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Autore: moonwhisper    10/01/2008    30 recensioni

In questa one-shot Bill Kaulitz morirà.

In questa one-shot l'amore non avrà il ruolo di protagonista.

Questa one-shot vi lascerà l'amaro in bocca.

Questa one-shot è diversa.

Ora sta a voi decidere cosa fare.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dunque, prima di cominciare a leggere questa Fan Fiction gradirei che dedichiate sei dei vostri preziosi secondi a leggere questa introduzione, perché nel qual caso la ignorerete e la mia storia vi impressionerà/infastidirà/turberà non potrete venire a lamentarvi con me ^^.

Innanzitutto ci tengo a specificare che non sono una pazza assetata di sangue, e che non amo nessuno dei Tokio Hotel. Ho scritto questa storia solo per provare qualcosa di nuovo (essendo che scrivere mi appassiona molto). Mi piaceva l’idea si. I pensieri scritti in questa Fan Fiction NON MI APPARTENGONO. Io NON SONO LA PROTAGONISTA FEMMINILE.

Se alla sola notizia che Bill si sia accecato sparandosi un po’ di lacca nell’occhio entrate in crisi, vi consiglio vivamente di non leggere questa Fan Fiction. Vivamente.

Detto ciò, i commenti, le recensioni e i suggerimenti fanno sempre piacere, siano negativi o positivi. Fatemi sapere cosa ne pensate di questa nuova sperimentazione.

Buona lettura.

_Phan_

 

 

 

Londra, 13 Ottobre 2010

 

[Soundtrack: Sunburn – Muse]

 

Accese la sigaretta con tranquillità e appoggiò la testa al cemento freddo. Guardò il cielo, oscurato dalla nuvola di fumo grigio che aveva soffiato fuori dalla bocca. Anche quando il fumo si dissolse il cielo non cambiò molto. Era un cielo malato, pesante. Se lo ricordava sempre così il cielo di Londra, in ventidue anni della sua vita non l’aveva mai visto diverso. Vagò con lo sguardo sulla desolazione che la circondava.

Erano le tre di mattina. Le tre in punto. Tutto procedeva secondo il programma.

Ancora diciotto ore, solo diciotto ore. Pensò alla coda che l’aspettava, alle urla, alle gomitate, alle botte, alle spinte. Non le importava, conosceva già tutto abbastanza.

Accarezzò con gli occhi le sbarre degli enormi cancelli dello stadio ed appoggiò una guancia sulla superficie di metallo, gelida. Non le importava perché passate le diciotto ore l’avrebbe finalmente visto. L’avrebbe visto davvero, di carne e sangue, un corpo, non più fatto di pixel e carta stampata che scoloriva.

Fece un altro tiro e soffiò il fumo oltre le sbarre.

Ancora un poco, così poco…e io ti salverò Bill. Ti salverò per sempre…

 

 

Guardò fuori dal finestrino oscurato. Quel vetro faceva apparire tutto così cupo e spento che quasi doveva costringersi a guardare altrove. Ma rimase li, semplicemente troppo stanco per spostare gli occhi.

Londra. Aveva scoperto di dover cantare li quella sera solo quando la hostess aveva annunciato l’arrivo all’aeroporto nell’altoparlante dell’aereo, facendolo svegliare di soprassalto. Tom aveva riso. Ogni risata di Tom lo sorprendeva. Suo fratello lo metteva candidamente di fronte all’onnipresente realtà che qualcuno riusciva ancora a sorridere in quel modo. Avrebbe voluto ricordare come si faceva. Un tempo sorrideva e rideva anche lui in quel modo, dovevano essere passati pochi anni…ma era come se qualcosa gli fosse stato tolto, senza preavviso.

Abbassò lo sguardo sulle mani e pensò a quello che avrebbe dovuto fare quella sera. Ogni giorno studiava la scaletta di un nuovo concerto e cercava di memorizzarla. David gli aveva detto di farlo. David era contento se lui lo faceva. Ma David ignorava che per memorizzare quelle scalette ora doveva rileggerle più di settanta volte, e la sua mente ancora si rifiutava di rispondere.

