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Autore: startedrowning    07/07/2013    8 recensioni
Solo, confuso e vuoto: tre parole possono rappresentare tutto. Un ragazzo di 16 anni non può dimenticare la morte di suo fratello da un giorno all'altro. Eppure tutti dicono che Lorenzo è solo un " bambino" , che non si ricorda nulla di quel maledetto incidente. Sono passati sei anni e quella camera sa ancora di lui, di un esame di maturità mai iniziato, di quella parte di te che la vita decide di portarti via. Sei anni non possono cancellare una presenza così indelebile, ma la vita deve andare avanti. Se Francesca, la migliore amica di una vita, quella con la quale giochi con i Lego da quando sei piccino non ci fosse mai stata, forse Lorenzo non avrebbe mai avuto il coraggio di rialzarsi ed iniziare una nuova vita. Quella Francesca così solare e trasgressiva, che ti convince a tornare tardi la notte per andare in discoteca con lei per conoscere nuova gente. Ma si sa, Lorenzo odia la confusione ,e fugge via, lontano da tutti. L'odore della pioggia è qualcosa di indescrivibile: un misto di emozioni, sensazioni e colori nei quali riesce a scorgere un piccolo angelo, la sua salvezza.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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12 settembre 2013

La sveglia dell’IPhone suona. Sento “Marimba” rimbombare nelle orecchie e vedo l’orario. Le sei e mezza. Emetto un gemito di sofferenza e lascio suonare il telefono, anche se quella melodia è insopportabile. Poggio il braccio intero sul viso, sui miei occhi. Ancora non riesco a realizzare che il primo giorno di scuola sia arrivato. Be’, prima o poi doveva succedere, ma non sono ancora pronto. La mia mente inizia a lasciarsi invadere da pensieri superflui, ad immaginare la piena estate, i campi di grano, le passeggiate in una Torino afosa e dimenticata dai suoi abitanti, che preferiscono trascorrere le vacanze nel tanto odiato Sud Italia. Non riesco ad entrare nell’ottica delle giornate intere passate a guardare la finestra, quella della tua cameretta che ti distrae dallo studio dei teoremi di geometria perché piove. E a me piace tanto la pioggia. Ti distrae da ogni cosa, da tutti. Quel rumore, la vista delle gocce che cadono nelle tristi serate di Novembre, il suo odore. L’odore della pioggia. Qualcosa di indescrivibile. Inizio a vagare in una sorta di dormiveglia, in cui la mia mente sta già fantasticando nel dolce mondo dei sogni, mentre c’è una fastidiosa presenza che ne impedisce questo vano tentativo.

Mia madre irrompe nella mia cameretta con la stessa delicatezza di un ippopotamo e compie il classico, fastidiosissimo rito mattutino: aprire le tende. Sembra una cosa da niente, ma se ripetuta 365 giorni all’anno, può comportare gravi problemi psichici, tra cui un esaurimento nervoso. Il rumore delle tende che si aprono e il freddo pungente che penetra dalle finestre aperte  puntualmente ogni mattina annunciano il benvenuto ad un nuovo anno scolastico. Come si suol dire, il buongiorno si vede dal mattino, e dato il tempo preannunciato, si prospetta davvero una grandiosa giornata di merda. Do un’occhiata veloce al telefono. Sono le 6:45, inizia a farsi tardi. Mi devo alzare dal letto. Non faccio in tempo a ricordare amaramente lo schema motorio che questo faticoso gesto richiede, che subito entra in gioco lei. Mia madre. Carla. Il medico. O come volete chiamarla voi.

<< Qua dentro puzza, è inutile che ti lamenti per il freddo. Alzati, devi andare a scuola. La pacchia è finita.>> Accende la televisione, perfettamente consapevole del mio odio nei confronti delle notizie brevi del tg5 mattutino. Sempre le stesse cose, poi la pubblicità, poi la melodia che ti annuncia lo scorrere del tempo. C’è ogni quarto d’ora, e ti vedi tutte le città del mondo e l’orologio. Sono le 7:00. Tra un quarto d’ora ci sarà di nuovo quella musichetta fastidiosissima e capirai che saranno le 7 :15. Meglio “Uno Mattina”.

Mi lavo e mi vesto, indossando le prime cose che i miei occhi riescono a intravedere e giudicare idonee per un abbigliamento scolastico. Mi incammino verso il soggiorno, dove mia madre sembra aver imbandito un banchetto reale: frutta, latte, pane e nutella, come nella pubblicità, dove i bambini strafogano come maiali prima che arrivi Tata Lucia.

Mi accomodo al mio solito posto e noto l’espressione assonata di mio padre, a cui tocca per la ventesima o la ventunesima volta-non ricordo-  l’insegnamento della lingua tedesca. Purtroppo non mi può accompagnare a scuola, io non frequento il liceo linguistico, e sinceramente non ricordo affatto se il giorno in cui presi la decisione di iscrivermi al liceo scientifico fossi sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Secondo me sì. Ma è questa è tutta un’altra storia.

Osservo mio padre: è seduto , con la sua solita gamba sinistra piegata su quella destra, e l’immancabile giornale del mattino adagiato sul tavolo del soggiorno. Scruto i suoi lineamenti: bocca a “culo di gallina”,

naso a patata, capelli alla Fabio Caressa. Tra la sua folta chioma liscia intravedo dei capelli bianchi: gli anni passano, sia per me, sia per coloro che fanno parte della mia vita, e che ne hanno fatto parte.

Un pensiero triste inizia a inondare la mia mente come un improvviso tsunami, ma non posso mostrarmi così avvilito il primo giorno di scuola, non posso pensare a lui anche oggi. Le mie braccia sono distese sul tavolo, quasi come se fossero due rette parallele. Cerco di estraniare la mia mente da pensieri oscuri, ma la banana che ho in mano si spezza in due parti. In men che non si dica, mi accorgo di aver chiuso i pugni con tanta rabbia da aver spappolato quel povero frutto. Mio padre mi guarda torvo, accennando un sorriso su quelle labbra pronte a proferire qualche frase piena di sarcasmo:

<< Adesso spiegami cosa ti ha fatto quella povera banana. Non meritava di essere trattata così. Se tratti le ragazze nello stesso modo in cui tratti le banane, be’ figliuolo, non ti lamentare se non riesci a trovarne ancora una. >> dice, accennando un breve sorriso sulle sue labbra.

