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Autore: Crepa    08/07/2013    5 recensioni
[…] “Si fermò davanti a me, gli occhi sgranati dalla sorpresa, come se non riuscisse a credere a quello che stava vedendo.
-Annabeth…- Iniziò Talia, ma non riuscì ad aggiungere altro che la donna mi aveva già gettato le braccia al collo, con le lacrime agli occhi.
-Luke!- Strillò, seppellendo il viso nella mia spalla. Mi irrigidii di colpo. Insomma, vorrei vedere voi se un’estranea vi abbracciasse come se foste un figlio partito per il Vietnam e tornato intero per miracolo.
Per fortuna Talia si mise in mezzo e mi tolse la donna di dosso con uno scatto stizzito della mano.
-Annabeth, lui non è Luke.- Spiegò, afferrandola per le spalle e costringendola a guardarla. –Cioè lo è, ma non è il nostro Luke.-
Finalmente Annabeth le rivolse tutta la sua attenzione- Vuoi dire che…?-
-Sì, è la sua reincarnazione.-“
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Castellan, Quasi tutti, Talia Grace
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 N.d.A. Ebbene sì, questa è la mia prima storia “seria”, la prima che scrivo davvero per me stessa e che ho deciso di condividere con voi.
Non so se è un tipo di storia che è già stato trattato, quando ho provato a spulciare la sezione non ho trovato nulla di simile, quindi eccomi qui.
Non ho nessun’altra rivelazione sconcertante da fare, quindi… Buona lettura :)

 

 

1-Di castori, conigli ed asini 


 C’erano tre cose che i semidei odiavano al Campo Mezzosangue: lavare i piatti, le Cacciatrici e le battaglie apocalittiche.
Io quel giorno avevo provato sulla mia pelle cosa significassero le ultime due cose.
Ma prima di raccontarvi la mia storia, lasciate che mi presenti. Il mio nome è Luke Dawson, ho sedici anni e mio padre è Ermes.
Sì, suona strano, lo so. Nemmeno io ci credevo, fino a che la mia vicina di casa non è diventata un Ciclope. Cioè, suppongo che lo fosse stata anche prima, ma la cosa è stata evidente solo quando ha tentato di uccidermi.
In un modo o nell’altro io e Grover, il mio vecchio Custode, siamo riusciti a farla fuori e a portare il mio semidivino posteriore  al Campo Mezzosangue, l’unico posto sicuro per quelli come noi.
Tutto ciò è accaduto circa due settimane fa.
Ma torniamo al racconto di quel funesto giorno.
Era una giornata estiva identica a alle altre che avevo vissuto al campo, eppure per me era tutto così nuovo che perfino scalare la montagna coperta di lava che qui chiamano “parete di arrampicata” non mi creava problemi.
Era proprio lì, infatti, che la capanna undici, quella di Ermes, aveva deciso di iniziare la sessione obbligatoria di allenamento.
Maggie Wilson- una ragazza sui diciassette anni, bassina, con un sorriso furbetto e i capelli rossi che era la nostra capo cabina – precedeva la lunga fila di figli di Ermes schiamazzanti verso la parete.
Tutti cercavano di rubare qualcosa a tutti e spesso e volentieri le tre dracme che il penultimo della fila rubava all’ultimo passavano di tasca in tasca fino a finire a Maggie che intascava la somma, giustificandosi con chiunque chiedesse il denaro indietro che quella era la sua paga per l’arduo lavoro di mantenere in riga i suoi fratelli.
Era una tipa a posto, anche se non eravamo molto in confidenza.
Durante quelle due settimane avevo stretto amicizia con solo due dei miei fratelli, gli unici che, quand’ero arrivato non mi avevano derubato di qualsiasi cosa avessi in tasca, ma, anzi, avevano recuperato il vecchio portafoglio di pelle vuoto che era di mia madre e me l’avevano restituito.
Uno era Dylan Richards, allampanato, con i capelli castani e con un serio caso di acne sulla faccia e l’altra era Angelica White e, credetemi, il suo nome non era una garanzia. Non che non fosse carina con i suoi grandi occhi scuri e la pelle olivastra, certo, ma aveva l’aria diabolica di chi sta per incendiarti i pantaloni.