Per l’ennesima volta si sentì stanco. No…stanco era troppo poco. Si sentiva stremato. Tirato, straziato, dilaniato. Prigioniero, prigioniero di se stesso. Dei suoi capelli lunghi e neri, delle sue unghie smaltate, dei suoi occhi coperti dall’ombretto, dei suoi vestiti. Prigioniero dei suoi sorrisi campionati e scelti, del suo modo di parlare, di muovere le mani.

Non ricordava nemmeno più quando aveva cominciato ad odiarsi. Forse era stato un anno prima, forse due, forse quando si era reso conto che il sogno ci aveva messo davvero poco a trasformarsi in incubo.

Alzarsi la mattina e voler abbandonare il suo corpo sul letto, per sempre. Non riuscire più a trovare uno scopo e un perché. Sentirsi rinchiuso in panni sempre più stretti.

Bill Kaulitz non c’era più. Di lui era rimasto un involucro. Un involucro vuoto.

Avrebbe dovuto chiedere a Saki gli antidepressivi…e gli ansiolitici…e i tranquillanti…e quelle pastiglie che ingoiava prima di ogni concerto…

 

 

Strattonò violentemente una ragazza bionda e la spinse addosso alle sue amiche, digrignando i denti. La ragazza cadde e le altre la tirarono su, interdette. Le lanciarono qualche occhiata scioccata e impaurita, poi guardarono altrove. Almeno non avrebbero più spinto.

Erano diciassette ore e mezza che si ritrovava li. Aveva finito il primo pacchetto di sigarette e si sentiva nervosa. Ma non era stanca, no. Era ancora nel pieno delle sue forze, e aveva difeso la sua prima fila di fronte a quel cancello con qualsiasi mezzo. Nella mattinata aveva tirato anche qualche schiaffo. Non si sentiva particolarmente in colpa. Il rimorso era l’ultima cosa che le passava per la mente in quel momento.

Le odiava tutte.

Odiava il loro odore, il loro sudore misto a profumi dolciastri e pesanti. Odiava le loro urla isteriche, la loro debolezza, il loro desiderio di fotografare qualunque cosa. Ottuse. Stupide. Insensibili.

Non capivano, non capivano nulla.

Aprì il secondo pacchetto di sigarette e ne infilò una tra le labbra.

Ancora poco…la smetteranno Bill, te lo prometto. Smetteranno di perseguitarti.

 

 

Quando ingoiò l’ultima pastiglia azzurra il bicchiere d’acqua era stato svuotato del tutto.

Si guardò nello specchio. Non ci vedeva più niente ormai. C’era solo un corpo. Un corpo dal viso un po’ gonfio e dalle occhiaie ben nascoste dall’ombretto. Occhiaie profonde, occhiaie d’insonnia. Non riusciva più a dormire da quando aveva compiuto i diciannove anni. Il suo dottore diceva che era lo stress, il suo manager che doveva solo curarsi. Era li che avevano cominciato a riempirlo di pastiglie. Lui aveva smesso poco dopo di leggere le controindicazioni. Li lasciava fare. Dopotutto cosa importava? Che gli si disintegrasse lo stomaco aveva una reale importanza? No…

Si alzò lentamente ed osservò l’estraneo nello specchio imitarlo.

Che vestiti indossi oggi Bill? Cosa hanno scelto per te stavolta?

Nemmeno quello aveva importanza. Niente più ne aveva.

 

 

I cancelli si aprirono. Tutta la massa urlante raccolse le ultime forze e si lanciò nella corsa.

Ma lei correva più veloce. Scattò con le lunghe gambe e si portò davanti a tutte. I polmoni cominciarono a cedere dopo le prime dieci falcate, ma lei non rallentò. Era più forte della sua stessa debolezza. Corse fin quando non raggiunse la transenna. Quella transenna. Quella esattamente di fronte alla pedana centrale. Li l’avrebbe vista.

