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Autore: manicrank    01/07/2013    3 recensioni
Stava correndo, correndo veloce. Il fiato gli mancava, arrivava come stilettate di ghiaccio nei polmoni. Intorno cadeva la neve. Il bianco lo accecava nella sua folle fuga, lontano, lontano da quel posto. Si voltava di continuo, nessuno lo stava seguendo. Continuava a scappare. Non poteva correre più veloce, avrebbe voluto. Era braccato.
Come un uccello in gabbia. Il cacciatore lo stava seguendo.
«La visione decade.»
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Reita, Ruki
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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S u i c i d e C i r c u s




  Stava correndo, correndo veloce. Il fiato gli mancava, arrivava come stilettate di ghiaccio nei polmoni. Intorno cadeva la neve. Il bianco lo accecava nella sua folle fuga, lontano, lontano da quel posto. Si voltava di continuo, nessuno lo stava seguendo. Continuava a scappare. Non poteva correre più veloce, avrebbe voluto. Era braccato.
Come un uccello in gabbia. Il cacciatore lo stava seguendo.
«La visione decade.»
Si arrampicò, arrancando, su per una collinetta. Le dita affondavano nel manto bianco cercando qualcosa a cui appigliarsi. Radici, sassi. E lui correva ignorando il dolore alle unghie, alle dita ustionate dal ghiaccio. Lo sentiva vicino, sentiva i suoi passi lenti, lenti ed inesorabili. Il terrore gli attanagliò il petto, stringendolo in una morsa, frantumandogli lo sterno e le costole. Guardò ancora indietro, occhi rossi nel buio. La collinetta finì, lui era sulla cima. La luna pallida sbucava nel manto di nubi bianche che piangevano cenere, Takanori non poteva più scappare. Davanti ai suoi piedi un dirupo, e più giù a valle, delle tende colorate.
Aveva girato intorno.
«Qui è un inferno sulla terra.»
Non poteva scappare.
Aveva girato intorno.
«Ho sentito un brivido, la delusione aumenta.»
Lui era dietro, lo stava raggiungendo lento, lento come una macchina della morte. Si portò una mano al petto, per alleviare un po' il dolore dell'affanno, e si lasciò cadere nella neve, steso morto, sentendo il corpo pian piano gelare, bruciare. Avrebbe voluto tornare indietro, cambiare strada, scappare ancora, mai entrare in quel Circo del Suicidio. Le regole erano state ben chiare. Una volta dentro, non sarai più fuori.
Aveva prestato giuramento, si era fatto marchiare dai clown spaventosi, dalle ballerine morte. Ora il Direttore stava tornando a prenderlo.
Si sentiva come Alice, piombato per caso in Wonderland. Solo che lei era tornata indietro, lui aveva ceduto al dolce e macabro fascino della morte.
«Tick. Tack. Tick. Tack.»
Inesorabile l'orologio scorreva. E lui attendeva la morte.
Aveva aperto gli occhi, trovandosi davanti quelli rosso cremisi del Direttore. Aveva trattenuto un gemito di paura, e quello l'aveva preso in braccio, con aria crudele.
Takanori non aveva potuto fare altro se non lasciarsi trasportare, tremando, nella neve, da Akira. L'uomo del Terrore.
«Nessuno può riavvolgere il tempo»
Takanori voleva fuggire. Ma non aveva la forza nemmeno di parlare. Di aprire gli occhi. Di morire.
Poi tutto fu nero, e di nuovo, colorato, colorato dei colori della disperazione. Viola, giallo, nero, argento. In una miscela letale, come quella di un drink. Il sorso di gli aveva bruciato la gola, gli occhi, e si era trovato steso su una brandina. Sopra di sé la stoffa colorata di un tendone del circo.
«Non distogliere lo sguardo.»
Era di nuovo dentro.
«Il circo del suicidio.»

*

«Odio attempato e una giovane mente a sangue freddo»
Scappare non sarebbe servito. Il mondo fluttuava attorno a quelle tende colorate di pena e angoscia, e tutto era chiaro ed era oblio al tempo stesso. Nessuno fuggiva, nessuno lasciava.
I passi scricchiolavano sulla neve mentre le orme profonde degli stivali neri comparivano dietro ogni falcata, con una chiara direzione imposta da quella mente calcolatrice.
Freddo. La neve era fredda, dopotutto.
Era fredda come la morte; il suo candore ne rispecchiava pienamente i lineamenti delicati e persi nel sonno di chi dispera e non ha scampo.
Puntare gli occhi rosso fuoco sul suo viso era stato un errore; ne aveva bramato l’anima. Era il suo bene prezioso, la sua marionetta, il suo giocattolo perfetto.
Aveva ringhiato, quando aveva saputo. Ed era tornato a prenderlo di persona.