<< Smettila, non ce l’ho con la banana. >> Mi alzo, dirigendomi verso il lavandino, per pulire i residui di banana rimasti sulla mano destra. Prendo uno strofinaccio e le asciugo velocemente, mentre parte il jingle del tg5 delle 7:15. Mi volto per andare a sistemare la sacca della Juve: un borsellino, il diario della Vecchia Signora, un quaderno. Mi volto mentre sistemo la sacca sulle mie spalle e noto mio padre che mi fissa. Ricambio questo profondo sguardo, temendo che abbia capito ciò a cui stavo pensando prima, o meglio, a chi stavo pensando. Non dico nulla e mi avvio verso l’ingresso di casa nostra, interrompendo quest’incrocio di sguardi. Do un bacio veloce a Nicolò, il mio fratellino, e gli auguro buona fortuna: oggi è il suo primo giorno di scuola.

Saluto tutti, intravedendo mio padre che si sistema la giacca, leggermente stropicciata per il suo vizio di sedersi con le gambe accavallate per leggere il giornale. Prima di chiudere il portone sento la risposta al mio saluto:

<< Lui sarebbe stato fiero di te. In bocca al lupo, Lorenzo >>

Dopo qualche secondo di esitazione, chiudo il portone e mi avvio verso la fermata dell’ autobus.

Durante il tragitto le parole di mio padre perseguitano la mia mente e l’attraversano fino a giungere nel profondo.

“Lui sarebbe stato fiero di te”. Davide. Oggi avrebbe compiuto ventitré anni. Forse sarebbe stato al quarto anno di Medicina. Gli piaceva così tanto quella facoltà, avrebbe voluto fare il medico, era il sogno della sua vita. Voleva aiutare la gente a vivere, a non perdere mai la speranza, ad inseguire i propri sogni. Questo è il più grande insegnamento che mi ha lasciato mio fratello, anche in punto di morte, quando, prima dell’estrema unzione pretendeva di parlare con me, anche se non aveva più la forza di farlo.

Quei momenti sono incisi nella memoria come tatuaggi. Incancellabili. Puoi cercare di rimuoverli, ma la tua pelle non ritornerà più quella di una volta, ne rimarrà sempre il segno.

Mi ricordo le sue parole, pronunciate con la stanchezza di una persona stanca di soffrire, ma innamorata della vita. “ REALIZZA I TUOI SOGNI, FALLO PER ME”, mi disse.

Dopo i miei genitori mi portarono via. Ero troppo piccolo, dicevano. Sono sempre stato piccolo per tutto, continuano a dire. Ero piccolo sei anni fa, quando persi mio fratello, piccolo per ricordare l’accaduto, il giorno dell’incidente, l’agonia di Davide, il giorno della sua morte, il funerale. Per i miei genitori sono sempre stato piccolo per tutto. E continuo ad esserlo. Ma non c’è distinzione tra piccoli e grandi per le lacrime, lì siamo tutti uguali. Le stesse lacrime che continuano a tormentarmi dopo sei anni, quelle che sgorgano a viottoli sul mio viso dopo gli incubi sull’incidente che tormentano la mia mente dal giorno della sua morte.

Cherry Ghost accompagna il mio cammino verso la fermata dell’autobus e la sua “ People help the People” non mi è di conforto. Decido di cambiare canzone, passando da un piagnisteo ad una ballata da discoteca. Le Icona Pop vanno parecchio di moda in questo periodo. La pubblicità del Samsung Galaxy ha fatto di questa canzone un vero e proprio tormentone, e Francesca la canta di continuo. Francesca, la mia migliore amica. Non vedo l’ora di vederla. Abbiamo passato un’intera estate lontani, è andata a Londra la furba, e non oso immaginare come sia riuscita a comunicare con gli inglesi, dato il suo innato talento nel prendere due ai compiti d’inglese. Qualcosa di sovrannaturale. I verbs patterns sono la sua specialità, li ha presi di mira. Ancora mi soffermo a pensare alla famosa interrogazione dell’ “I was wasing”, battezzata in tal modo da me: quella è stata epica, non la dimenticherò mai. Per non parlare di quando disse “ I is”: parole proferite con tanta sicurezza da contagiare anche la prof, che con altrettanta sicurezza le annunciò l’arrivo imminente di un bel debito formativo. E si trattava di ottobre dell’anno scorso, all’inizio dell’anno scolastico. Poi glielo diede sul serio, anche a fine anno. Per lo meno ora è in grado di fare lo scambio verbo-soggetto nelle domande, e questo rappresenta un grande traguardo autoriale per lei. Contenta lei, contenti tutti.

Un sorrido ebete si erge sul mio viso, quando ad un certo punto fisso l’orologio. Sono le 7:25 e la fermata del bus è troppo lontana per camminare. I Paramore iniziano a cantare Fast in my car e sfreccio più veloce del vento tra gente che va e viene, intorno a me  l’odore di una Torino improvvisamente ripopolata, una città viva. L’aria fredda e pungente di un cielo grigio e coperto si manifesta sulle smorfie del mio viso, espressioni contorte che danno il benvenuto ad un autunno alle porte, che si preannuncia essere più freddo del previsto. Addio estate, ci mancherai.

Scruto da lontano la fermata: non c’è nessuno e presumo che il bus sia partito già da qualche minuto. Buonanotte. Anzi, buongiorno Lorenzo. Mi fermo, anche se non sono giunto a destinazione. Mi piego sulle ginocchia: ho il fiatone, ma soprattutto una fifa enorme per quella che sarà la reazione di mia madre per aver perso il primo giorno di scuola. Non oso immaginare. Noto la presenza di una ragazza e mi metto a correre verso la destinazione che ancora non ho raggiunto per chiederle spiegazioni. Cosa ci fa una bionda della mia stessa statura e con una sacca sulle spalle a una fermata deserta? Forse è in ritardo anche lei. Le vado incontro.

Mi sento le gambe di un elefante, credo di aver fatto la corsa più estenuante della mia vita. Non corro più. Sono a terra, e c’è un sacco di gente dietro di me. Mi fissa. Ride. Sono a terra, nel bel mezzo di una pozzanghera e sono caduto, ma lo realizzo solo dopo il volo, quando i miei jeans sentono il freddo di un’acqua color marrone avente le sembianze delle feci. Bella merda. La ragazza a cui stavo andando incontro scoppia in una risata isterica, piegandosi su se stessa, credendo che l’accaduto provochi un’enorme ilarità. A quanto pare loro si divertono, io no. Dopo qualche secondo di divertimento allo stato puro, la ragazza realizza di avere un minimo di solidarietà nei confronti del prossimo e mi aiuta a sollevarmi da terra, porgendomi entrambe le braccia. Che brava. La risata se la poteva risparmiare, però.

