sfigurato dalle punture, gli occhi aperti che fissavano disperati il cielo.
Morta.
L’aveva sentita urlare, implorarli di aiutarla, di tornare indietro. Ma Marvel aveva continuato a correre.
Aveva corso fino a quando non aveva incontrato l’acqua e l’aveva lasciata sciacquare via il sangue.
Ma dietro alle palpebre, quando chiudeva gli occhi, tornava sempre.
Fluiva come da una ferita aperta, e Marvel aveva paura di annegarvi.

Marvel aveva diciassette anni e stava precipitando.
Ma quando sentì la voce che stava aspettando da ore, corse sentendosi di nuovo padrone della morte. Gli alberi si scansavano al suo passaggio, le radici non lo facevano più inciampare.
Correva e gli sembrava di volare.
La vedeva, una macchia scura nella vegetazione, intrappolata, che cercava inutilmente di liberarsi, con la forza primitiva degli animali che sentono avvicinarsi l’inevitabile morte.
Bilanciò la lancia e tirò.
E mentre la bambina vedeva la lancia avvicinarsi velocemente, lo guardò.
Fissò i suoi occhi marroni in quelli azzurri di Marvel.
E li chiuse quando la forza dell’impatto del suo piccolo corpo con la lancia la scagliò indietro.
Marvel entrò nella radura ancora correndo e si fermò.
Guardò l’ennesima prova che lui era superiore, che i mortali non reggevano il confronto con gli dei, cominciare a dissanguarsi lentamente.
E poi una freccia lo colpì nel collo.
Marvel cadde a terra, e il sangue non era più solo nella sua mente.
Marvel cadde e non era più immortale.
Sentì la verità colpirlo con la stessa forza della freccia.
Stava morendo.
Stava morendo e vedeva il tempo che gli rimaneva scorrere sull’erba macchiandola di rosso.
Stava morendo e non era più un dio.
Stava morendo e nessuno si sarebbe ricordato il suo nome.

Era caduto, come Glimmer, come tanti prima di loro.
Era caduto come non pensava potesse succedere.
E si sentì inferiore alla bambina che stava morendo per mano sua a pochi metri di distanza.
Ed era d’accordo con chiunque avesse lasciato andare la corda dell’arco, perché lui non meritava più la vita. Si strappò la freccia dal collo e lasciò che il sangue scorresse.

Marvel aveva diciassette anni.
Marvel non ne avrebbe mai compiuti diciotto.

***
Angolino di white <3
Alors, ciao a tutti e innanzitutto grazie per aver letto. 
Ovviamente tutte le recensioni sono gradite, quindi un doppio grazie se deciderete di darmi un po' del vostro tempo per dirmi come l'avete trovata.
Comunque Marvel. Beh, non è un personaggio che mi ha mai ispirato particolarmente, ma mentre scrivevo questa robetta ho cominciato a farmi un'idea di come vedo il personaggio. 
Per me Marvel è sì una vittima, perché è stato cresciuto per gli Hunger Games, ma allo stesso tempo non è essenzialmente buono. Certo, in tutte le mie fanfiction sui favoriti, questi ad un certo punto si "redimono" se si può dire, ma qua ho comunque voluto lasciar scritto che a Marvel piace quello in cui si è ficcato. Gli piace la sensazione di potere, l'eccitazione, il pensiero di essere un dio.
Quindi ho voluto lasciare il disgusto che inizialmente prova per l'uccisione in se e qualche accenno al danno psicologico portato dall'omicidio di un essere umano, ma in fondo non ho voluto che si rendesse conto del danno che ha fatto.
Il declino di Marvel è legato al fatto che capisce che non vincerà i Giochi, non al pensiero di aver ucciso degli innocenti.
Passando ad altro, l'accenno alla Marvel/Glimmer è davvero lievissimo, ma giuro che si è infilato nella storia senza che me ne accorgessi. E devo dire che mi piace. E diamine, però, mettere delle coppie di Tributi nell'Arena lascia molto spazio ai pairing ;) non è colpa mia.
Ora vi lascio, scusate se vi ho trattenuto più del solito ma volevo spiegare cosa intendo con questa fanfiction.
Chiudo
White <3

   
 
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