Lechatvert
Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, quindi direi di saltare
i convenevoli e rimandarli a tra qualche giorno, nell'occasione
dell'ultimo saluto. *sigh*
Intanto vorrei scusarmi del salto temporale che noterete. Mi ero
ripromessa di concludere in sette capitoli e siamo già fuori
tempo, capitemi!
Ringrazio poi tutti quelli che si sono fermati a leggere e a
commentare, siete davvero in tanti e sarà mia premura
salutarvi tutti in occasione dell'ultimo capitolo.
Grazie!
Vivogliobenissimissimo ♠
Capitolo
Decimo
Promesse non Mantenute
La luce di una calda giornata primaverile illuminò le pagine
di un libro lasciato all’aria aperta, mentre la brezza ne
sfogliava le pagine miste ai fili d’erba del prato.
Rapida, Bianca lasciò il tavolino all’ombra di
Palazzo Orsini per raggiungere la sua lettura nel bel mezzo del
giardino e, armata di un bicchiere di succo di limone, si risedette con
grazia sulla coperta per poi riprendere la sua lettura al sole.
Prese un sorso della bevanda appena tolta dalla ghiacciaia e si
preparò ad immergersi nuovamente in quel nuovo romanzo che
il Conte le aveva portato da Firenze. Venne però interrotta
proprio da quest’ultimo, di ritorno da un recente viaggio a
Imola, quando egli si affacciò al cortile con tutta
l’intenzione di spiarla leggere.
« Conte! », lo chiamo allora, felice, lasciando
ancora una volta il suo libro per correre incontro all’uomo.
« Siete tornato! »
Lui la scrutò a lungo da dietro ai suoi occhiali dalle lenti
scure, poi abbozzò un piccolo sorriso.
« Vedo con piacere che avete preso un po’ di
colore, Bianca », le disse, accennando alle sue guance di
solito pallide. « Leggere all’aperto vi fa bene
».
Lei sorrise.
« Siete stato via così a lungo che ormai mi stavo
cuocendo, là sotto », si lamentò,
seppur con tono dolce. « Ho finito il vostro libro
».
Riario le rivolse un sorriso storto.
« Leggete troppo in fretta, Madonna »,
commentò.
Bianca si imbronciò un poco. Lo sapeva, chiunque
l’avesse vista alle prese con una biblioteca non faceva che
ripeterglielo, ma non ci poteva fare nulla. Era come chiedere a un
coniglio di saltare più in basso, come chiedere a un falco
di volare più in basso.
Imbarazzata, portò le mani all’altezza del grembo,
sistemandosi le pieghe dell’abito. Quel giorno era vestita di
azzurro, con un vestito fresco di sartoria che il Conte le aveva fatto
confezionare su misura esattamente come lei l’aveva voluto.
Era pieno di pizzi e merletti, con la gonna a balze e il colletto
ricamato con delle perline. Da quando aveva avuto modo di indossarlo
per la prima volta, quello era diventato il suo abito preferito.
Aveva passato gli ultimi cinque mesi a Palazzo Orsini, continuando a
mentire a suo marito circa il suo stato di salute, continuando a vivere
con i sensi di colpa, oltre che con la consapevolezza di prendere in
giro l’uomo che più di tutti le era stato accanto.
Ma aveva imparato a sue spese a sopravvivere in una città
come Roma, costantemente in bilico tra le cortesie e la rabbia del
Conte Riario. Soddisfarlo non era difficile, in fondo bastava adeguarsi
a ogni sua piccola richiesta e accettare chinando il capo. Se si
comportava bene, poi, Bianca veniva letteralmente coperta di riguardi,
come il dono di un libro o di un abito, oppure una passeggiata sulle
vicine rive del Tevere.
Non era arduo, era soltanto questione di adeguarsi e, naturalmente, di
imparare a calibrare bene ogni parola e ogni gesto.
Di rado il Conte aveva alzato ancora le mani su di lei. Dopo la sera in
cui si era rifiutata di fare visita al Santo Padre, non era capitato
che in poche occasioni che Riario passasse alle mani per costringerla a
seguire il suo volere. Bianca aveva imparato ad eseguire gli ordini
mascherati da proposte senza ribadire e da allora non ne aveva tratto
che pace e serenità.
Sentiva ancora la mancanza di Ezio, ma si riservava il diritto di
piangere la lontananza la sera, una volta chiusa nella sua stanza da
letto.