<< Ammazza come sei frettoloso, calmati >> dice, guardami attonita.

 << Dovrei calmarmi nonostante sia in ritardo il primo giorno di scuola? L’autobus è passato e non ho il passaggio di nessuno. Mia mamma mi gonfia di botte. Per giunta sembro essermi cagato addosso. >>

La ragazza di identità sconosciuta, se così la possiamo definire, fissa l’orologio, corrugando la fronte, con un’espressione divertita.

<< Esattamente, quali problemi ti affliggono? Seriamente, intendo. Oltre a sembrare uno psicopatico che si è cagato addosso, adesso soffri anche di perdita di memoria? Te l’hanno detto che il bus passa alle 7:30, vero? >> dice, con aria diffidente.

Fisso i suoi grandi occhi verdi con aria interrogativa.

<< Cazzo, sei di prima, vero? Non sapevi che passasse a quest’ora? Potevi informarti, boia! >> Si stringe nelle spalle.

Allungo il collo verso il suo polso per vedere l’orario: le 7:23. L’orologio va avanti.  Do un’occhiata all’IPhone: 7:23. Se solo avessi fatto più attenzione al cellulare non avrei combinato tutto ciò. Per fortuna non si è bagnato.

<< Casa mia è a pochi metri dalla fermata , se vuoi ti accompagno e ti cambi. Almeno i Jeans, dato che il loro aspetto non è dei migliori. >>

La guardo come se fosse l’unica ancora di salvezza, un porto a cui giungi dopo aver rischiato di perdere la vita in una nottata tempestosa, con il mare agitato e la nave che perde tutti i suoi uomini, risucchiati dalle profondità degli abissi. Ma ora basta pensare a Jack Sparrow, o come cavolo si scrive. Ho un paio di jeans nuovi che mi aspettano, o così spero. Accetto la proposta e ci precipitiamo verso casa della ragazza dal nome sconosciuto.

<< Ti avviso, mio fratello fa uso di un abbigliamento particolare. >>

<< Cioè? >>

Prende il suo Samsung Galaxy e lo accende. A prima occhiata sembrerebbe un modello nuovo, forse lo è. Scorre le dita come se volesse mostrarmi qualcosa. Intravedo la scritta “ Musica” sullo schermo. Mi chiedo cosa stia facendo, boh. Avvicina il telefono alle mie orecchie e sento una melodia quasi paradisiaca, mi sembra di averla sentita altre volte. Una di quelle melodie che ti ricorda i paesi caldi, tropicali.

Immagini di gente che balla sulla spiaggia sotto il sole di un tramonto Jamaicano scorrono lentamente nella mia mente a ritmo a musica. Si, la Jamaica! Ecco cosa mi ricorda la canzone. Nella mia testa solo queste parole:” Life if you want to live… Rastaman vibration yeah! Positive… I and I vibration yeah!”

<< So, you got it? >> dice, con un certo accento british.

<< Che che?! >> rispondo io, con una certa sicurezza. Certo, prima mi sono dimenticato di aggiungere che non sono tanto meglio di Francesca in inglese. Me la cavo. Cavicchio. So parlarlo meglio di Luca Giurato, insomma. Già è un buon punto di partenza.

<< Hai capito di chi si tratta? >> il suo volto dall’espressione interrogativa contro il mio pieno di perplessità.

<< Si, è un cantante. >>

<< Eh, grazie al ca… >> Non capisco il perché, ma interrompe la frase.

<< Rastaman, positive vibration, Jamaica…ti dice qualcosa? >> sussurra e mi fissa, come se volesse cercare di comprendere da che razza di pianeta vengo.

<< Forse…avevo immaginato avesse qualcosa a che fare con la Jamaica…Usain Bolt, forse? >>

<< Te pare che Bolt si mette pure a cantare, ora? >>

Completo silenzio tra noi due.

<< Andiamo, se ti mostro i poster forse capisci di chi sto parlando. Muoviti! >>

 

 

I muri di casa sua rivelano quell’identità a me sconosciuta: si tratta di Bob Marley, ma a quanto pare ero l’unico a non averlo capito. Meglio tardi che mai.

Accetto di indossare gli abiti del fratello della ragazza-misteriosa-dal-nome-sconosciuto, perfettamente consapevole dell’ilarità che provocheranno una volta entrato in classe. Farmi deridere è la mia specialità.

<< Questi dovrebbero starti bene. >>  Vedo un paio di pantaloni volare verso di me, mentre lei cerca un paio di scarpe comode. Trovate. Lanciate. Questa volta però mi ha fatto male.

<< E così non fai il primo… >> afferma, con aria interrogativa e allo stesso tempo divertita, mentre cerco di infilarmi i pantaloni.

<< No. Quell’espressione divertita nella voce mi dice due cose: o mi vuoi prendere in giro perché sembro più piccolo, o ti ecciti vedendo i ragazzi seminudi. Entrambe mi innervosiscono. La seconda potrebbe divertirmi. >> Il mio tono di voce,  inizialmente sforzato nel tentativo di farmi entrare un paio di pantaloni, diventa ora più scherzoso, fiero di essere riuscito nella faticosa impresa.

<< Dai, muoviti, tra due minuti arriva l’autobus. >>

Mi allaccio le scarpe, metto lo zaino e ci affrettiamo a raggiungere la fermata prima che sia troppo tardi.

E’ successo tutto troppo in fretta. Tre minuti per fare tutto ciò, che mi sono sembrati un’eternità.

Sento del calore sulla mia pelle, qualcosa di caldo e piacevole. Guardo il cielo: è uscito il sole. Dopo il freddo penetrante di stamane è tutto ciò di cui avevo bisogno.

Saliamo sul bus e ci sediamo vicini. Mi metto le cuffie nelle orecchie, ma la ragazza-non-so-come-si-chiama mi osserva, provocandomi. Inizio a chiedermi se qualcuno mi abbia messo una parrucca e un naso da pagliaccio. Non appena noto i suoi sguardi assillanti, tolgo le cuffie dalle orecchie e corrugo la fronte, spalancando gli occhi. Per la serie “ che cazzo ridi?”

Diventa improvvisamente rossa. Non credevo di averla messa tanto in imbarazzo. Mi rivolge un sorriso, con aria di scuse e le guance ancora rosse. I suoi capelli biondo scuro sono illuminati dal sole, che ne fa assumere un aspetto “biondo Barbie” e la pelle chiara del suo viso crea un dolce contrasto con le sue guance rosse. E’ tremendamente carina. Decido di rompere il ghiaccio definitivamente.