Si accasciò contro la balaustra metallica e cercò di riprendere il respiro. Lo sterno le faceva tanto male che le veniva da vomitare. I polmoni fischiavano e bruciavano.

In pochi istanti sentì centinaia di corpi premere contro di lei, mani strattonarla. Si avvinghiò con le braccia alla transenna.

Nessuno. Nessuno l’avrebbe fermata.

 

 

Urlavano tanto forte che non sentiva più la sua voce.

Cantava, cantava parole conosciute a memoria che ormai non tradivano più nessuna emozione. Dopotutto… erano sono parole.

Non era in se. Eppure era consapevole di non esserlo. Sentiva una patina di sudore malsano e freddo coprirgli la fronte. Sentiva il suo corpo muoversi, camminare avanti e indietro sul palco, ma in realtà lui non era li. La sua mente continuava a dibattersi, imbrigliata da pesanti ragnatele che gli confondevano i pensieri. Riuscire a riprendere il controllo, dopo che ingoiava quelle pastiglie, era diventato sempre più difficile.

Vide se stesso camminare lungo la pedana che spuntava in mezzo al mare di mani alzate. Migliaia di voci urlavano il suo nome, voci quasi disumane. Vide mani tese verso di lui, occhi tutti uguali, vitrei, appannati dallo stesso delirio. Trucco sbavato, flash di macchine fotografiche, rumore di corpi che saltano.

E poi… vide lei.

 

Bill Kaulitz incontrò il destino quel giorno, senza nemmeno avere le forze di sospettarlo. Firmò il finale scelto per la sua vita, senza fermarsi a riflettere. Ma in realtà, a qualcuno di noi è consentito farlo?

 

 

Lei non urlava. Lei non piangeva. Lei non saltava.

Lei era immobile. Una bellissima statua di cera bianca. Era magra, il volto incorniciato da lunghi capelli neri, scurissimi, la fronte coperta da una frangia perfetta. Sulla pelle candida la bocca scarlatta sembrava bruciare. Appena sotto la frangia un paio di occhi scuri lo guardavano.

Provò per la prima volta una sensazione stranissima. Quello sguardo era diverso dagli altri. Quegli occhi, così densi, non vedevano il cantante, non vedevano il simbolo, non vedevano semplici abiti. Vedevano la verità. Il vuoto dentro di lui, il suo tremore impercettibile. Non era più il cantante dei Tokio Hotel, ancora sulla cresta dell’onda, ancora osannati. Vedevano solo Bill. Bill, l’essere umano, il ragazzo.

 

Lei brucia come il sole

Non posso guardare altrove

Distruggerà i nostri orizzonti

Non farà errori

 

[Soundtrack: Canos – Verdena]

 

La sua mente tranciò la fitta rete di ragnatele e riprese possesso del suo corpo.

Realizzò all’istante che voleva avvicinarsi a quella ragazza.

Si sporse oltre il bordo della pedana. Lei non si muoveva. Continuava a tenere gli occhi fissi dentro ai suoi.

Forse era un sogno…

L’aria era più densa e improvvisamente aveva acquisito un odore dolce, delicato…

Bill tese una mano verso la ragazza. Lei la afferrò. Era una mano dalle dita lunghe, sottili, una mano perfetta. Si strinse attorno alla sua trasmettendogli un calore rassicurante.

Qualcuno aiutò quella strana presenza a raggiungerlo sul palco.

Si alzarono insieme, occhi negli occhi.

Lei non aveva lo sguardo sorpreso. Era come se sapesse.

E forse era proprio così.

L’aria attorno a loro vibrò di quelle urla disumane, che divennero sempre più cupe, fino a sembrare ultraterrene. Una luce bianca fece brillare i loro profili contro l’oscuro mare di occhi inquieti.

