Capitolo 1
Non
avrebbe saputo dire quale giorno fosse, né quale
mese o anno. Non che le importasse. Le giornate trascorrevano lente e
monotone,
una scivolava nell’altra senza alcun apparente cambiamento.
Del resto, quello
era il destino che lei stessa aveva scelto, firmando la propria
condanna ad una
sopravvivenza passiva senza dolori, gioie o emozioni. Chissà
da quanto viveva
così… Non riusciva a ricordare la sua vita
passata, quella piena di sentimenti,
di speranza e ottimismo.
Una voce semisconosciuta la chiamò, con quel
surrogato del suo nome che tutti laggiù credevano le
appartenesse.
“Any”
le
disse, mentre lei sollevava leggermente il capo dal rifugio delle
ginocchia,
“come va? Sei bellissima oggi!”.
Era una delle sue pseudo-ammiratrici, ragazzine che
si atteggiavano da alternative e che avevano trovato in lei il loro
vitello
d’oro da idolatrare. Probabilmente pensavano che si facesse
di eroina, il che
alle loro menti bacate appariva decisamente figo.
“Guarda!”
continuò imperterrita quella, “mi sono fatta i
capelli come i tuoi!” esclamò
indicando orgogliosa la frangia che le copriva quasi interamente gli
occhi. Any
non rispose, ma nessuno se ne stupì: da lungo tempo non lo
faceva più, e le fan
che lei non distingueva nemmeno erano quasi le uniche che osavano
avvicinarla.
Intimoriva e non era nemmeno una compagnia molto interessante, a dirla
tutta,
sempre protetta da quelle infrangibili mura di indifferenza. Non era
stato un
avvenimento particolarmente sconvolgente a fargliele erigere, come
spesso
succede, ma il disprezzo crescente verso quel mondo piatto e ipocrita,
il
disgusto per la gente crudele che tutti i giorni usciva di casa celando
il
volto e travestendosi da persona gentile. Il fuoco generato dalla sua
ira
l’aveva dapprima accesa, illudendola, come una giovane
candela che sprizza
allegra la sua prima scintilla, poi scottata e consumata.
L’ira avvelena, le
avevano detto, ma lei lo aveva compreso troppo tardi, e a sue spese. E
il
piccolo mozzicone si era ricoperto di uno spesso strato della sua cera,
per
impedire di essere del tutto divorato da quel fuoco violento ed ingordo.
Si alzò a
fatica, come faceva sempre, e si trascinò di nuovo in mezzo
alla folla, a testa
china, barcollando pericolosamente ad ogni passo, ma nessuno si
preoccupò di
lei: era un contenitore vuoto, un fantoccio di carta e chi le aveva
parlato
almeno una volta stentava a credere che un cuore avesse mai battuto nel
suo
petto. Ma una piccola sagoma affiorò e sfuggì a
quella massa indistinta e
subito Any la riconobbe: era Marta. Si fermò, per andare
incontro ad una
bellissima bambina sui cinque anni, che saltellava allegra verso di
lei. Per
quella creatura sfoderò la cosa più simile ad un
sorriso che ancora possedeva.
I bambini erano gli unici esseri puri e incontaminati in quel mondo:
crescendo,
venivano avvelenati dalla stoltezza dei ‘grandi’ e
la loro semplicità naturale
annientata. Di questo era convinta, mentre ricordava il tenero pianto
di Marta,
la sua cieca fiducia in un’estranea mai incontrata prima, e
la sua dolce risata
quando finalmente erano riuscite a trovare la sua mamma.
Riuscì appunto a distinguere vagamente la genitrice,
impettita e impellicciata, che, altezzosa, guardava sua figlia con aria
interrogativa, prima di rivolgere ad Any un’occhiata di puro
disgusto e
trascinare via la bambina urlante. Any si voltò e procedette
per la sua strada,
per niente colpita da quel gesto. Non ne soffrì. Solo gli
esseri viventi
soffrono nel nostro mondo, e lei non lo era più. Era
soltanto un fantasma,
un’ombra di ciò che era stata. E, poco dopo, le
sue gambe la condussero alla
casa dei suoi. Vi entrò, chiudendosi la porta alle spalle,
senza una parola e,
al buio, si recò in cucina, dove trangugiò un
po’ della cena che sua madre le
aveva lasciato, senza gustarla, come al solito. Si sollevò
lentamente, senza
fare alcun rumore e si trascinò in camera sua.
Benché non ci vivesse affatto,
la stanza la rappresentava bene: le pareti anticamente scarlatte erano
state
ricoperte da un furioso strato di vernice biancastra, la lampadina
fulminata
non era mai stata cambiata e manteneva la stanza in una penombra
perenne.
L’ordine perfetto era inquietante: nessun poster adornava le
pareti, nessun
vestito spuntava dall’armadio freddo e metallico, unico
mobile della stanza ad
esclusione del letto duro, senza cuscino, ricoperto da un copriletto
nero.