Entrambi erano qui da prima di me.
-Ancora scalata.- Si lamentava Angelica. -Ogni volta iniziamo da lì.-
-Cos’è? Sei troppo esile per scalare una misera parete?- La rimbeccò Dylan con un sorriso furbetto. Anche se “misera” non era l’aggettivo giusto.
-Non mi piace l’altezza. Lo sai.- Replicò lei in un sussurro, poi aggrottò le sopracciglia e diede uno spintone al fratello –Comunque non devo spiegazioni a te, Faccia di Pizza.-
Dylan le scompigliò i capelli. –Povera Nanerottola, soffre di vertigini lei!-
Ridacchiai. Da quando li avevo conosciuti quei due non facevano altro che rimbeccarsi. Trovavo che la cosa fosse piuttosto buffa.
-Se non foste fratelli vi ci vedrei da morire come marito e moglie.- Commentai, ghignando.
Entrambi mi lanciarono un’occhiataccia, poi  Angelica mi pesò il piede così forte che sentii chiaramente la suola delle scarpe lasciare un solco nel terreno. Per essere una nanerottola era piuttosto forte.
Le feci la linguaccia e lei fece per tirarmi un pugno che schivai con facilità.
Dylan rise della scena, meritandosi un insulto in greco antico.
Continuammo a salire verso la parete battibeccando allegramente in questo modo,  e ci fermammo solo quando Maggie mi prese per un orecchio per trascinarmi davanti ai piedi della montagna.
-Vediamo cos’ha imparato il novellino.-  Disse, ghignando.
Le feci una smorfia, quindi tentai di metterle una mano in tasca e tentare di accaparrarmi il bottino ma lei mi schiaffeggiò la mano.
-Per fregare me devi fare ancora tanta strada, bello. Ora sbrigati, prima che la lava si raffreddi.-
Le feci una smorfia, ma poi mi affrettai ad arrampicarmi. Non volevo che gli altri mi prendessero per debole.
Avevo appena iniziato la scalata quando successe. Quello che il signor Jackson, uno dei direttori del campo, nonché insegnante di scherma, aveva definito “talento naturale” prese il sopravvento ed io mi ritrovai a inerpicarmi sulla montagna come una sorta di Spider-Man greco, schivando ora un’eruzione improvvisa di lama, ora un geyser potenzialmente tossico come se fosse la cosa più semplice del mondo.
E solo quando arrivai in cima e guardai in basso, dove alcuni dei miei fratelli avevano iniziato a scalare, ma molto più lentamente di me, quella strana sensazione che mi portava a mettere mani e piedi sugli appigli giusti sparì.
Una volta sceso anche Maggie sembrava soddisfatta. Mi concesse un “Hai capito il novellino!” e una pacca sulla spalla, prima di rimandarmi da Angelica e Dylan che, nel frattempo avevano ripreso a prendersi in giro.
La mattinata proseguì così, tra la parete d’arrampicata, la lezione di equitazione e il tiro con l’arco.
Quando finalmente giunse il momento di andare a pranzo ero a dir poco sfinito.
La maglietta arancione del campo era bruciacchiata e sudata. Alcuni dei miei fratelli insistettero per andare a darsi una rinfrescata, prima di mangiare, ma Maggie non voleva farsi sgridare da Chirone perché, ancora una volta, metà dei figli di Ermes erano spariti all’appello, così quando entrammo in mensa eravamo tutti presenti.
Dopo esserci messi più o meno ordinatamente in fila scendemmo le gradinate, ed ancor prima di sederci al tavolo che ci era riservato capimmo che c’era aria di novità.
Gli altri ragazzi, già seduti ai loro tavoli, mormoravano concitati, lanciando occhiate nervose al tavolo dove stavano seduti Chirone e Jackson (il signor D, l’altro direttore, non si alzava mai prima delle tre del pomeriggio).
Presto anche i miei fratelli iniziarono a mormorare ed io, che siccome ero l’ultimo arrivato ero anche l’ultimo della fila, dovetti sporgermi per vedere meglio cosa fosse l’oggetto di tanto bisbigliare.
