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Autore: Lechatvert    02/07/2013    4 recensioni
[ ... ] Si ritrovò ad accarezzare quella figura dipinta, pensando che, forse, non si era mai reso veramente conto di quanto quel viso fosse armonioso, di quanto quel sorriso fosse luminoso ed esattamente ingenuo come lo era stato in gioventù.
Quella smorfia felice che affiorava sulle sue labbra, scatenata anche da una sola parola, aveva passato più guerre di un condottiero.

| In qualche modo, Girolamo Riario x OC |
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Girolamo Riario, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Per questo, più o meno, la chiamavano Papavero.'
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Lechatvert
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, quindi direi di saltare i convenevoli e rimandarli a tra qualche giorno, nell'occasione dell'ultimo saluto. *sigh*
Intanto vorrei scusarmi del salto temporale che noterete. Mi ero ripromessa di concludere in sette capitoli e siamo già fuori tempo, capitemi!
Ringrazio poi tutti quelli che si sono fermati a leggere e a commentare, siete davvero in tanti e sarà mia premura salutarvi tutti in occasione dell'ultimo capitolo.

Grazie!

Vivogliobenissimissimo







Capitolo Decimo
Promesse non Mantenute



La luce di una calda giornata primaverile illuminò le pagine di un libro lasciato all’aria aperta, mentre la brezza ne sfogliava le pagine miste ai fili d’erba del prato.
Rapida, Bianca lasciò il tavolino all’ombra di Palazzo Orsini per raggiungere la sua lettura nel bel mezzo del giardino e, armata di un bicchiere di succo di limone, si risedette con grazia sulla coperta per poi riprendere la sua lettura al sole.
Prese un sorso della bevanda appena tolta dalla ghiacciaia e si preparò ad immergersi nuovamente in quel nuovo romanzo che il Conte le aveva portato da Firenze. Venne però interrotta proprio da quest’ultimo, di ritorno da un recente viaggio a Imola, quando egli si affacciò al cortile con tutta l’intenzione di spiarla leggere.
« Conte! », lo chiamo allora, felice, lasciando ancora una volta il suo libro per correre incontro all’uomo. « Siete tornato! »
Lui la scrutò a lungo da dietro ai suoi occhiali dalle lenti scure, poi abbozzò un piccolo sorriso.
« Vedo con piacere che avete preso un po’ di colore, Bianca », le disse, accennando alle sue guance di solito pallide. « Leggere all’aperto vi fa bene ».
Lei sorrise.
« Siete stato via così a lungo che ormai mi stavo cuocendo, là sotto », si lamentò, seppur con tono dolce. « Ho finito il vostro libro ».
Riario le rivolse un sorriso storto.
« Leggete troppo in fretta, Madonna », commentò.
Bianca si imbronciò un poco. Lo sapeva, chiunque l’avesse vista alle prese con una biblioteca non faceva che ripeterglielo, ma non ci poteva fare nulla. Era come chiedere a un coniglio di saltare più in basso, come chiedere a un falco di volare più in basso.
Imbarazzata, portò le mani all’altezza del grembo, sistemandosi le pieghe dell’abito. Quel giorno era vestita di azzurro, con un vestito fresco di sartoria che il Conte le aveva fatto confezionare su misura esattamente come lei l’aveva voluto. Era pieno di pizzi e merletti, con la gonna a balze e il colletto ricamato con delle perline. Da quando aveva avuto modo di indossarlo per la prima volta, quello era diventato il suo abito preferito.
Aveva passato gli ultimi cinque mesi a Palazzo Orsini, continuando a mentire a suo marito circa il suo stato di salute, continuando a vivere con i sensi di colpa, oltre che con la consapevolezza di prendere in giro l’uomo che più di tutti le era stato accanto. Ma aveva imparato a sue spese a sopravvivere in una città come Roma, costantemente in bilico tra le cortesie e la rabbia del Conte Riario. Soddisfarlo non era difficile, in fondo bastava adeguarsi a ogni sua piccola richiesta e accettare chinando il capo. Se si comportava bene, poi, Bianca veniva letteralmente coperta di riguardi, come il dono di un libro o di un abito, oppure una passeggiata sulle vicine rive del Tevere.
Non era arduo, era soltanto questione di adeguarsi e, naturalmente, di imparare a calibrare bene ogni parola e ogni gesto.