Era tutto vero?

 

Peggio di noi non si può stare credimi…

L’alta marea ci porterà via, credimi…

Ti subirò…

Non torneremo più…

Tu mi asciugherai

Non torneremo più…

Mi brucerò…

Non torneremo…più…

 

 

Rifiutò il bicchiere d’acqua che la guardia del corpo le offrì con un gesto cortese. L’uomo sembrò stupito.

-Ti senti bene?- chiese.

Lei lo ascoltava a malapena, nemmeno lo vedeva. Teneva gli occhi fissi davanti a se, a contemplare il nulla.

-Si- rispose lentamente, la voce ferma, atona.

-Ok. Stai seduta buona qui. Non andare da nessuna parte- disse l’uomo.

Lei annuì piano.

L’uomo si allontanò.

Li fuori, a pochi metri da lei, le ragazze continuavano ad urlare, lui continuava a cantare. Continuava a donare loro quella bellezza che non sapevano apprezzare, che rovinavano con la loro meschinità e grettezza. Lui era perfetto. Perfetto. Prigioniero di quella sua perfezione più di qualunque altra cosa.

Chiuse gli occhi, respirando ad intervalli regolari.

Era compito suo. Doveva mettere fine a quella follia.

 

 

Sentì due mani gelide posarsi sulle sue, che teneva in grembo.

Aprì gli occhi.

Non era sorpresa.

Lui profumava come aveva immaginato, il suo incedere era lo stesso che aveva sognato per tante, troppe notti. L’incedere stanco di un’anima in fuga.

Non disse una parola. Non era quello il momento.

Le infilò nella mano destra un pezzo di carta bianca. Poi si alzò e sparì, inghiottito dall’oscurità.

 

 

I gradini non finivano mai.

Stringeva ancora nella mano quel pezzo di carta. Il numero della camera e il piano erano scritti li sopra, in ordine, appena sotto la via dove si trovava l’hotel.

Settimo piano.

Non produsse il minimo rumore entrando dalla porta antincendio.

Nel corridoio rosso non c’era nessuno.

Il numero dorato, in fondo, brillava come oro vero.

999.

L’ultima stanza, dell’ultimo piano…dell’ultimo hotel.

Contò i passi che la dividevano dalla liberazione, e sentì il cuore cominciare a battere davvero.

Era viva. Di nuovo viva dopo tanto tempo.

La porta era aperta.

E dentro c’era lui ad aspettarla. Seduto sul bordo del letto, lo sguardo perso di un bambino che tremava nella poca luce.

Il vero Bill.

E con un sospiro di sollievo chiuse la porta dietro di lei, fece scattare la serratura.

Aveva avuto paura che non esistesse veramente…ma lui era li.

Vero, per l’ultima volta.

Solo per lei.

 

 

Aveva il viso appoggiato contro quella spalla da tanto tempo che non ricordava più quando si erano abbracciati.

Piangeva, piangeva come quando era un bambino.

Il cuore di lei batteva, piano. Lo tranquillizzava, lo cullava.

Erano tre anni che aspettava di sentire un cuore battere di nuovo così vicino.

Lei era quasi irreale, e i suoi capelli profumavano in un modo familiare.

Gli accarezzava il capo, lo stringeva a se, e non gli chiedeva nulla.

E quando il momento arrivò, fu lui che alzò la testa e cominciò a parlare.

 

 

[Soundtrack: The Academy – Massive Attack | Danny The Dog OST]

 

-Avevo paura, paura di tutto. Mi mancava accompagnare mia madre a fare la spesa, mi mancava passeggiare con mio fratello al parco… mi mancava vivere. Questa… non è vita. Mi hanno dato qualcosa in cambio della mia vita. Qualcosa che all’inizio brillava e mi rendeva felice. Ma era una felicità finta, era tutto finto… -

Lui era appoggiato sulla sua spalla, e sussurrava quelle parole. La voce roca di chi non parla da tanto tempo.