«il motivo del freddo»
Lo aveva riportato alle catene, ai suoi fili. Ne aveva accarezzato il viso martoriato dal freddo con i guanti bianchi in cotone, gli aveva composto le mani in petto come morto e lo aveva adorato. Bianco. Pallido. Una bambola per i propri giochi.
Aveva sorriso mefistofelico a quella branda spoglia sul cui materasso giaceva quel corpo esanime; giaciglio dai colori sgargianti eppure così vuoti. Era lui la sua migliore acquisizione.
Che i lamenti lo cullassero, che i dolori lo facessero gioire e il mondo si contraesse rassicurante per lui.
Lo aveva lasciato al suo mortale sonno, scostando le pesante cortine violacee dalle quali filtrava appena la luce rossa e gialla dei mille fili luminosi appesi a convergere all’enorme, gigantesco tendone rosso e bianco al centro della valle. Il suo Mondo.
Col portamento fiero di chi non può temere nemmeno la Dannazione, aveva percorso inesorabile la neve intonsa e monda fino a quell’ Universo, celato di pesanti tende dai colori sgargianti e soffocanti; nessuno conosceva i suoi segreti.

«qui la povertà si sta dimenando»
Sorridere al cielo senza stelle; era facile per lui abbracciare il terrore, dirigerlo come un Direttore d’orchestra. L’aria insipida e fredda gli penetrava i polmoni, bruciandoli brutalmente.
Aveva vagato distratto con gli occhi rossi sui suoi sottoposti, che dalle ombre buie e violacee, rischiarati a malapena da quel gorgoglio morente di luci da festa, lo temevano come chiunque altro.
Maligno. Con un gesto degno del più grande teatrante, aveva scostato il tessuto a celare l’ingresso, penetrando come una spina nel buio sadico di quel Circo.
Prigione.
Con la mano guantata di quel bianco freddo, aveva infilato due dita nella tasca del panciotto nero e blu a sfilare l’orologio da taschino in argento.

«Tick. Tack. Tick. Tack.»
Era l’ora. Lo spettacolo stava per iniziare. Aveva chiamato a raccolta i Clown Terribili, le Ballerine Morte, i Trapezisti Storpi e i Buffoni Deformi. Che vestissero la sua marionetta a festa. Che la preparassero di merletti e di pizzi, di colori meravigliosi e catene. E fili. I fili della sua prigionia. I fili della sua volontà, della sua scelta avventata. Della sua decisione insana.
Le passioni sapevano essere letali.
«Nessuno può riavvolgere il tempo»
Aveva decretato con un mormorio che suonava a condanna. A Giudizio finale.
Al centro della pista di sabbia, al discendere di gradinate di buia tenebra puntinate di malvagità rossastre e Demoni interiori, un faro punta la pedana lilla del protagonista indiscusso del suo spettacolo. Gli aguzzini sono pronti e lui si siede sul suo scranno in seta e oro, dall’aria vittoriana e austera. Il puzzo di falsità e agonia gli riempie le narici, aiutandolo a rilassarsi e godersi quei pochi e stiracchiati momenti d’attesa euforica che lo separavano dall’attacco musicale; dall’inizio che era anche la fine.
«Una scena senza perdono che si disperde»
Il sipario si alza e le luci si abbassano. Il mondo si illumina di buio.

*

Chiuso. Stretto in quella Vergine di Norimberga di stoffa. Gemendo, gli occhi celati al mondo da un pizzo. Le mani inchiodate alla sedia, i polsi tenuti da fili invisibili. Si sentiva morire dentro, ma fuori non poteva lasciar trapelare nemmeno una singola emozione.
«Le persone sono attratte da questa vivacità soffocante.»
Gli spettatori avevano lenti preso posto sugli alti scranni. La marionetta era costretta nel centro, senza possibilità di fuga, protagonista di quello spettacolo di morte e sofferenza. Quello dopotutto era il Circo del Suicidio, e prima o poi, la tua anima era costretta alla morte.
«Anche il terrore, che è rimasto bloccato su questa mano che ho toccato, sparirà presto.»
La marionetta era costretta, costretta dalla paura a piegarsi al suo volere. Provò a muovere la testa, per guardarsi attorno, ma era immobile, immobile in quella pelle di ceramica che gli avevano cucito sopra. Immobile, senza il suo Direttore che amava amarla e distruggerla insieme. La marionetta era odiata, nessuno poteva essere il preferito, ma lei lo era diventata.
«Metamorfosi.»
Aveva alzato le braccia, tirato da quei fili invisibili, ed aveva iniziato a danzare per quegli spettatori neri. Danzava sulle note di un valzer macabro e morto. Un valzer nero. Un valzer proibito. E lui mosso dai fili ne seguiva le note spettrali, come avrebbe danzato una ballerina sulla cima di un carillon rotante.
Poi la marionetta si era fermata, inchinandosi al pubblico, e lenta era rientrata nel tendone. Si era sfilato i merletti, sospirando appena. Voleva scappare ancora. Ma Lui l'avrebbe trovato.
«Tutto è paralizzato, reazione a catena.»
Si era voltato, di scatto, trovandosi il Direttore davanti. Akira, nel suo bel completo nero, coi bottoni oro, che reggeva una frusta con la quale domava le tigri.
La marionetta lo odiava, era terrorizzata da lui. Lui era il suo incubo che mai la lasciava andare. Ricordava gli abusi notturni, le ore passate ad urlare e sanguinare. Ma non poteva farne a meno. Avrebbe fatto più male lasciarlo andare.
«Simpatizzando con un dolore simile.»