Fu allora che la vidi: dimostrava quindici, sedici anni, aveva i capelli corti, spettinati, neri come la pece tirati indietro da un cerchietto d’argento. Indossava una maglietta strappata all’ombelico dello stesso colore, con un paio di spille punk  attaccate alle maniche, il viso era altero, regale, dai tratti molto marcati con un paio di occhi blu elettrico contornati dall’eyeliner nero incastonati sopra le guance.
Stava mormorando qualcosa, all’orecchio di Jackson, ma per un attimo fui certo che i suoi occhi avessero incrociato i miei. Non l’avevo mai vista prima, non aveva nulla di familiare, nemmeno la reputavo bella con quel naso così pronunciato, eppure c’era qualcosa in lei, che mi rendeva difficile distogliere lo sguardo.
Quando ci riuscii mi resi conto di essere rimasto indietro e che i miei fratelli avevano tutti già preso posto.
-E quella chi è?- Chiesi quando mi sedetti accanto a Dylan, ignorando i risolini delle figlie di Afrodite.
-Quella è una tosta. Si chiama Talia, è luogotenente di Artemide.- Rispose Angelica, sporgendosi davanti alla faccia dell’altro.
-Artemide?-  Chiesi.
-Non te l’hanno spiegato?-
Scossi la testa e lei sospirò.
-Artemide è una dea parthenos.- Aggiunse Dylan, inzuppando un angolo del tovagliolo nel bicchiere per poi appoggiarselo sul naso, dove la lava l’aveva scottato.  –Ha scelto di non poter avere figli, ma ha le Cacciatrici.-
Gli rivolsi uno sguardo interrogativo.
-Sono le sue ancelle, no?- Proseguì Angelica, indicando un tavolo al lato del padiglione che fino ad allora avevo visto vuoto. –Fanno voto di non sposarsi mai e in cambio ricevono l’immortalità.-
Sedute lì, a chiacchierare tranquillamente c’erano delle ragazze. Sembravano andare dai dodici ai sedici anni, nessuna era più grande. Indossavano tutte la stessa maglietta di Talia, ma senza spille e strappi e avevano tutte i capelli tirati indietro sul viso. Parlavano sommessamente, lanciando di tanto in tanto occhiatacce ai ragazzi del campo, come se stessero architettando  un modo per conquistare l’intera baracca. Non ero sicuro che mi piacessero.
-Lo so.- Disse Dylan, come se mi avesse letto nel pensiero. –Qui non le sopporta nessuno. Strano che Chirone non le abbia annunciate.-
Feci per chiedere il perché quando nei piatti apparvero gli hamburger e Maggie ci costrinse ad alzare le chiappe per andare ad offrire parte della cena agli dei.
La seguimmo, ed io ne approfittai per osservare un po’ la famigerata luogotenente di Artemide. Aveva smesso di parlare con Jackson e ora sembrava fissare il suo cheeseburger in modo ostinato, come se contenesse una qualche profonda verità Zen sulla vita che lei non riusciva a comprendere. Non mi diede più l’impressione di aver colto la mia occhiata e iniziai a pensare di essermi immaginato quando l’aveva fatto, prima.
Buttai una generosa parte del mio pranzo nel braciere e tornai a posto in silenzio, seguito da Angelica. Dylan si attardò indietro, fermato da Maggie e da un paio di altri nostri fratelli. Lo vidi scambiare uno sguardo d’intesa con la capo cabina ma non diedi molto peso alla cosa finché non tornò a sedersi tra me e Angelica.
-Stasera tenetevi liberi, voi due.- Disse, sorridendo mentre si gettava sul piatto.
-Come mai?-  Fece Angelica, con un sopracciglio inarcato.
Il sorriso di Dylan si allargò. –Si va a caccia. A caccia di Cacciatrici.-
 
-Ripetimi perché lo sto facendo.- Piagnucolò Angelica, tormentandosi le lunghe orecchie da coniglio pasquale. –Se le arpie ci beccano…-
-Perché noi le odiamo.- Replicò Dylan, anche se, nel suo costume da mascotte a forma di castoro non suonava molto convinto.
-Secondo me è perché tu non sai farti rispettare da Maggie e gli altri.- Replicai, imbronciato.