-Con il passare degli anni mi hanno tolto mia madre, la mia casa… Io vivo in loro funzione. Non so più nemmeno chi sono… sono quello che loro hanno costruito. Non so più nemmeno chi sono loro. Mi hanno detto che era solo un periodo, che dovevo solo abituarmi… che sarebbe passato. Ma quando non è passato hanno cominciato a… curarmi -

Lei allungò una mano verso il suo viso e gli accarezzò una guancia.

Deturpato. Irrimediabilmente deturpato.

-Ma le loro cure mi hanno tolto l’unica cosa che mi rimaneva…la passione. Non scrivo più un testo da due anni e mezzo ormai. Non so chi li scrive per me. So che mi mettono in una stanza bianca senza finestre per farmeli imparare… perché il mio cervello non riesce più… a recepire i segnali. Hanno detto così… si… non so cosa vuol dire… -

Lei chiuse gli occhi e si morse le guance fino a farle sanguinare.

Perché? Perché fare questo ad un ragazzo? Solo un ragazzo…

Lui tacque per un attimo. Poi ricominciò a parlare, partendo da un altro punto.

-Mi ero innamorato. Lei era una ragazza normale… ma non per me. Aveva i capelli neri, gli occhi così scuri... Somigliava molto a te, anche se era meno bella. La prima volta che la incontrai indossava un vestito blu… ne io ne lei sapevamo ballare, ed eravamo confinati all’estremo di quella sala orribile. Ma c’erano luci così belle, e tutto profumava come lei… Sembrava una bambina. Aveva lo sguardo ancora innocente da bambina… era così… diversa… ridemmo, insieme, nello stesso momento… -

Gli occhi del ragazzo si persero, cominciando a brillare di lacrime nel buio.

-…Mi… mi hanno tolto anche lei… per sempre. Mi dicevano che l’avrebbero scoperta, ma a me non importava. Mi hanno detto che mi tradiva… non ho creduto. E anche se continuavano ad avvelenarmi, a pressare… pressare… io resistevo. Perché la amavo… la amavo... E poi lei… è scomparsa. All’improvviso. Ho mandato centinaia di… di email, di lettere, ho provato a chiamarla ogni giorno. Lei non rispondeva mai… ma io continuavo. Perché pensavo che fin quando avessi creduto che avrebbe risposto un giorno, lei sarebbe rimasta con me… -

Si interruppe. Ingoiò lentamente. Quando ricominciò a parlare aveva la voce rotta, ridotta ad un sussurro.

-Eravamo ad Amburgo… era il giorno in cui ci eravamo conosciuti… io stavo cantando… non avevano cominciato a curarmi, ma stavo ugualmente male… è successo all’improvviso. Ho sentito qualcosa spezzarsi dentro di me. Ho sentito lei… abbandonarmi per sempre… Non so spiegarti quello che ho provato. Ma il terrore che ho sentito dopo è stato orribile… Non ho più avuto il coraggio di chiamarla e spedirle le mie lettere… mai più… mai più… -

Calò il silenzio. Lui si appoggiò di nuovo alla spalla della sconosciuta, nuove lacrime calde che gli rigavano il volto. Lei non riuscì a controllare il cuore, che cominciò a battere più forte. Posò una mano sul capo di Bill e cominciò a cullarlo dolcemente. Sussultava piano, soffocando i singhiozzi contro la sua maglietta. Sussurrava lo stesso nome che la sconosciuta ripeteva nella sua testa.

Sarah…Sarah…

Sarah…

Anche lei pensava a quel nome, quel nome che li univa senza che lui lo sapesse.

Gli occhi indugiarono fuori, si lasciarono rapire da quel cielo dove brillava una luna sfocata, troppo piccola, biancastra, persa in quella distesa nero pece che cercava di ingoiarla.

Era il momento.

In quell’istante Bill si sollevò di nuovo e ricominciò a parlare, ad un centimetro dal suo viso.