Lei lo amava.

*

Era giunto il momento.

Il suo momento.
Il Direttore si era alzato dal suo scranno d’onore, e tra un gracchiare di cori d’incitamento, di macabre urla di eccitazione e volgari promesse di soddisfazione, si era fatto strada con passi da Tiranno vero la pista sabbiosa.
Sorrise, sadico e grato, calpestando l’Arena e allargando le braccia ad accogliere quelle esultanze alla sua persona, in un inchino elegante che prometteva meraviglie.
Il mondo era solito sparire e ammutolire, quando era lui a domare le tigri.
Diventava fluttuante, di spettri e d’ombra più di quanto non fosse già.
Le luci impietose si alzarono, puntadolo e illuminando la sua figura slanciata ed elegante nel completo blu e nero, di piume ornamenti luccicanti.
Che lo spettacolo avesse inizio.

«Sto abbracciando un futuro che non può essere salvato, così come questa debolezza che è sfuggita via»
Dopo l’incanto delle Tigri dal manto di neve nei cerchi di fuoco, era tempo del distacco. In uno scrosciar di applausi e lanci di rose dai petali neri e vermigli, il sipario era calato, fagocitandolo nel buio delle quinte di quel Circo del Suicidio.
E lei era lì, la sua Marionetta.
Lo attendeva con gli occhi pieni di un soddisfacente terrore, che mascheravano un bisogno rasente alla follia.
Il nero petrolio dei suo occhi era annacquato di quel senso di smarrimento che tutte le anime Dannate avevano al suo cospetto.
Pelle di ceramica e lacrime di sangue.
Akira sorrise, di un sorriso di quelli in cui si rimane invischiati, come in una pozza di viscida melma che ti abbranca, e ti tira nel fondo togliendoti il fiato, strisciando nella tua gola e nei tuoi polmoni con lentezza.
Quel sorriso era la morte, quella tenera che ti concupisce, stillandoti la vita attimo per attimo, senza violenza… Lezioso.

«escludo questo depresso me stesso che ho perso di vista così come escludo quella pulsazione che volevo farti conoscere…»
Lo sguardo rapace delle ballerine morte era puntato su di loro, che in una danza di sguardi si promettevano eternità e dolore.
Un solo gesto sarebbe bastato a spezzare l’equilibrio del suo Mondo, ormai eclissato in quegli occhi rossi dietro alla consapevolezza di avere altro da bramare, oltre alla sua anima.
Il Direttore non poteva avere cedimenti.
Nemmeno un battito di cuore. Dentro c’era solo morte, solo buio. Perdizione in lussuriose coltri di velluto variopinto.
Eppure in quel riflesso distorto di sé stesso, incuneato come schegge negli specchi dell’anima di Takanori, poteva vedere quello che sarebbe potuto essere. Ed era mancanza. Era quel vuoto non riempito.
L’assenza.
Non aveva saputo di averla fino a che non era comparso lui. La sua Marionetta.
Sua.
Di nessun altro.

«…Così come questa depressione che sto attraversando durante questi giorni pieni di sofferenza che improvvisamente mi hanno impedito di vedere»
Alzò la mano guantata di bianco freddo a sfiorare il suo viso con il frustino dall’impugnatura cesellata d’oro. Assaporò quel tormento amaro e dal profumo stucchevole di qualcosa cui non sapeva dare un nome.
Follia.
Puntò gli occhi vermigli nei suoi, il trucco nero di lacrime fisse a dare intensità a quello sguardo vagamente celato dal cilindro a tesa più ampia del normale, ombreggiato da piume imponenti. Le labbra violacee si piegarono spinte da sadismo ad un sorriso osceno, e il frustino scivolò lento dalla tempia al suo collo elegante.
Dannazione Eterna. In lui c’era ancora la vita. E la vita non era ammessa, nel Circo; nemmeno in un Angelo Caduto.

