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Autore: Julsien    08/07/2013    1 recensioni
Divento anche un po' maniaca delle sue ciglia, che di solito non si notano granché, perché sono biondissime. Ma da vicino, nella luce del sole che entra di sbieco dalla finestra, sono di un color oro chiaro e tanto lunghe che non capisco come facciano a non aggrovigliarsi quando sbatte le palpebre.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Justin Bieber
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LET’S START

December 15, 2012

 

L’aeroporto non era mai stato così affollato come quel giorno. Un via vai di gente bloccava la strada per l’uscita, gente che urlava, chi si salutava,bambini che giocavano e ridevano, chi si lamentava per la fila troppo lunga, chi correva perché probabilmente era in ritardo per l’imbarco, gente che aspettava, chi si guardava intorno in cerca di qualcuno, chi aspettava al bar, sulle poltroncine color caramello, la voce che annunciava l’orario di imbarco e i ritardi degli aerei, chi si strofinava le mani in cerca di un po’ di calore e, in più, non si sentiva che l’odore di caffellatte e cornetti al cioccolato appena sfornati. Questo era l’Hartsfield-Jackson, Atlanta International Airport.
Faceva freddo, molto. Tra i vari rumori che facevano da sottofondo, si poteva sentire benissimo il rumore della pioggia che batteva sulla strada, era un rumore regolare, rilassava. Il cielo era grigio e pieno di nuvoloni neri, ma che c’era da aspettarsi, era il quindici di dicembre.
Camminavo molto goffamente, con in una mano la mia borsa e nell’altra la valigia, mentre cercavo di farmi spazio tra la gente. I giubbini imbottiti e i maglioni non aiutavano per niente, non facevano altro che rimpicciolire il passaggio. Finalmente riuscì ad arrivare all’uscita, ma una folata di vento mi colpì in pieno, i miei capelli biondi-ramati mi volarono in faccia, non facendomi vedere niente, inciampai, ma non caddi. Un urlo stridulo uscì dalla mia bocca, invece. Improvvisamente mi sentì osservata. Sicuramente il mio maglione rosso fuoco di tre taglie più grande non era passato inosservato, così come il giubbino blu scuro, rubato a mio padre, che indossavo. Solo al pensiero che     qualcuno mi stesse osservando, arrossì di colpo, cercai di ricompormi e darmi un po’ di contegno e uscì dall’aeroporto. Un getto di aria fredda mi investì immediatamente, rabbrividì mentre cercai di ripararmi dalle gocce di pioggia che schizzavano per colpa del vento. Pensai alla bella figura che avevo appena fatto e un sorriso decorò il mio viso, involontariamente. Era stato divertente, infondo.
Il viaggio verso casa fu abbastanza lungo. Rimasi bloccata nel traffico per più di un’ora. Sicuramente la maggior parte della gente tornava a casa dopo aver trascorso una giornata al centro commerciale per comprare dei regali in vista del Natale. Ripensandoci avrei dovuto iniziare a pensare cosa avrei dovuto regalare alla mia famiglia, ma in quel momento la mia priorità era quella di arrivare a casa il prima possibile e di farmi un bagno caldo. Finalmente uscimmo dall’autostrada ed entrammo nella città. Anche se pioveva c’era gente che camminava per strada con tanti pacchetti in mano sotto un ombrello, coperti da un impermeabile oppure che cercavano di ripararsi sotto i balconi. Lungo tutti i marciapiedi c’erano degli enormi tendoni e bancarelle che vendevano dolci, caramelle oppure incartavano i regali. Le strade erano decorate, tantissime luci gialle, blu, rosse univano un palazzo a un altro creando giochi di luce bellissimi che facevano da contrasto con la neve creando uno spettacolo bellissimo, le vetrine erano decorate con motivi natalizi, c’erano alberi con magliette appese al posto delle palline, delle renne, regali, tanti pacchetti. Quella città era il Natale in persona.