Aveva il respiro dolce, irregolare.

La sua mano scivolò via dal capo del ragazzo e strisciò verso la borsa che aveva lasciato sul letto.

-Io non ce la faccio più… io non voglio vivere così… -

Aveva la voce stanca Bill Kaulitz, di chi in realtà ha visto ben poco, ma è troppo provato per vedere altro.

-Hai ragione Bill… ti hanno intrappolato… -

La sua mano toccò qualcosa di terribilmente ghiacciato. Il cuore si calmò all’istante. Lo stava facendo davvero. Niente più incubi, niente più rimorsi.

-Io la amavo… come si amano le persone vere… non come mi amano loro… nessuna mi ama, nessuna sa chi sono, a nessuna importa saperlo… -

Finalmente lo guardò negli occhi.

-A me importa Bill, a me importa chi sei… io so chi sei… -

-Aiutami, ti prego. Aiutami… -

-Si Bill… sono qui per questo –

-Hai il suo stesso profumo… non riesco più a dimenticarlo… forse sono impazzito… -

-Si Bill. Ho il suo stesso profumo. Io sono lei –

Lui ebbe solo un attimo per sgranare gli occhi. Poi si accasciò contro di lei, spinto da una forza estranea. Appoggiò il capo sulla sua spalla e l’abbracciò goffamente, le mani tremanti.

Lei sentì il sangue inzupparle la mano. Era bollente. Vivo. Molto più vivo di quello che aveva visto l’ultima volta. Cadeva a terra, colandole tra le dita.

Affondò fin quando non sentì quella punta affilata premere contro di lei.

E poi si fermò…

Il sangue continuava a scivolarle addosso, inzuppandole i vestiti e le punte dei capelli. Era nero… nero come il cielo la fuori.

Il ragazzo avvinghiato a lei teneva la bocca premuta contro il suo orecchio.

Ascoltò il suo respiro affievolirsi, negli ultimi spasimi di dolore. Quando il dolore scomparve, lui respirava ancora, appena.

-Ti amava anche lei Bill… più di quanto pensi. E’ morta per te… e ora tu sei morto per me. Vai via ora… vai da lei... –

Il corpo del ragazzo si irrigidì contro di lei. Era la fine.

Le mani fredde le scivolarono lungo la schiena e il capo di Bill le si afflosciò scompostamente sul petto.

Lei tenne ancora per un attimo gli occhi vitrei premuti su quella notte pallida fuori dalla finestra.

-Ti amo-

 

 

Estrasse piano il coltello, ignorando il sangue che continuava a colarle addosso, sporcandola. Lo abbandonò di nuovo dentro la sua borsa e si alzò, andando alla finestra.

Rimase li fin quando il cielo non diventò di quell’azzurro pallido, distante, che precede l’alba.

Oltre il vetro gelido riuscì a vedere i grattacieli, riuscì a pensare a quelle altre migliaia di persone che dormivano ancora, in quella nuova mattina.

Quella nuova mattina era sorta per guardare la sua ultima traccia di umanità scomparire per sempre.

Appoggiata al bordo di quella finestra sconosciuta fissò lo sguardo sulla superficie spettrale di quei mostri di ferro e specchi.

E disse addio a se stessa.

La sua anima terrorizzata sciolse le catene e volò via, oltre quella finestra, oltre quella stanza, oltre quella vita.

Scappò.

Scappò via da lei.

Il suo corpo rimase immobile. Svuotato. Gli occhi scuri ancora persi nel nulla, i capelli che le cadevano sulle spalle, in lucide ciocche corvine.

Abbassò lo sguardo.

Era ancora li, sulla maglietta bianca, tra le sue dita sottili. Era ancora li, di quel rosso così intenso. Era ancora li, l’ultimo grido di quella vita che aveva cancellato.

Si voltò verso il letto e raccolse il suo cappotto lungo e nero, indossandolo con lentezza studiata. Guardò l’ultima volta il corpo abbandonato sul letto, il capo appoggiato sul cuscino, quasi stesse dormendo.