<< Faccio il secondo anno del liceo scientifico, non la terza media, e che cazzo. >> Un velo di ilarità si nasconde nel mio tono di voce.

La faccio sorridere, ancora. Credo che diventeremo amici. Credo.

<< E comunque sono Lorenzo, piacere. >> Allungo la mano verso di lei.

<< Sarah, piacere. >> Allunga la sua verso di me. Una manina chiara chiara tocca la mia e la avvolge di un calore indescrivibile. Sembra essere passata tutto a un tratto dalla ragazza sicura di se e sfacciatella alla versione urbana di Heidi. Ci mancano solo le caprette che fanno “ciao”.

<< Che scuola frequenti? >>

<< Quest’anno inizio il classico. >> risponde lei, mentre cerca qualcosa nella sua borsa, che porta a tracolla poggiata sulla coscia destra.

<< Ah. Bene, cioè male. Cioè buon per te, che bello il classico. >> le rispondo, con tono ironico.

Dopo anni di ricerca in quella borsa nella quale sembrava averci messo l’intero continente africano, compresi i suoi abitanti, tira fuori una penna. Indica con la testa il mio braccio sinistro, e glielo allungo.

Inizia a scrivere un numero di telefono, forse il suo. Chiude la penna col tappo e mi sorride con una dolcezza da far venire le carie ai denti ,e io ricambio il gesto. Si alza, dirigendosi verso l’uscita del bus. Prima di scendere si volta e nota che la sto guardando. Mi sorride e scende. Mamma quant’è bella, mamma mia.

Metto le cuffie nelle orecchie , ma non penso a niente. Vuoto totale nella mia mente. Io, questo bus pieno di gente, le cuffie, e fuori una Torino che va di fretta. C’è chi deve andare al lavoro, chi deve accompagnare i figli a scuola, chi corre con le bici come nel Giro d’Italia, chi fa footing. Ognuno di noi è immerso nella noiosa, monotona quotidianità. Meno male che c’è il sole, almeno lui ci dà l’illusione di un’estate non ancora giunta al termine.

Il bus arriva e sono pronto a scendere. Davanti la scuola un migliaio di persone circa, tutte apparentemente pronte ad affrontare il primo giorno di scuola. Non vedo l’ora che passi. Cerco i miei amici, mentre gli occhi sono ancora in uno stato di dormiveglia; si chiudono ogni volta che li apro forzatamente per fingere di essere sveglio.

 

 

 

Scorgo da lontano la figura di Francesca: capelli corti e castani, figura slanciata, abbigliamento alla Serena wan der Woodsen e gli immancabili occhiali da sole, che la cretina indossa puntualmente anche nei giorni di pioggia.

In men che non si dica, non appena mi nota scoppia a ridere, penso per l’abbigliamento poco consono al mio modo di essere. Corre verso di me con le braccia aperte che sfociano in un enorme abbraccio e mi salta addosso.

<< Che minchia combini? Ora ti sei dato allo stile hippy? Non credevo che tre mesi senza di me ti potessero cambiare a tal punto. Per lo meno ora fumi marijuana, vero? Se devi fare le cose falle bene, cretino! >>

La faccio girare intorno in un abbraccio che sa della sua mancanza, di tre maledetti mesi lontano da lei. Mi è mancata un sacco.

<< Sapessi cosa mi è successo… >>

<< Non me ne frega niente. So già che  nel corso della giornata racconterai lo stesso fatto più di un miliardo di volte, per giustificare questo abbigliamento. >> Il nostro abbraccio si scioglie. Sento il corpo e le mani calde di Francesca staccarsi da me. Sentire di nuovo il suo profumo dopo mesi è una sensazione unica: quell’odore di lavanda, i vestiti appena lavati che sfiorano i miei, impregnati di fumo camuffato col deodorante di Sarah. Uno schifo totale.

Suona la campanella: meglio entrare.

 

La ricreazione è il momento più rilassante della giornata: cioccolata calda e sigaretta, che vuoi di più dalla vita? Lo squillo della campanella è cambiato quest’anno. Sembra ci sia un’invasione di grilli nella scuola ad ogni fine dell’ora, una cosa allucinante. Non appena i grilli friniscono per la quarta volta realizziamo il dolce arrivo della ricreazione. Che bello. Dieci minuti di relax. Ricordo ancora con le lacrime agli occhi l’intervallo delle scuole elementari, quando le pause duravano un’ora e ogni giorno si faceva una festa. Ma non di quelle che facciamo noi adolescenti, io parlo delle feste serie: quelle in cui ognuno è seduto al proprio banco e c’è lo sfigato di turno che serve a tutti, solitamente il festeggiato. Ecco perché io non organizzavo mai feste di compleanno: dovevo mangiare, io, non servire gli altri, mz. Quelli potevano essere chiamati bei tempi.

Mi incammino verso il piano superiore, il punto d’incontro dei ragazzi che fumano. Intravedo Francesca, pronta ad avvinghiarsi ad un gruppo di ragazzi del quinto. E’ sempre stata attirata dai più grandi, quelli fighi.

I simpaticoni che devono fare l’esame di maturità e se la tirano, anche se sono consapevoli di non essere preparati affatto, ma si devono “prendere” lo stesso. E le sceme che gli vanno dietro, bah.

Fingo di ignorare la risata che il mio abbigliamento genera  e mi appoggio con le braccia al poggia mani della scalinata. Cerco di accendere una sigaretta in un vano tentativo. Non ci riesco, c’è troppo vento. Mi arrendo. Tutta la gente che mi circonda ride o sogghigna, compresa Francesca. Si avvicina, camminando  verso di me.

<< Biondo dagli occhi azzurri, stasera vieni con noi in discoteca. >> Mi indica minacciosamente.

La guardo, dando poi un’occhiata a coloro che ci circondano. Mi fissano, come se aspettassero una risposta da me. Fulmino Francesca con lo sguardo. Se dicessi di no, mi deriderebbero e mi sputtanerebbero su Facebook. Bella merda.

<< A che ora? >> le rispondo, incredulo di aver  accettato la sua richiesta, la quale aveva più che altro le sembianze di un ordine.