Finalmente arrivai in quella che, da quel giorno, sarebbe stata la mia nuova casa. Era ormai da più di tre mesi che andavo e venivo dall’Italia qui per poterla arredare. Non abitavo nella città, troppo caotica e rumorosa, bensì nella zona residenziale a circa venti minuti dal centro. Il tassista parcheggiò e così scesi dalla macchina e mi recai verso casa. Martin Street, 7. Questo era l’indirizzo della mia nuova casa. Questo quartiere mi è sempre piaciuto, da quando lo vidi la prima volta, non facevo altro che pensare che avrei voluto venire a vivere qui. E così feci. Sembrava un quartiere a parte. C’erano tredici case, unite tra loro da delle stradine che si intersecavano tra loro passando tra un giardino e l’altro. Le case erano tutte una diversa dall’altra, alcune erano bordeaux, altre di un giallo pallido, alcune anche verdi. La mia era rossa con le finestre azzurre. Si trovava a su piano rialzato, infatti bisognava fare sette gradini per arrivare alla porta. Aveva anche una grande veranda che affacciava sulla strada, sempre blu, ed era su due piani.
Avevo arredato da sola la casa. Dopo aver finito la scuola in Italia, avevo deciso di venire a vivere qui in America, ad Atlanta. Così, durante l’estate cercai d venire il più possibile per riuscire ad arredare la casa. Certo, no era una cosa molto comoda, non riuscivo mai a smaltire il jet leg e le ore di fuso orario perché nel momento in cui mi abituavo, dovevo già ripartire. Ma devo dire che ne è valsa la pena. Al piano terra c’erano la cucina e un salottino mentre sopra, c’erano una camera da letto, il bagno e un’altra piccola stanza che usavo come lavanderia. Era tutto molto vintage, avevo deciso di arredarla secondo lo stile della casa, esterno vintage, interno vintage. Le pareti erano principalmente di colore bianco, tranne che nella mia camera e la cucina. Nella mia camera avevo deciso di mettere dei pannelli di legno sulla parete del letto e invece di mettere un quadro avevo messo una mensola con sopra tutta la mia collezione di cd.
Adoravo ascoltare musica, la mia playlist andava dai Green Days, Lana Del Ray a Rhianna, Demi Lovato, One Direction. Ascoltare musica mi rilassava, ricordo che da piccola adoravo stare a letto, sotto le coperte, con la tenda aperta le cuffiette nelle orecchie mentre vedevo la pioggia che scendeva, insistente, e picchiettava sul balcone. Secondo me, non c’è cosa più rilassante di questa.
A primo impatto potevo sembrare un po’ strana, amavo isolarmi per sentire della buona musica invece di scendere con i miei amici, ero timida, molto, e potevo sembrare quasi come il tipo di ragazza che si crede di essere chissà chi ma, invece, era solo un atteggiamento relativo al mio essere timida. Non mi sono mai sentita una ragazza superiore, anzi, diciamo che ho passato la maggior parte della mia adolescenza a cercare di sconfiggere la mia insicurezza. Ero insicura su tutto, forse la mia sola sicurezza era che ero insicura.
Essendo già venuta qui un paio di volte, avevo già conosciuto la maggior parte del vicinato, me la cavavo abbastanza bene con la lingua quindi non fu difficile ambientarmi. C’erano tutte persone simpatiche e gentile, mi avevano aiutato a portare i mobili dentro casa. Avevo stretto amicizia con una ragazza, Margaret, aveva la mia età e studiava per diventare veterinaria all’University of Atlanta, dove poi avrei studiato anche io l’anno dopo, ma ad una facoltà diversa. Margaret era la classica ragazza acqua e sapone, i capelli le scendevano in morbidi ricci color caramello lungo i fianchi, aveva una carnagione chiara, gli occhi verdi e non si truccava affatto. Era bellissima. Ci incontrammo per caso, io stavo salendo degli scatoloni in casa, non la vidi e le finì praticamente addosso, ricordo che scoppiammo entrambe a ridere. Passammo il resto della giornata a parlare e parlare.
Dopo aver fatto il mio meritato bagno, disfai le valige e decisi di chiamare i miei. “Ehi, mamma?Papà? Sono io..”
 
 

  
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