L’enorme faccia da castoro felice di mio fratello si voltò verso di me. –La prossima volta allora ci pensi tu, mister simpatia.-
Roteai gli occhi, ma probabilmente non lo vide per via della maschera da asino. Già, asino. Con tanto di coroncina di fiori tra le orecchie.
-Ma perché dovevamo fare proprio le esche?- Gemette Angelica. -Ti odio tanto, Faccia di Pizza.-
-Meno parole e più saltelli, coniglietta. Prima iniziamo e prima finiamo questa faccenda.- Replicò lui
 Fu così che un castoro gigante, un coniglio pasquale e l’asino di qualche opera teatrale su Shakespeare arrivarono davanti alla capanna argentata di Artemide per mettere in atto lo stupido piano che Maggie aveva architettato per vendicare il campo da qualche torto subito da parte delle Cacciatrici.
Piano che consisteva nel prendere i tre fratelli più idioti, infilarli in dei costumi da mascotte presi chissà dove e mandarli a fare da esche, sperando che il buio li facesse passare per mostri. Nel frattempo gli altri figli di Ermes avrebbero atteso accanto alla capanna, e una volta che le Cacciatrici fossero uscite l’avrebbero coperta di carta igienica.
Un piano tanto idiota quanto geniale.
-Come le attiriamo fuori da lì?- Chiesi, iniziando a sentire il sudore colarmi lungo la schiena per colpa di quel dannato costume da asino.
-Bussiamo?- Fece Angelica, esitante.
-Certo, e poi lasciamo un opuscolo su Geova.-  Ribatté Dylan.
-Ok, allora… ululiamo?- Tentai.
-Un coniglio, un castoro e un asino che ululano?-
-Non fare la pignola, nanerottola, secondo me ci cascano.- Approvò mio fratello.
Mi parve di vedere le sopracciglia scure di Angelica inarcarsi: -Come no. Sono ragazze che hanno fatto voto di castità. Secondo me basta che ci presentiamo ad una finestra con questi cosi come se volessimo spiarle e vedrete come ci inseguiranno.-
-Be’, non fa una piega.- Ammisi.
-Uff, basta che ci sbrighiamo, questa testa da castoro inizia a puzzare.- Concesse Dylan.
Ci appostammo ad una finestra illuminata, acquattati nell’erba in modo abbastanza losco da passare da stalker ma anche abbastanza evidente da essere visti e aspettammo.
Colsi l’occasione per studiare più da vicino le Cacciatrici. Sembravano un normale gruppo di teenager pronte per un pigiama party. Indossavano pigiami rosa con i cuoricini e ridacchiavano tra loro, solo che invece di leggere giornaletti di moda e farsi la manicure a vicenda affilavano le punte alle frecce e saggiavano le corde degli archi.
Tra tutte le ragazze individuai Talia, era seduta sul davanzale della finestra dall’altra parte della casa, aveva in una mano una fotografia e nell’altra una freccia d’argento con la quale si stava grattando una tempia. Sembrava triste e assorta e per un attimo desiderai capire cosa la affliggesse tanto, poi la voce di Anglica accanto a me mi riscosse:
-Non ci notano.- Sussurrò, la testa da coniglio un po’ storta. Gliela raddrizzai come meglio potevo con uno dei mei zoccoli da asino.
-Ok.- Fece Dylan sovrappensiero. -Proviamo così.-
Quindi bussò forte alla finestra. Vidi le Cacciatrici interrompere di colpo quello che stavano facendo e voltarsi verso la fonte del rumore. Non appena tutti gli occhi furono puntati su di noi Dylan le salutò con una mano, quindi ci agguantò entrambi e si lanciò a rotta di collo lontano dalla capanna.
All’inizio pensai che si sarebbero limitate ad andare a parlare con Chirone, a portargli una lettera di lamentele o chissà cosa, ma l’attimo dopo sentii la porta  aprirsi con un gran fracasso e un’orda di ragazze inferocite si gettò fuori dalla capanna, imbracciando archi e frecce.
-Ma ci puntano per davvero!- Esclamò Angelica, quando un dardo d’argento le si infilzò in una delle orecchie.
-Pensa a scappare!- Replicò Dylan, mentre una freccia gli sfiorava la spalla, stracciando il costume da castoro.
-Correte a zig-zag, così non possono mirare!- Urlai.