Si chinò su di lui e lo baciò. Sotto le sue labbra avvertì la morbidezza di quelle di lui, che erano diventate ormai ghiacciate.

Uscì dalla stanza senza voltarsi.

-Addio Bill –

 

 

 

[Soundtrack: Legions – Antimatter]

 

Bill Kaulitz (1 Settembre 1989 – Lipsia), è stato trovato senza vita nella sua stanza del Palace Hotel, a Londra, la mattina del 13 Ottobre, immerso in un lago di sangue. Il corpo del ragazzo non presentava segni di violenza, la sua morte è stata causata da una profonda ferita da coltello inferta alla spalla destra. La porta della camera in cui la vittima alloggiava non era stata forzata. Sul luogo del delitto sono state trovate diverse tracce organiche appartenenti all’assassino.

A seguito delle indagini la figura dell’assassino è stata identificata nella persona di Mary Hattaway (14 Giugno 1988), trovata morta in un canale poco lontano dalla città. Il medico legale ha concluso, dopo aver effettuato l’autopsia, che la ragazza si sia suicidata, recidendosi le vene e lasciandosi annegare nel Tamigi.

 

Il commissario lesse ancora una volta il rapporto.

Era il caso di cominciare ad insegnare a Bones come stilare un rapporto decente, anche se effettivamente quello era decisamente migliore dell’ultimo. Ingoiò ancora un sorso del suo caffè bollente, tornando a sedersi alla sua scrivania con un sospiro stanco. Iniziare a lavorare di lunedì mattina era sempre traumatizzante, anche dopo trent’anni di servizio.

Sfogliò per l’ennesima volta i documenti riguardanti il caso Kaulitz, fino ad arrivare alla scheda di Mary Hattaway. Guardò la foto di quella ragazza pallida, avvenente, dagli occhi allegri. Mary Hattaway sorrideva in quella foto, e a vederla così sembrava fosse impossibile potesse essere un’omicida. Lesse ancora una volta le informazioni che avevano trovato infilando il naso in vecchi schedari di scuola e testimonianze raccolte qua e la. Mary Hattaway era una studentessa modello, e aveva una sorella poco più piccola di lei, Sarah Hattaway. Entrambe erano rimaste orfane in tenera età, ed erano andate a vivere in Germania con una ricca e anziana zia. Poi era successo qualcosa, Sarah Hattaway, la sorella minore, si era suicidata nel 2008, in un modo davvero orribile. La zia era morta dopo qualche mese, e per diverso tempo Mary Hattaway era scomparsa. Non avevano trovato notizie sulla Mary Hattaway degli ultimi due anni.

Il commissario rabbrividì ed infilò il rapporto nella scheda della ragazza. Quel caso era agghiacciante.

Chiuse tutte le cartelle e si avviò verso la porta, la tazza di caffè in una mano e i documenti infilati sotto il braccio sinistro.

Lanciò i documenti sulla scrivania di Bones, facendolo sobbalzare.

-Archiviato- ringhiò, con la sua solita voce arrochita da anni di pacchetti di sigarette.

Bones sbuffò.

-Ok, ok… le va di scendere giù a bere qualcosa? – chiese con gli occhi che gli brillavano, appena sopra le guance rosse.

Bones non era male. Aveva un buon potenziale. Ma beveva troppo per la sua età.

-Ok, prendi il cappotto – rispose il commissario ingoiando l’ultimo sorso di caffè.

 

 

Ora vi chiederete…come ha fatto Sarah Hattaway ad incontrare Bill Kaulitz? Beh, lavorate un po’ di fantasia, non tantissimo, appena un po’. Troverete una soluzione.

Non voglio spiegarvi come Sarah Hattaway sia riuscita ad incontrare Bill Kaulitz, come sia stato il loro amore…perché questa, è un’altra storia…

 

  
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