<< Passami a prendere alle 11:00 >> mi risponde, con un’espressione alquanto soddisfatta. Ha raggiunto il suo obiettivo. Portarmi in discoteca con lei. E’ perfettamente consapevole del mio odio per la confusione, tutta quella musica che rimbomba nelle orecchie e tanti animali che saltano e saltano, in un’attività soprannominata da Francesca “ballo”. Non sono mai stato un grande esperto in materia, ma ballare non significa saltare come canguri zoppi per tre o quattro ore in un locale dove sono presenti altre centinaia di animali della tua stessa specie che cercano di imitarti. E non sanno neanche farlo. Una cosa allucinante.

 

 

12:23, ora di Italiano. Professoressa Paola Celeste: mora, capelli corti, alta, una cinquantina d’anni, tante preferenze, troppe chiacchiere. Il primo giorno di scuola dice sempre la stessa frase, accompagnata dalla sua classica domanda: “ Buon ritorno dalle vacanze! Che cosa avete fatto quest’estate? Dove siete stati? ”

Aspetto sempre con ansia che questo momento arrivi. Qui si sbizzarrisce la fantasia degli alunni: chi è andato nella gettonatissima Grecia, chi in Croazia, chi addirittura a Ibiza o Formentera! Tutte palle. Questi tipi di persone sono facilmente smascherabili: dicono di essere stati nei posti più esotici e paradisiaci del mondo, poi gli chiedi in che periodo ci sono andati, facendo finta di crederci. Vai su Facebook e controlli la loro timeline: 

7 agosto 2013

Tizio Sempronio ha aggiunto 245678 nuove foto all’album “ Una Settimana tra i monti: Casalnuovo Monterotaro-Pietra Montecorvino. “

 

Era bella Formentera? Si, se gli cambi il nome, sostituisci il mare con i monti e i bagnini con le pecore.

Non vedo l’ora di fuggire via, lontano da questa gabbia di matti. Sento i grilli frinire. Questa giornata è finita.

 

 

 

 

 

Tranquillità. Io, il mio letto, il buio della mia cameretta, un completo silenzio. Le persiane sono chiuse, quell’insopportabile lampadina a risparmio energetico è spenta. Adesso non esiste nessuna luce artificiale, quella che Nicolò chiamerebbe “luce falsa”.  E’ così piccolo il mio Nicolò, ma ha già capito tutto della vita: i suoi meccanismi, le fregature, la forza di rialzarsi e mostrarsi forti al nemico, le doppie facce della gente. Sette miliardi di persone, quattordici miliardi di facce.

Funziona tutto un po’ come una lampadina a risparmio energetico: la compri ,sperando di ridurre gli sprechi d’energia, ma cosa ottieni in cambio? Una luce fredda, gli occhi che bruciano solo dopo due ore di studio, un ambiente poco piacevole. Insomma, una lampada doppiogiochista. Maledetta.

A proposito di Nicolò, oggi è stato il suo primo giorno di scuola. I guai in cui mi sto per cacciare con Francesca mi hanno distratto dall’unico evento importante odierno. Mi alzo di soprassalto dal letto e mi incammino a passi lenti e pesanti verso la sua cameretta, con addosso il pigiama di Winnie The Pooh. Un quadro orrendo.

Giungo all’ingresso della cameretta e busso.

<< Toc toc, posso entrare cucciolo? >> chiedo sommessamente.

La porta è  leggermente aperta. Riesco a intravedere il profilo del mio fratellino, che appena udita la voce, gira la sua piccola testolina verso la porta per un incrocio di sguardi tra fratelli. Ora io mi sento Davide e vedo dentro di lui un piccolo Lorenzo che sta crescendo troppo in fretta. Il modo in cui mi somiglia è strabiliante, è più simile a me che a Davide. Due ginocchia cicciottelle sul pavimento, le braccia adagiate sul letto e due manine bianche che si muovono allo stesso ritmo della sigla di Spongebob, il suo cartone preferito. Tra le dita una matita che disegna su un piccolo quaderno una stella marina, o così appare da lontano. Non appena percepisce la mia presenza fisica si fa in quattro per mettere tutti i fogli a posto, ma io lo colgo in fragrante.

<< No, no, non mettere a posto. Non li vedrò. >> Entro repentino nella sua stanza, mettendomi in ginocchio accanto a lui.

Vedo spuntare sulle sue labbra un sorriso innocente.

<< Com’è andato il primo giorno di scuola? >> gli chiedo, ricambiando il suo sorriso con uno abbastanza ebete.

<< Secondo te? >> Un’inconfondibile voce femminile fa irruzione in camera, si intromette tra i nostri discorsi. Mi volto e noto l’enorme pila di roba che ricopre il viso di un soggetto femminile, dalla cui voce presuppongo sia mia madre. Cammina velocemente verso il letto, dove posa i vestiti. Li tocco. Al tatto sono morbidi, caldi. Lo sguardo fulmineo di mia madre incontra il mio.

<< Togli quelle mani puzzolenti dalla roba che ho appena stirato. A proposito di vestiti, cosa ci fai con questo coso? E’ un regalo di nonno Pasquale? Quante volte devo ripeterti che i pantaloni che ti regala un uomo di ottantatré anni sono troppo grandi per te? >> urla, indicando i pantaloni del fratello di Sarah.

<< Ehm, mamma, non sono del nonno. >> Mi volto verso mio fratello, che sogghigna alle parole di mia madre.

<< Non ho nessuna intenzione di entrare nei meandri della tua mente per cercare di avere un minimo approccio col tuo stupido cervello e comprendere dove tu sia andato a scovare quel coso. >> Ora sta esagerando, inizio a non sopportarla più.  Cambio argomento.

<< Ti avevo chiesto come fosse andato il primo giorno di scuola di Nicolò, non di entrare nel mondo della  psicanalisi improvvisandoti una fallita Sigmunda Freud. >> Non potevo essere più sarcastico di così.

<< Ti ricordi il tuo primo giorno di scuola? >> Un sorriso ebete e soddisfatto spunta sul viso del medico.

La sua faccia soddisfatta ispira vendetta nei miei confronti. Ci sono andato pesante con Freud. Mai paragonare il brillante medico chirurgo Carla Angeloro ad un neurologo e psicanalista austriaco. Potrebbe offendersi. Freud, cosa avete capito voi.

<< Oh no…Non rincominciare con questa storia… >> La mia espressione a dir poco inorridita al ricordo del mio primo giorno di scuola.