Di rado il Conte aveva alzato ancora le mani su di lei. Dopo la sera in cui si era rifiutata di fare visita al Santo Padre, non era capitato che in poche occasioni che Riario passasse alle mani per costringerla a seguire il suo volere. Bianca aveva imparato ad eseguire gli ordini mascherati da proposte senza ribadire e da allora non ne aveva tratto che pace e serenità.
Sentiva ancora la mancanza di Ezio, ma si riservava il diritto di piangere la lontananza la sera, una volta chiusa nella sua stanza da letto.
Scacciò con un sorriso quei pensieri, scrollando il capo.
Dopotutto, il Conte non era un uomo cattivo e lei non voleva turbarlo con le sue pene.
Lo guardò, senza soffermarsi troppo su quegli orribili occhiali dalle lenti scure che lui sembrava tanto amare.
« Vogliamo accomodarci per un tè? », propose, quindi, allargando il braccio verso il cortile. « Dovete essere esausto ».
L’uomo le rispose con un sospiro.
« Avete colto nel segno, Bianca », concordò, facendo strada e porgendo il braccio alla ragazza. « Cavalcare da Imola a Roma è tutt’altro che giovante ».
Si sedettero attorno a un tavolino di marmo all’ombra di un grande cipresso, circondati dalla tranquillità del giardino.
« Avete trovato qualcosa di vostro diletto, durante la mia assenza? », si informò il Conte, mentre con la mano faceva segno ai suoi servitori di portare il tè.
Bianca alzò le spalle.
« Ho completato la lettura del libro che mi avete donato … tre volte », ammise. « Ah, e ho scritto un racconto, l’altra sera ».
Il Conte attese che la sua serva versasse l’acqua calda nelle tazze, prima di chinare il capo con aria solenne.
« I miei complimenti », disse, poi. « Mi piacerebbe leggerlo ».
« Ne sarei onorata ».
La guardò per un istante, poi si decise a mettere uno spicchio di limone nella tazza e a girare la bevanda con il cucchiaino.
« Vi ho portato un dono da Imola », confessò, infine.
Il volto di Bianca si illuminò.
« Davvero? », chiese, sciogliendosi in un sorriso pieno di gratitudine.
Riario annuì.
« Un libro. Non credo lo abbiate mai letto e, invero, confido sia abbastanza spesso da tenervi occupata per un giorno o due ».
La ragazza abbassò lo sguardo sulla tazzina.
Avrebbe cercato di far durare di più quella lettura, ma a Palazzo Orsini era difficile. Con Ezio c’era sempre qualcosa da fare. Lui le raccontava delle storie, la lasciava in compagnia del Conte di Fontenera quando andava a caccia, le suonava il clavicembalo, si faceva letteralmente in quattro perché ella non restasse un solo istante senza far niente. Aveva premura che sua moglie si ambientasse, che si sentisse davvero a casa, cosa che Riario aveva dato per scontato, scrollandosi quel peso di dosso con un semplice “sentitevi libera di comportarvi come a casa vostra”.
Dietro ai sorrisi che Bianca rivolgeva al Conte, quindi, vi era soltanto una piccola parte di felicità posta a coprire la mancanza di casa. Perché, per quanto egli si sforzasse di definire Palazzo Orsini casa, e per quanto la ragazza avesse provato a imporselo, il senso di appartenenza a Palazzo Rangoni non se ne era mai andato.
Con aria affranta, sistemò uno spicchio di limone nella tazzina, mescolando in silenzio.
Riario le lanciò un’occhiata disinteressata.
« Qualcosa non va, mia cara? »
Lei scosse il capo.
« Nulla, ricordavo soltanto Palazzo Rangoni ».
« È passato molto dalla vostra ultima lettera a vostro marito. Fareste bene a scrivergli per rincuorarlo ».
Il viso di Bianca si illuminò, restando comunque un po’ avvolto dalla paura.
« Dite davvero? », chiese, stupida.
Il Conte annuì.
« Messer Rangoni finirà per preoccuparsi ».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Abbandonò immediatamente il tè e il servizio, saltando tra l’erba e diretta verso i suoi appartamenti. Aveva così tante cose da raccontare ad Ezio, così tante frasi da scrivergli, così tante emozioni da descrivere. Era passato poco, dall’ultima lettera, eppure non vedeva l’ora di poter ricevere risposta. La carta di Palazzo Rangoni aveva l’odore di casa sua.
« Vi ringrazio, Conte! », trillò, rivolgendo all’uomo ancora seduto un ultimo sorriso.
Corse poi a perdifiato fino alle sue stanze, senza curarsi di Riario, rimasto solo al tavolino del tè. Non si curò proprio di nessuno fino a che l’ultima lettera non schizzò fuori dal suo pennino.
In quei rari momenti non c’era nessuno, attorno a lei. C’era solo Ezio, perso a fare chissà cosa chissà dove, magari proprio intento a pensarla.