«con queste parole nate dall'amore sto abbracciando e mostro liberamente l'odio e la pazzia»
Gli occhi si velarono di sentimento, e il cupo rossore virò al nero per una frazione di secondo. Tutto sembrò vacillare, come negli aridi deserti quando l’afa è troppa e l’atmosfera stessa è vibrante nella calura.
Il Circo del Suicidio dipendeva da lui; dalla sua ineluttabilità di Direttore.
Il frustino calò sul suo fianco, mordendo l’aria e marchiandogli la pelle ad indicarne la sua appartenenza.
Che la follia fosse la benvenuta. Che il Dolore fosse suo amico. Che quel Circo lo inglobasse e diventasse suo.
Il Direttore si volse, negandogli la vista del proprio viso atteggiato a forzata insensibilità per gli spettatori di quel teatrino d’odio e pazzia. I clown Terribili, le ballerine morte e i buffoni deformi.
Era la sinfonia finale. Tra poco tutto sarebbe terminato nel caos degli applausi di fine spettacolo. Il pubblico lo reclamava.
Fu col passo deciso di chi non aveva scelta, agonizzate verso un patibolo di condanna castigato di schiamazzi, che il Direttore lasciò la propria Marionetta preda dei suoi sottoposti.
Il sipario si aprì, lasciando penetrare le sordide grida e risate in quell’oscurità palpitane, lasciandolo passare, calando come una ghigliottina alle sue spalle. Definitivo.

«non tornare indietro, sono troppo invischiato
persino la morte è diventata una preda»

*

«Un giorno senza cuore.»
La marionetta era rimasta dietro le quinte, tra le dita scheletriche dei Circensi Morti. Aveva paura di rimanere inghiottita in quella spirale di macabra passione, e non voleva. Lei era viva, li dentro. Era viva, provava ancora sentimenti, e ricordava com'era la vita fuori, libera. Lei non era morta come tutti gli altri, non aveva abbracciato il buio, l'oscurità dell'animo.
Per questo era la preferita.
Perché era speciale.
Il Direttore aveva provato a carpirla, a trascinarla via, ma lei stoicamente aveva resistito.
Aveva fatto un lungo respiro, e si era lasciato andare a quel mare di corpi accanto a sé, sapeva che non avrebbero osato torcergli nemmeno un capello, o si sarebbero visti la furia di Akira contro.
Oltre le tende del sipario sentiva gli applausi, lo spettacolo era finito. Gli spettatori se ne sarebbero andati, lasciandoli soli. Un'altra notte buia per Takanori.
Erano l'unico circo che non si spostava mai. Tutti, da ogni angolo remoto del globo, andavano a vederli, perché loro promettevano sogni e vita eterna.
La marionetta, per una volta, desiderò morire, morire davvero. Così sarebbe stata di nuovo libera, di nuovo libera.
«Sul fondo dell'abisso.»
Ogni giorno era uguale, ogni notte era uguale. Era solo un mero oggetto tra le dita del Direttore, era una marionetta, era la sua bambola preferita, ma sapeva che prima o poi Akira si sarebbe stufato e l'avrebbe gettata via, ed il suo viso di porcellana si sarebbe spaccato, e le sue ossa bianche sarebbero rimaste scoperte della pelle. Ed il Direttore come un Re privo di corona sarebbe salito sul suo cadavere per innalzare il suo trono, facendo rotolare via una tibia, innalzando il suo scettro fantasma.
«Il circo del suicidio.»
Non ce la faceva più, voleva urlare, strapparsi le vesti e fuggire, ma lui l'avrebbe inseguita, l'avrebbe catturata. Era così. Da tutta una vita.
Da quando aveva osato varcare quella soglia e rimanere affascinato da Lui. Dai suoi occhi rossi. Ogni giorno segretamente piangeva lacrime cristalline, volendo solo riavvolgere il tempo, tornare indietro, essere di nuovo libero. Ma non poteva.
«Perché continua a ripetersi?»
Voleva morire, la marionetta. E prendendo un lungo stiletto, bianco, aveva deciso di essere libero ancora. Non sarebbe stato complicato. Lo sapeva.
Lo nascose nella gonna e fece tre passi, andando nella camera del Direttore. Solo lui poteva, e voleva farlo in grande stile. Si era seduto sul suo letto nero, innalzando la lama. La conosceva bene, Lui la usava per infliggere punizioni quando qualcuno di loro sbagliava, ma mai la carne di Takanori l'aveva assaggiata. Akira era buono con lui. Se l'era premuta contro il petto, bramando con gli occhi lo spiraglio di cielo che vedeva tra le tende. La notte era nera, le stelle e la luna illuminavano il suo cammino. L'avrebbero guidato, ne era certo. E col sorriso stampato sulle labbra aveva sentito l'acciaio fendere la carne, i muscoli, e premergli nel nucleo della vita. Il cuore si era aperto al suo passaggio, aveva traboccato sangue, poi piano si era fermato. E la marionetta si era accasciata senza vita, abbandonata, come se i suoi fili fossero stati recisi improvvisamente, nel mezzo della scena. Il suo volto era sereno, pulito. Nessuna lacrima di sangue, solo lacrime bianche a solcargli le guance. Gli occhi erano semichiusi, neri. Le labbra distese, senza un filo di rossetto. Era lui, per una volta, col suo vero volto.
Una lama nel petto.
Sul suo letto.