Fortunatamente eravamo in vantaggio su di loro perché sospettai che in piano ci battessero, in quanto a velocità. Procedemmo a rotta di collo lontano dalle capanne, sorpassammo quella di Eris e continuammo dritti verso la foresta.
Ci ero già stato, una volta, durante la mia prima settimana, per far visita a Grover ma in quel caso ero stato accompagnato da Chirone e non mi era sembrata una cosa pericolosa come quella notte.
Non appena ci addentrammo tra gli alberi e le felci il buio si fece più insidioso e l’aria venne invasa, oltre al sibilare delle frecce, dal sibilo di qualcosa. mostri, molto probabilmente.  Le Cacciatrici, comunque, non demorsero e continuarono a inseguirci. Iniziai a pentirmi di aver acconsentito a fare da esca, soprattutto quando, guardandomi attorno, non vidi né Angelica, né Dylan. Fortunatamente, però, anche le mie inseguitrici sembravano essere diminuite.
Sudavo sempre di più, avevo dannatamente caldo e sotto quella stupida maschera non c’era nemmeno aria. Iniziai a pensare di sfilarmela ma non ce ne fu bisogno.
Per via del buio, del costume ingombrante o della fretta,  non vidi dove mettevo i piedi e in un batter d’occhio caddi lungo disteso sul terreno. Alcune frecce continuavano a saettarmi sopra la testa.
-Non lo vedo più!- Urlò qualcuno, poco distante da me.
-Prova verso sud.- Replicò un’altra voce, seguita da dei passi che si allontanavano sempre di più.
Rimasi in silenzio, nella speranza che non notassero l’asino mezzo morto di caldo e fatica ai loro piedi. Ma ovviamente le famigerate Cacciatrici non potevano farsi sfuggire un dettaglio simile.
Una di loro dovette avermi visto, perché sentii dei passi leggeri avvicinarsi, e un calcio rivoltarmi a pancia in su.
-Ehi!- Borbottai indignato, mettendomi a sedere, la voce attutita dal costume. -Sarò un asino, ma ho anche io dei sentimenti!-
Una Cacciatrice mi si inginocchiò davanti, aveva i capelli castani raccolti in una treccia e un pigiama verde, con dei fiorellini colorati. Malgrado l’abbigliamento, però, con l’arco teso, sembrava parecchio minacciosa. Alzai gli zoccoli in segno di resa.
-Via la maschera, brutto…- Si fermò, come alla ricerca di un insulto abbastanza grande. -…ragazzo.- Concluse.
-Se mi dai un bacio magari faccio come i rospi.-  La stuzzicai.
Lei si accigliò ancora di più. -Via la maschera, ho detto.-
-Come vuoi, come vuoi.- Dissi, afferrai la testa dell’asino per le orecchie e tirai forte, contento di liberarmi di una parte di quel costume infernale. Poi però mi venne in mente cosa un gruppo di ragazze sessualmente frustrate come le Cacciatrici avrebbero potuto farmi una volta che la ragazza con il pigiama verde mi avesse portato dalle altre. Così mi venne un lampo di ispirazione. Con un colpo di reni mi misi in piedi, lanciai la maschera in faccia alla ragazza tanto forte da farla cadere a terra e con un balzo la scavalcai, per gettarmi di corsa da dove ero venuto, pensando che tutte le altre Cacciatrici si fossero già addentrate nella foresta alla ricerca dei mei compagni Coniglio e Castoro.
Ma ancora una volta avevo sottovalutato le Cacciatrici.
Non feci nemmeno cinque metri che venni brutalmente placcato da qualcosa di forte. Percepii la Cacciatrice finire a terra e rotolare con me per qualche metro, fino a che  non fu sopra di me. Un ginocchio piantato al centro del mio petto per tenermi fermo e un coltello da caccia a un centimetro dalla mia gola.
Alzai lo sguardo e incontrai dei tratti spigolosi, un naso pronunciato e un paio di occhi blu elettrico che facevano capolino da una zazzera di capelli neri e scompigliati.
Talia ricambiò il mio sguardo per un attimo e nel fioco baluginio del coltello che mi teneva puntato alla gola vidi la rabbia e l’indignazione lasciare il posto a qualcosa di diverso: stupore.

 

  
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