* * *

« Vorrei tornare a Palazzo Rangoni ».
Basito, Riario alzò il capo dalla sua scrivania. Fissò l’esile figura di Bianca, in piedi sulla porta, le mani congiunte in grembo, lo sguardo color oliva fermo sulla stanza.
« Per favore », continuò.
Lui tornò al suo lavoro.
« Credevo ne avessimo già parlato », rispose semplicemente.
Vi fu un istante di silenzio.
Bianca mosse un passo avanti, senza azzardarsi comunque a raggiungerlo alla scrivania. Pareva sapere anche troppo bene cosa sarebbe successo se avesse insistito troppo.
« Esaudite il mio desiderio, Conte », lo implorò. « Una volta soltanto, poi non mi allontanerò più da Roma, ve lo giuro. Per favore, fatemi rivedere mio marito ».
Aveva assunto un tono crucciato, particolarmente triste.
Riario non si fece impietosire.
« Avvicinatevi, Madonna », la esortò invece, indicandole una sedia accanto a quella su cui era seduto. « Voglio mostrarvi una cosa ».
Bianca si fece riluttante, ma si costrinse a raggiungere l’uomo al di là della scrivania.
Silenziosa, avanzò verso la fine dello studio, prendendo infine posto accanto al Conte. Era ammutolita, letteralmente scolorita.
Riario allungò la mano su tutti i documenti sparsi sul tavolo.
« Questo è ciò di cui mi occupo ogni giorno », spiegò, pacato. « Quando mi prendo cura dei miei averi più lontani. Li amministro, li investo, li faccio crescere. Come vedete, i miei possedimenti a Roma non richiedono uno sforzo così grande ».
Fece una pausa, leccandosi le labbra secche.
« Tuttavia, se si dovessero spostare da qui, tutto ciò comporterebbe un enorme aumento del mio già consistente carico di lavoro. Allo stesso modo, Bianca, se voi doveste assentarvi da Roma per qualche tempo, sono certo mi costringereste a stare alzato un’ora in più la notte per amministrare con saggezza i vostri spostamenti ».
Si voltò verso la ragazza, cercando comprensione, ma a trovarlo vi furono solo due occhi carichi di angoscia.
« Bianca, usate la testa », la esortò, quindi, senza perdere la calma. « Sarebbe soltanto un inutile dispendio di energie e di– »
Non terminò la frase che si ritrovò il viso chiuso tra le mani gelide della ragazza. La vide avvicinarsi velocemente e, prima che riuscisse a ribellarsi in qualche modo, le sue labbra si trovarono incollate a quelle di lei, in un freddo quanto sgradito bacio.
Non ebbe la forza di staccarla se non quando fu lei stessa ad allentare la presa sul suo viso, guardandolo con sguardo vitreo, addolorato.
« Lasciatemi vedere mio marito per l’ultima volta », supplicò, iniziando a singhiozzare. « Poi sarò vostra, ve lo giuro ».
Riario non riuscì a trattenersi.
La sua mano volò veloce sulla guancia di Bianca nel tentativo di zittirla, facendola cadere di lato con un gemito di sordo dolore.
« Vi sbagliate se pensate che mi importi possedere una donna che in dieci anni di matrimonio non è stata in grado di partorire nemmeno un figlio », sibilò, cercando di ricomporsi. « Francamente, non saprei che farmene di voi ».
La guardò ansimare a terra in preda alla paura, mentre lui si alzava per recarsi nei suoi alloggi dove avrebbe trascorso la notte.
« Non siete più di un animale da compagnia, Bianca », spiegò, allontanandosi. « Una gioia da vedere quando è felice, ma niente di più. Rassegnatevi, la sola compagnia che riceverete da vostro marito sarà quella portata dalle lettere ».
E, detto questo, lasciò lo studio chiudendosi la porta alle spalle.
Dal corridoio, udì i pianti della ragazza, ma non fu sua intenzione quella di andare ad aiutarla nel rialzarsi dal pavimento.
Doveva capire che le cose, a Palazzo Orsini, non sarebbero cambiate più di quanto lei non avesse già avuto modo di sperimentare.

   
 
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