«Il circo del suicidio.»

*

«la Giustizia è morta»

E con lei era morto l’unico briciolo di umanità rimasto; quegli occhi rossi non si sarebbero più posati sulla sua porcellana bianca. Non ne avrebbero più saggiato l’incredibile candore, né la trama liscia e perfetta. Le dita coperte dai bianchi guanti non avrebbero più sentito il suo tepore.
I giorni erano finiti e il sole tramontato, tanto da non sembrare voler più sorgere in quella notte eterna. Non c’era giorno dietro quel cielo in tempesta, plumbeo e angosciato.
Si era macchiato dell’ennesimo peccato. L’ennesima tacca da aggiungere di fianco alle altre.
Nessuno avrebbe mai potuto salvarlo, nessuno lo avrebbe redento. Ecco perché non poteva morire. Troppo corrotto perfino per il Diavolo, si era spinto in luoghi d’ombra dove nessuna bestialità era mai giunta.
L’aveva rotta. Trafitta con l’odio della sua lama; un odio che era in realtà maschera di estrema benevolenza.
Era giaciuta per interminabili ore sul proprio letto di peccati e velluto color sangue. Immobile in quel sonno eterno che solo la morte concede, con le sue dita tenere e bramose.
Gli era stata portata via. La sua marionetta.
Strappata da quelle sue mani d’ombra. Non aveva avuto lacrime da piangere, né dolore da urlare.
Lo aveva fatto. Era stato mosso dalla pena.
Le aveva concesso la pace.
«sul fondo dell’abisso»
L’aveva fatta comporre in una bara di nero cristallo, adorna di pizzi neri e velluti variopinti. Coperta da una maschera di porcellana, le era stato dipinto il rosso di un rossetto sulle labbra. Le bianche mani coperte da guanti di porpora accesa e un ciondolo d’oro vermiglio sul cuore trafitto. Fili, fili spezzati quelli che sgorgavano come acqua dalle pieghe del tessuto.
Reciso, come un fiore.
Non c’era scampo alla morte, nel Circo del Suicidio.
Era parte della sua eternità.

«Il circo del Suicidio»
Non c’era anima che non volesse le sue meraviglie. Non c’era mondo che non bramasse i suoi dolci tormenti.
«perché continua a ripetersi?»
Le sue luci e i suoi tendoni variopinti, il suo Inferno e il suo Paradiso.
Fluttuanti sete e tessuti colorati d’ombra e luce, mondi fluttuanti e indistinti.
Anime perdute, volti distorti e labbra di rosa.
Peccati.
Nessuna anima sfugge ai suoi tormenti, una volta entrata nel tendone.
Nessuna vita.
Solo un eterno, tormentato spettacolo nel quale il Direttore è il supremo attore.
Immutabile.
Eterno.
Incrollabile.
C’è solo una crepa, minuscola e invisibile su quel cuore di pece, una filatura così sottile da passare inosservata ai più.
Perché a nessuno è concesso di vivere, all’ombra del Tendone.
Nemmeno a chi ne è l’artefice ultimo.

«Il circo del Suicidio»









































































__**

Questa storia è stata scritta a quattro mani da me e da Loralya. Era per un concorso che si basava su di una canzone, e difatti nel testo trovate la traduzione di 'Suicide Circus' dei The GazettE (tutti i diritti riservati).
Ditemi cosa ve ne pare ~~ 

La traduzione è stata gentilmente offerta da The Middle Of Chaos

   
 
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