<< No no, per carità, non voglio ricordare per la trecento ottantesima  volta di quando, all’uscita del primo giorno di scuola, per non confessare alla maestra che non mi riuscivi a trovare, ti sei improvvisato orfanello, con tanto di pianto e racconto sull’accaduto dell’incidente in mare che provocò la mia morte. A quanto pare i fratelli prendono sempre spunto tra di loro. Bah, non so se vi vediate come degli idoli a vicenda, ma siete proprio dei cretini patentati. >>

Alzo gli occhi al cielo, guardando di sottecchi Nicolò con aria divertita, ma allo stesso tempo al limite della sopportazione nei confronti di mia madre.

<< Visto che non hai proprio niente da fare, ora mi aiuti. Prima di tutto le ore di pascolamento da vacca sono terminate per oggi, alzati da terra e piega la roba. >> Il suo tono di voce nasconde una sfumatura alquanto trasgressiva. Lei se lo può permettere, eh.

<< Ma non sono tutte le mie >> ribatto, cercando invano di scamparmela.

<< E che significa? Datti una mossa. >> Se ne va, lasciandomi in preda al nervosismo, con tutti quei vestiti da piegare. Ma non aveva detto che non li devo toccare? Bah, madri. Tutte uguali.

 

 

 

20:30

Ormai il sole è calato ed esco dalla stanza di Nicolò. Si è addormentato. Fino alla fine non sono riuscito a capire come sia andato il suo primo giorno di scuola.

Esco dalla sua cameretta a passi lenti, lasciando la porta aperta per non svegliarlo. Intravedo mia madre scendere le scale nel buio di una casa che preannuncia un’enorme facilità nel farmi svignare via.

Decido di scendere giù. Ho fame.

Sento dalle scale i rumori di un piano inferiore decisamente più vivo, animato. Cerco i miei genitori. Una luce proveniente dalla cucina mi attrae verso quella stanza. Riesco a sentire dall’ultimo gradino della scalinata i miei genitori parlare sommessamente.

Cammino lentamente, cercando di avvicinarmi alla porta per origliare quello di cui stanno parlando.

<< Come sta sua figlia? >> la voce di mio padre si confonde con quella di Ezio Greggio in tv. Parlano contemporaneamente.

<< Va avanti, come dovrebbe stare?!? Non sa nulla, ovviamente. >> risponde mia madre. Nella sua voce un dolore che ho già vissuto per troppi anni. Solo ultimamente sembrava essere stato soffocato per lasciare spazio ad un nuovo inizio. Una nuova vita.

<< Lasciarla vivere i suoi ultimi mesi nella consapevolezza di  avere una vita davanti è la cosa migliore da fare. Ludmila non avrà rimpianti. >> Scruto l’espressione di mio padre. Chi è Ludmila? Di sicuro non è italiana. Sembra quasi un nome dell’Est Europeo. Russia, o qualcosa del genere.

<< Ha avuto una vita così difficile: un marito completamente assente, la povertà assoluta dopo la nascita di Natalie, dover ricominciare una nuova vita in un paese che non è il tuo, trovare un lavoro. E proprio quando la vita sembra concederti un momento di tregua decide di portarti via un figlio. >>

I miei occhi si rabbuiano e la testa si abbassa. Mi volto. Ritorno velocemente nella mia stanza. Non voglio sentir parlare ancora di Davide. Non voglio vedere i miei genitori soffrire in silenzio. Di nuovo.

Chiudo la porta. Mi distendo sul letto. Dormo.

 

 

 

Ore 22:00

Mi sveglio di soprassalto. Tra un’ora dovrei essere fuori di qui. Sono seduto sul letto, la testa mi gira e ho caldo. Sono in uno stato confusionale. La mano destra sfiora la fronte con delicatezza: è calda. Credo di avere la febbre. Cerco l’interruttore della luce nel buio della cameretta. E’ proprio vicino al mio letto, sulla destra. Dopo vani tentativi riesco ad accendere la luce. Quest’esperienza non mi è nuova. Mi ricordo tanto quando, da piccolo, giocavo ad “Acchiappa la talpa” con mio cugino Marco. Perdevo ogni santissima volta. Quando accendevi il gioco sentivi delle talpe caga cazzo che cercavano, ovviamente invano, di intonare il jingle del gioco. Già da lì mi iniziava a salire l’omicidio. Poi ci si metteva anche lui, mio cugino, che non mi faceva vincere mai. Una volta mi sono incazzato a tal punto da confondere la talpa con lui. Gli diedi il martello in testa. La soddisfazione nei miei occhi nel vederlo piangere fu una sensazione unica. Evito di dire che però mia madre me le diede di santa ragione quel giorno. Prima mi rincorse con la scopa. Poi, notando la mia abilità nel fuggire via, optò per il piano b: il lancio della chianella, così chiamata dalle parti di mio cugino. La più famosa, però, non si dimentica mai, è un po’ come il primo amore: la cucchiarella. E chi se la scorda la nostra relazione. Siamo stati insieme per circa dieci anni , la relazione più lunga della mia vita. Recentemente ci siamo rivisti. Avevo il cuore che mi batteva a mille. Prima di dirci addio definitivamente, le ho giurato che lei sarebbe stata l’unico vero amore della mia vita. So per certo che il nostro non sarà un addio, è semplicemente un arrivederci. Combinerò altre diverse cazzate.

Apro la porta. Non si poteva respirare lì dentro. Mi fermo nel bel mezzo del corridoio. Silenzio. Oh, che bello. Sento solo mio padre che russa profondamente dalla camera da letto dei miei. Mia madre è al lavoro, ha il turno di notte oggi. Mi precipito in bagno: mi aspetta una lunga nottata.

Apro il rubinetto a aspetto che l’acqua diventi bollente. Calda, dolce acqua bollente. Ti libera da ogni pensiero. In quei cinque-dieci minuti di relax ti senti un mix tra Beyoncè , Freud e Maria Teresa di Calcutta. Canti Listen e Halo infischiandotene del giudizio della gente. Per qualche minuto della tua vita puoi prepararti psicologicamente al film mentale della tua audizione ad Amici, quella in cui tu sei l’unico fra tanti a far emozionare Rudi Zerbi. Che ragazzo di talento che sono. Nella doccia.

Poi arriva l’attimo in cui ti stanchi di cantare, non hai bisogno di allenarti, tu hai l’Xfactor nelle vene. Così arriva il fatidico momento dei dubbi esistenziali, delle domande sul destino e sul fato: Cosa farò da grande? Cosa c’è dopo la morte? Da cosa, o meglio, da chi ha avuto origine il mondo? E’ nato prima l’uovo o la gallina? Il coccodrillo come fa? Ma quando Will I Am morirà, diventerà Will I Was? Boh.