Scacciò con un sorriso quei pensieri, scrollando il capo.
Dopotutto, il Conte non era un uomo cattivo e lei non voleva turbarlo
con le sue pene.
Lo guardò, senza soffermarsi troppo su quegli orribili
occhiali dalle lenti scure che lui sembrava tanto amare.
« Vogliamo accomodarci per un tè? »,
propose, quindi, allargando il braccio verso il cortile. «
Dovete essere esausto ».
L’uomo le rispose con un sospiro.
« Avete colto nel segno, Bianca »,
concordò, facendo strada e porgendo il braccio alla ragazza.
« Cavalcare da Imola a Roma è tutt’altro
che giovante ».
Si sedettero attorno a un tavolino di marmo all’ombra di un
grande cipresso, circondati dalla tranquillità del giardino.
« Avete trovato qualcosa di vostro diletto, durante la mia
assenza? », si informò il Conte, mentre con la
mano faceva segno ai suoi servitori di portare il tè.
Bianca alzò le spalle.
« Ho completato la lettura del libro che mi avete donato
… tre volte », ammise. « Ah, e ho
scritto un racconto, l’altra sera ».
Il Conte attese che la sua serva versasse l’acqua calda nelle
tazze, prima di chinare il capo con aria solenne.
« I miei complimenti », disse, poi. « Mi
piacerebbe leggerlo ».
« Ne sarei onorata ».
La guardò per un istante, poi si decise a mettere uno
spicchio di limone nella tazza e a girare la bevanda con il cucchiaino.
« Vi ho portato un dono da Imola »,
confessò, infine.
Il volto di Bianca si illuminò.
« Davvero? », chiese, sciogliendosi in un sorriso
pieno di gratitudine.
Riario annuì.
« Un libro. Non credo lo abbiate mai letto e, invero, confido
sia abbastanza spesso da tenervi occupata per un giorno o due
».
La ragazza abbassò lo sguardo sulla tazzina.
Avrebbe cercato di far durare di più quella lettura, ma a
Palazzo Orsini era difficile. Con Ezio c’era sempre qualcosa
da fare. Lui le raccontava delle storie, la lasciava in compagnia del
Conte di Fontenera quando andava a caccia, le suonava il clavicembalo,
si faceva letteralmente in quattro perché ella non restasse
un solo istante senza far niente. Aveva premura che sua moglie si
ambientasse, che si sentisse davvero a casa, cosa che Riario aveva dato
per scontato, scrollandosi quel peso di dosso con un semplice
“sentitevi libera di comportarvi come a casa
vostra”.
Dietro ai sorrisi che Bianca rivolgeva al Conte, quindi, vi era
soltanto una piccola parte di felicità posta a coprire la
mancanza di casa. Perché, per quanto egli si sforzasse di
definire Palazzo Orsini casa, e per quanto la ragazza avesse provato a
imporselo, il senso di appartenenza a Palazzo Rangoni non se ne era mai
andato.
Con aria affranta, sistemò uno spicchio di limone nella
tazzina, mescolando in silenzio.
Riario le lanciò un’occhiata disinteressata.
« Qualcosa non va, mia cara? »
Lei scosse il capo.
« Nulla, ricordavo soltanto Palazzo Rangoni ».
« È passato molto dalla vostra ultima lettera a
vostro marito. Fareste bene a scrivergli per rincuorarlo ».
Il viso di Bianca si illuminò, restando comunque un
po’ avvolto dalla paura.
« Dite davvero? », chiese, stupida.
Il Conte annuì.
« Messer Rangoni finirà per preoccuparsi
».
Bianca non se lo fece ripetere due volte.
Abbandonò immediatamente il tè e il servizio,
saltando tra l’erba e diretta verso i suoi appartamenti.
Aveva così tante cose da raccontare ad Ezio, così
tante frasi da scrivergli, così tante emozioni da
descrivere. Era passato poco, dall’ultima lettera, eppure non
vedeva l’ora di poter ricevere risposta. La carta di Palazzo
Rangoni aveva l’odore di casa sua.
« Vi ringrazio, Conte! », trillò,
rivolgendo all’uomo ancora seduto un ultimo sorriso.
Corse poi a perdifiato fino alle sue stanze, senza curarsi di Riario,
rimasto solo al tavolino del tè. Non si curò
proprio di nessuno fino a che l’ultima lettera non
schizzò fuori dal suo pennino.