L’aria era intrisa di una tale desolazione ed agonia da
rendere impossibile a
chiunque tranne che alla proprietaria sostarvi per più di
due minuti senza
cadere in una depressione profonda. Any si sfilò con calma i
vestiti,
riponendoli immediatamente nell’armadio. Il suo corpo esile e
pallido riluceva
nell’oscurità; avrebbe fatto invidia a tutte le
aspiranti anoressiche, ma era
passato molto tempo dall’ultima volta che qualcuno lo aveva
guardato con più
interesse di quello di una bambola di porcellana. Indossò il
pigiama e si recò
in bagno per lavarsi. Intrappolò i capelli in un elastico e
sollevò i lunghi
ciuffi che le coprivano gli occhi. Lo specchio le restituì
un’immagine che lei
nemmeno guardò: quella di una giovane ragazza privata di una
bellezza che
sicuramente aveva posseduto. Degli intensi occhi verdi, brillanti e
intelligenti non rimanevano che due vacue imitazioni; il verde era
rarefatto e
debole e l’unica cosa che vi si poteva leggere era il vuoto
dell’anima.
Ricordava ancora la reazione di sua madre quando li aveva visti per la
prima
volta, il suo viso pallido e i suoi occhi sbarrati e terrorizzati che
l’avevano
fissata, poco prima che la donna si accasciasse al suolo, singhiozzando
di aver
perso sua figlia. Any era consapevole del dolore creato, ma era
convinta che di
lì a poco sarebbe scomparso, cancellando il suo ricordo
dall’altrui memoria. E
con la mente svuotata da qualunque pensiero, si sdraiò nel
letto e scivolò in
un sonno leggero, solo per rialzarsi poche ore dopo per andare a
scuola. Quando
uscì di casa, l’aria fredda le sferzava il viso
senza che lei se ne accorgesse.
Camminava come sempre, con quella lentezza esasperante e senza alcuna
volontà,
barcollando e lasciando una scia rossa e luccicante alle sue spalle.
Arrivata
nella sua classe, si sedette come sempre all’ultimo banco.
Passava le lezioni
appoggiata allo schienale della sedia, a guardare il banco, senza
parlare con
nessuno e spaventando tutti. I professori la interrogavano solo quando
non
potevano farne a meno e la rimandavano a posto poco dopo con la solita
sufficienza
stentata che riusciva sempre a strappare, essendo stata una studentessa
brillante. Avevano persino cercato di farle tagliare i capelli,
all’inizio, per
poterle vedere gli occhi, tentativo che, ovviamente, si era rivelato
vano, dato
che sua madre aveva prontamente sconsigliato il provvedimento. Al
trillo della
campanella uscì dall’edificio, recandosi nel
solito vicolo buio e gettandosi a
terra con il capo reclinato sulle ginocchia. Ancora una volta una sua
fan
l’avvicinò, dichiarando emozionata di volerle
presentare un ragazzo fighissimo
il cui nome era Mike. Any scrollò le spalle con aria
indifferente e si preparò
a vedere questo tizio. Probabilmente pensavano di aver trovato un
‘compagno’
degno della loro dea. Sollevò il capo a guardarlo: era uno
dei tipici bei
ragazzi che non sanno di niente con la fama di donnaioli incalliti e ai
quali
tutte le femmine sbavano dietro, pensò freddamente. Mike le
tese una mano e,
con uno sguardo e una voce che a lui evidentemente sembravano
seducenti, si
presentò: “Io sono Mike” disse
“felice di conoscerti, permettimi di dire che
sei bellissima” continuò, con un sorriso che
doveva essere sexy, perché le sue
fedeli ammiratrici lanciarono un gridolino emozionato. Qualcuno,
più saggio di
altri, scosse la testa, scettico, a quel goffo tentativo di sedurre un
fantoccio. Any gli strinse la mano senza fingere alcun interesse, il
che, a
quanto pareva, risultò ancora una volta figo al suo
interlocutore, che la
guardò ammirato e le si sedette di fianco, esaltato come se
fosse stata lei ad
invitarlo. Cacciate le sue fan, infatti, cominciò a parlare
a vanvera e a
vantare le sue innumerevoli doti in tutti i campi, mentre Any
nascondeva ancora
una volta il volto con i capelli e lo ignorava deliberatamente.
Quando Mike smise di parlare, il sole era già sceso
e lui scrutò il vicolo, felice di trovarlo deserto. Le si
fece più vicino,
appoggiando una mano sul suo braccio livido, e le chiese se non avesse
freddo.
Any fece cenno di no con la testa, egli ancora non sapeva che lei non
provava alcuna
sensazione. Lui ignorò la risposta e si avvicinò
ancora, negli occhi
un’espressione folle e bramosa che la ragazza non conosceva:
il rituale era
terminato. Le sue mani, ora più decise e pesanti, spinsero a
terra le ginocchia
di Any, fino a tenderle le gambe. Premette il proprio corpo contro il
suo,
quasi con furia, e spinse la propria testa nell’incavo del
collo di lei, il
respiro accelerato e irregolare. Il sudore gli imperlava la fronte e
grondava
lungo le sue guance, e la sua bocca, avida e bagnata, si
aprì per baciare la
pelle pallida di lei, procedendo verso l’agognato traguardo
del volto,
lasciando una viscida scia dietro di sé. La passiva
sopportazione della
ragazza, venne interpretata come totale sottomissione, e il ragazzo
continuò,
eccitato e brutale, fino a violare il puro biancore della guancia e la
serena
castità delle labbra. Ma la quasi sconosciuta non
reagì, e la lingua di lui
marciò trionfante in quella nuova bocca arrendevole, mentre
le mani pesanti e
cupide stringevano con forza quei fianchi magri. Si staccò
da lei per
respirare, con affanno, la soddisfazione evidente sul volto e
finalmente ella
fu libera di andare, di cedere al sonno illusorio che avrebbe congiunto
quella
sera con le successive, in cui la brama del ragazzo sarebbe stata
ancora
soddisfatta.