Infine realizzi di essere stato troppo tempo sotto la doccia e pensi ai bambini dell’Africa che a stento possono lavarsi. Si accende una lampadina nella tua testolina vuota e inizi a fare il calcolo dei litri d’acqua sprecati sotto la doccia. Non ci riesci. Chiudi tutto. Esci dalla doccia.

Il freddo aguzzo di settembre si fa sentire. Infilo l’accappatoio e appoggio le mani sul lavandino. Mi guardo allo specchio. Vedo un ragazzo dai capelli bagnati, biondi. Osservo  gocce d’acqua precipitare nel lavandino come un rubinetto che perde acqua. Non mi ero mai reso conto di quanto fossero profondi i miei occhi. Meravigliosi occhi azzurri. Non penso mai a me stesso. La mia mente è una macchinetta fotografica. Scatti impressi nella mente. Infiniti rullini di passato, presente e futuro della mia vita. Ogni scatto è il presente, il momento, l’emozione di un attimo di vita, un secondo. La foto è il passato, il ricordo di un attimo fuggente in cui sorridevi, piangevi, respiravi , mangiavi , dormivi, o semplicemente vivevi. Perché la vita è un insieme di attimi, una macchina fotografica in cui i rullini sono il nostro passato, la nostra storia. E io non faccio altro che scattare foto. Agli altri. Riempio i loro rullini, lasciando vuoti i miei. Lasciando vuoto me.

L’asciugamano poggiata sulla testa mi da calore. L’orologio segna le 22:15 e mi devo sbrigare. Mi tolgo l’accappatoio e mi dirigo verso la cameretta. Sono completamente nudo. Metto un paio di jeans appena lavati da mamma e una maglia nera. Se Enzo e Carla, quelli di Real time, mi vedessero ora, direbbero che questo abbigliamento fa molto night.

Mi asciugo i capelli. Il caldo del phon mi accarezza i capelli. Noto che mi si sono allungati parecchio. Devo andare a tagliarli. Abbasso la testa per asciugarli meglio e i miei occhi cadono sull’orologio. 22:30. Finito.

Ora  devo uscire di qui.

Scendo le scale pacatamente, per poi prendere le chiavi di casa all’ingresso e l’immancabile portafoglio. Lo apro: venticinque euro possono bastare. Apro il portone e mi ritrovo fuori casa alla velocità della luce, per evitare ripensamenti. In che cazzo di guai mi ha fatto cacciare quella!

Chiudo il portone. Nessuno strano scricchiolio o presunto rumore sgamante. Per fortuna Francesca abita vicino, non devo fare molta strada.

Torino di notte mi inquieta. Tutti i ragazzi a casa, mentre io, Francesca e i diciannovenni in discoteca.

Vedo di fronte a me gente apparentemente poco raccomandabile. Mi fissa, io ricambio, ma sono talmente terrorizzato da cambiare strada. Scelgo quella più lunga, ma quelli mi mettevano davvero paura ! Gentaglia.

Arrivo davanti a casa di Francesca. Lancio due sassolini alla sua finestra. Al terzo la colpisco in faccia. Oops. Aveva aperto la finestra.

<< Aspetta, coglionazzo! >> Il tono di Francesca è alquanto sfrenato.

<< Ci vuole tempo per arrivare! >>

<< Oh, scemo! Vedi che ci viene a prendere Alessandro! >> Chiude la finestra, sbattendola con la sua delicatezza da grezzona. E non esiste persona più delicata di una grezzona, eh.

Ah, è vero, Alessandro. Ora si è fissata con lui. Fa il quinto, ovviamente. Quinto liceo scientifico. Tutti scienziati pazzi. Per lo meno è felice, sembra esserlo davvero stavolta. Sono felice per lei, anche se quel ragazzo non mi convince del tutto. Ma in fondo in fondo, contenta lei, contenti tutti.

La luce delle scale si accende. Finalmente. Un portone si apre. Francesca esce da casa sua.

La fisso come un coglione patentato. E’ bellissima. La guardo dal basso verso l’alto mentre cerca di chiudere il portone, accennandomi un sorriso. Tacco dodici, un vestitino nero che mette in risalto in suo fisico. E’ una dea. Mi viene incontro a braccia aperte.

<< Vedi che se non chiudi la bocca entrano le mosche >> dice lei, mentre mi stringe in un abbraccio caloroso. Profuma così tanto. Oggi sa di pesca. Questa ragazza è una dolce essenza per me. Essenza di vita. La accolgo tra le mie braccia, quando a un certo punto sbuca lui. Nate Archibald è arrivato. Quello figo di Gossip Girl. Alessandro mi ha sempre dato quest’impressione. Arriva con l’ultimo modello della sua Ford Fiesta color grigio scuro, quasi nero. Mi rendo conto della sua presenza quando, ancora tra le mie braccia, Francesca inizia a chiocciare. Esatto. Chiocciare, come le galline. Il suo principe azzurro è arrivato. Io, invece, sono solo il Dan Humphrey della situazione. Lo sfigato che vive a Brooklyn. Ma me ne farò una ragione, non è Francesca la mia Serena van der Woodsen.

Il signor Archibald scende dalla macchina e saluta dolcemente Francesca, ancora in parte avvinghiata su di me. Non appena iniziano a baciarsi mi stacco lentamente dal suo corpo caldo. Profuma così tanto. Per un momento mi dispiace lasciarla tra le braccia di qualcun altro, ma non vorrei che Alessandro mi coinvolgesse in uno dei suoi tanti baci appassionati.

Una volta staccato dalla sua ragazza mi fa un cenno con la testa, a mo’ di saluto. Ricambio il gesto alquanto educato da parte sua, dato che fino a qualche mese fa non era neanche al corrente della mia esistenza.

Ci dirigiamo verso la macchina. Apro lo sportello. Che profumo di pini. Mi siedo. Noto dal lato opposto del veicolo Alessandro, che apre lo sportello a Francesca per farla salire. Che gentleman. Sono sempre stato convinto che i maschi non compiano questo gesto per questioni di Galateo, ma per evitare che le fidanzate, o qualsiasi altro genere di femmina gli rovini l’auto. Anelli, borse, telefoni, bracciali. Tutto può rappresentare un pericolo imminente per un uomo. L’auto è sacra. E noi maschi siamo fissati sotto questo punto di vista, bisogna ammetterlo. Quindi donne, non meravigliatevi se il vostro uomo vi apre lo sportello della macchina, nonostante sia un maleducato di prima categoria o un grezzo patentato: è tutta una strategia. Non vi fate abbindolare.