In quei rari momenti non c’era nessuno, attorno a lei.
C’era solo Ezio, perso a fare chissà cosa
chissà dove, magari proprio intento a pensarla.
«
Vorrei tornare a Palazzo Rangoni ».
Basito, Riario alzò il capo dalla sua scrivania.
Fissò l’esile figura di Bianca, in piedi sulla
porta, le mani congiunte in grembo, lo sguardo color oliva fermo sulla
stanza.
« Per favore », continuò.
Lui tornò al suo lavoro.
« Credevo ne avessimo già parlato »,
rispose semplicemente.
Vi fu un istante di silenzio.
Bianca mosse un passo avanti, senza azzardarsi comunque a raggiungerlo
alla scrivania. Pareva sapere anche troppo bene cosa sarebbe successo
se avesse insistito troppo.
« Esaudite il mio desiderio, Conte », lo
implorò. « Una volta soltanto, poi non mi
allontanerò più da Roma, ve lo giuro. Per favore,
fatemi rivedere mio marito ».
Aveva assunto un tono crucciato, particolarmente triste.
Riario non si fece impietosire.
« Avvicinatevi, Madonna », la esortò
invece, indicandole una sedia accanto a quella su cui era seduto.
« Voglio mostrarvi una cosa ».
Bianca si fece riluttante, ma si costrinse a raggiungere
l’uomo al di là della scrivania.
Silenziosa, avanzò verso la fine dello studio, prendendo
infine posto accanto al Conte. Era ammutolita, letteralmente scolorita.
Riario allungò la mano su tutti i documenti sparsi sul
tavolo.
« Questo è ciò di cui mi occupo ogni
giorno », spiegò, pacato. « Quando mi
prendo cura dei miei averi più lontani. Li amministro, li
investo, li faccio crescere. Come vedete, i miei possedimenti a Roma
non richiedono uno sforzo così grande ».
Fece una pausa, leccandosi le labbra secche.
« Tuttavia, se si dovessero spostare da qui, tutto
ciò comporterebbe un enorme aumento del mio già
consistente carico di lavoro. Allo stesso modo, Bianca, se voi doveste
assentarvi da Roma per qualche tempo, sono certo mi costringereste a
stare alzato un’ora in più la notte per
amministrare con saggezza i vostri spostamenti ».
Si voltò verso la ragazza, cercando comprensione, ma a
trovarlo vi furono solo due occhi carichi di angoscia.
« Bianca, usate la testa », la esortò,
quindi, senza perdere la calma. « Sarebbe soltanto un inutile
dispendio di energie e di– »
Non terminò la frase che si ritrovò il viso
chiuso tra le mani gelide della ragazza. La vide avvicinarsi
velocemente e, prima che riuscisse a ribellarsi in qualche modo, le sue
labbra si trovarono incollate a quelle di lei, in un freddo quanto
sgradito bacio.
Non ebbe la forza di staccarla se non quando fu lei stessa ad allentare
la presa sul suo viso, guardandolo con sguardo vitreo, addolorato.
« Lasciatemi vedere mio marito per l’ultima volta
», supplicò, iniziando a singhiozzare. «
Poi sarò vostra, ve lo giuro ».
Riario non riuscì a trattenersi.
La sua mano volò veloce sulla guancia di Bianca nel
tentativo di zittirla, facendola cadere di lato con un gemito di sordo
dolore.
« Vi sbagliate se pensate che mi importi possedere una donna
che in dieci anni di matrimonio non è stata in grado di
partorire nemmeno un figlio », sibilò, cercando di
ricomporsi. « Francamente, non saprei che farmene di voi
».
La guardò ansimare a terra in preda alla paura, mentre lui
si alzava per recarsi nei suoi alloggi dove avrebbe trascorso la notte.
« Non siete più di un animale da compagnia, Bianca
», spiegò, allontanandosi. « Una gioia
da vedere quando è felice, ma niente di più.
Rassegnatevi, la sola compagnia che riceverete da vostro marito
sarà quella portata dalle lettere ».
E, detto questo, lasciò lo studio chiudendosi la porta alle
spalle.
Dal corridoio, udì i pianti della ragazza, ma non fu sua
intenzione quella di andare ad aiutarla nel rialzarsi dal pavimento.
Doveva capire che le cose, a Palazzo Orsini, non sarebbero cambiate
più di quanto lei non avesse già avuto modo di
sperimentare.