Il tragitto è totalmente segnato da canzoni sdolcinate che sceglie Francesca: I don’t wanna miss a thing degli Aerosmith, A chi mi dice dei Blue e Monsoon dei Tokio Hotel. Alla quarta , però, deve arrendersi: L’emozione non ha voce , di Adriano Celentano. E no, questa non la posso sopportare. Ma a quanto pare, Alessandro è il primo a stancarsi e a togliere il CD dal lettore. Francesca cerca di fermarlo, invano.

<< Eh, no! Ora è troppo! >> Finalmente qualcuno che mi capisce.

Francesca lo guarda torvo, l’espressione corrucciata. Alessandro osserva i suoi capricci, gli occhi seguono i movimenti della sua ragazza. Le fa un sorriso. Lei scoppia a ridere. Si baciano. E il tutto mentre Alessandro cerca di guidare. Non c’è niente da fare: sono davvero una bella coppia.

Gossip Girl accende la radio. Il paradiso. Nicole Scherzinger intona le note di Fino all’Extasi, con un Eros Ramazzotti fenomenale. Questa canzone è bellissima. Anche Alessandro la pensa come me: si gira, guardandomi negli occhi, e mi fa un occhiolino. Si volta e la sua ragazza poggia la mano sinistra sulla sua coscia destra e si fissano negli occhi. Sento una chimica tra di loro inevitabile, un filo che li lega e che li rende unici. Due corpi e un’anima, per intenderci. Il tutto è reso interessante dall’abilità di Gossip Girl nella guida: come cazzo ha fatto a non schiantarsi contro un’altra auto? Non ha tenuto gli occhi sulla strada per un momento. Mistero.

Giungiamo a destinazione, o così presumo. Alessandro ferma l’auto davanti a un garage con su scritto Passo carrabile. Credo che cammineremo un bel po’ al ritorno. A piedi, intendo. Mister Archibald dice che non è giorno, quindi non corriamo rischi. Bah.

Entriamo nel locale. Ola inizia a cantare I’m in love e nella mia testa c’è solo confusione. Orde di gente tra cui farsi spazio per cercare non so chi, gente che ti fissa, una musica assordante che ti porta in una nuova dimensione. Ti guardi intorno, spaventato da tutta quella gente, dal respiro affannato, dalla tua amica che ti dice di ballare ma non la riesci a sentire. Ti senti perso. Guardi in alto. La luce della discoteca è un insieme di colori sfavillanti, un’emozione indescrivibile. Il caos di una discoteca sovraffollata crea un alone intorno a me, una specie di protezione. Di fronte a me tanti soggetti che saltano, urlano, cantano.

'Cause I'm in lo-o-ove ,I'm in Lo-o-ove, I'm in Lo-o-ove … Yeah … All I really want to was to have a little piece of you , I never really meant to fall no, no no Yeah!

Io sono immobile, di fronte a questi grilli salterini senza meta. Realizzo di non essere adatto a questo posto quando mi ci ritrovo fuori. La mano destra appoggiata al muro, la testa abbassata. Vomito. Fuori un buio pesto e il freddo delle ultime giornate di settembre .Poi c’è la pioggia. Lascio che le gocce mi accarezzino la testa, che percorrano ogni millimetro dei miei capelli. Mi sento debole. Alzo la testa. Di fronte alla discoteca c’è gente  che fuma con le rispettive fidanzate. Delle lacrime post-vomito si confondono con la pioggia, che sfiora delicatamente il mio viso. Ho il respiro affannato.  Tra un tiro e l’altro la gente mi fissa, schifata dalla visione poco appagante del mio vomito. Vicino al muro c’è una gradinata. Mi ci siedo. Tremo dal freddo. Accendo una sigaretta, nel vano tentativo di riscaldarmi.

L’unica compagnia che ho è la pioggia. E il fumo. Il rumore della pioggia mi entra nelle orecchie. Non si può descrivere, ma puoi assaporarne il gusto del suo odore. Ogni volta ricordo le parole della professoressa D’Amore, quella di scienze: “La pioggia in sé emette poco odore, quello che percepiamo è il risultato dell’azione meccanica delle gocce d’acqua che colpiscono il terreno e vaporizzano le sostanze presenti, portandole più facilmente nelle vicinanze del nostro naso. Per questo motivo l’odore percepito dopo la pioggia risulta molto diverso se siamo nelle vicinanze di un bosco o siamo in pieno centro in una grande città. In città gli odori sprigionati non sono così piacevoli, perché le gocce d’acqua reagiscono con i residui della combustione dei carburanti delle vetture, amplificandone la percezione olfattiva.”

Non ho mai sentito più palle che in quella frase. L’odore della pioggia è qualcosa di unico, la sola cosa che ti fa venire voglia di affacciarti ad una finestra e starci per ore. Quella che ti tiene compagnia quando nessuno riesce a capirti e sembra colmare quel vuoto che c’è dentro di te. Nicolò dice sempre che le gocce d’acqua  che cadono durante la pioggia sono le lacrime di Gesù, stanco e sofferente nel vedere ingiustizie e cattiverie da parte degli esseri umani. Quanto ha ragione il mio fratellino.

Il buio pesto delle 00:27 non mi fa capire nulla. Se prima avessi bevuto non mi sarei nemmeno ricordato dove mi trovo ora. Però qualcosa la riesco a scorgere. Un corpo immobile, senz’anima, vicino all’ingresso della discoteca. Mi fissa. Ha in mano un ombrello ed è completamente solo. A prima vista sembrerebbe un diciottenne, è sicuramente più grande di me. Si gira di continuo come se aspettasse qualcuno, la mano sinistra nella tasca dei pantaloni. Ha un’espressione triste, malinconica, e ogni volta che la sua testa resta immobile mi guarda negli occhi, come se mi conoscesse da una vita. Io ricambio questi sguardi strani, cercando di capire cosa realmente voglia da me. Mi sento in imbarazzo. “Forse vuole solo prendermi in giro” penso. Mi tremano le gambe, fa troppo freddo qui. O forse no. Stacco gli occhi da quel corpo abbandonato dalla sua anima per dare un’occhiata alla sigaretta quasi terminata. Non posso buttarla vicino a me, rischierei di bruciarmi. Devo per forza alzarmi. Alzo lo sguardo e vedo quei due occhi che continuano a penetrare nei miei. Occhi scuri e prof…

Butto la sigaretta ed entro in discoteca. Fa un caldo fuori!!

  
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