Anime & Manga > Lupin III
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Autore: serenestelle3    09/07/2013    1 recensioni
Una piccola slice of life dedicata al personaggio di Zenigata, attraverso alcuni momenti chiave della sua vita famigliare immaginata da me (e che si riallaccia all'altra mia storia su Lupin, "Inganni").
Genere: Sentimentale, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Koichi Zenigata, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando posso rivederti?

Storia partecipante al contest "When I can see you again?" di darllenwr


°°° Echi di primavera °°°

L’ora del pranzo era passata da un pezzo, e l’orda caotica di ragazzi e ragazze si era diradata come uno tsunami. A parte gli inservienti e i soliti quattro gatti che si attardavano a bighellonare in giro, Koichi era l’unica persona rimasta nel minuscolo giardino antistante la mensa.
 
Aveva scelto con attenzione il luogo e l’ora più adatti. Giù al campus c’era sempre troppa confusione per studiare in santa pace; lì, invece, il personale della mensa si limitava a lanciargli di tanto in tanto un’occhiata distratta, e i quattro gatti si guardavano bene dall’infastidire quello strano ragazzo alto e abbronzato, dalle spalle larghe, che divorava il libro di diritto penale come se fosse stato il più avvincente dei manga. All’università di Keio, Koichi si era guadagnato in fretta la reputazione di quello ambizioso, quello fissato con il rispetto delle regole, quello che non lasciava mai niente al caso e sognava di diventare un grande poliziotto. Be’… che male c’era, ad avere un ideale nella vita? Era colpa sua se gli altri non si ponevano degli obiettivi?
 
Dicevano che non avesse un briciolo di senso dell’umorismo, il che forse era anche vero. Di fatto, Koichi prendeva la vita estremamente sul serio; si comportava come se ogni cosa, anche un banalissimo esame di diritto, fosse una questione di vita di morte. Quel suo atteggiamento sconcertava i suoi coetanei, e negli anni aveva provveduto a estraniarli sempre di più.
 
Non che a Koichi importasse di isolarsi. Avrebbe avuto tutto il tempo per costruirsi una vita sociale se e quando avesse voluto; adesso la cosa più importante era pensare al futuro. E nel suo futuro lui vedeva solo un distintivo da poliziot…
 
“Scusa, posso farti una domanda?”, lo interruppe una voce femminile, allegra e squillante.
 
Accigliato, Koichi alzò lo sguardo dal libro di diritto.  Di fronte a lui c’erano due ragazzi, un maschio e una femmina. Dovevano avere pressappoco la sua stessa età, ma non erano giapponesi. Danesi, forse? Italiani? Avevano tutta l’aria di provenire da qualche luogo della vecchia Europa.  
 
Il ragazzo era tarchiato, più basso di lui di almeno tutta la testa, con i capelli di una sfumatura indefinita a metà fra il biondo scuro e il castano chiaro. La ragazza, che Koichi indovinò essere sua sorella, aveva i capelli color sabbia lunghi fino alle spalle e gli stessi occhi verdi del fratello, un fisico sottile e il viso più dolce che si potesse immaginare.
 
“Dite”, fece Koichi, sorpreso, richiudendo il libro.
 
“Da che parte sono gli uffici amministrativi? Dei ragazzi più avanti ci hanno dato delle indicazioni, ma mi sa che ci siamo persi”, spiegò lei, imbarazzata. Il modo in cui si strinse nelle spalle e il suo sorriso vergognoso la facevano sembrare ancor più bella.
 
“Mia sorella è un disastro, con l’orientamento”, intervenne scherzosamente il ragazzo. “Sarebbe capace di perdersi perfino dentro casa.”
 
Per tutta risposta, lei gli diede uno spintone. “Piantala, Nino! Non fai ridere nessuno!”
 
“In effetti no, è una cosa seria. Ehi, Martha, forse dovresti  andare in giro con un cane guida, come fanno i ciechi!”, suggerì il fratello. La ragazza, Martha, gli fece una sonora linguaccia, e stavolta persino Koichi non riuscì a rimanere serio.
 
“Se volete vi accompagno”, disse, alzandosi in piedi e spazzolandosi i calzoni. “Non è lontano da qui.”
 
“Non vorremmo disturbarti troppo”, rispose prontamente Nino, con un’occhiata colpevole al libro di diritto. Ma Koichi scrollò le spalle.
 
“No, va bene. Mi preparavo all’appello di domani, niente di grave.”
 
Gli piaceva rendersi utile, che si trattasse di indicare la strada a una matricola dallo sguardo confuso o di raccogliere i libri che qualcuno aveva sbadatamente lasciato cadere. Sentiva un bisogno quasi fisico di aiutare le persone in difficoltà, anche a costo di rimetterci lui stesso; uno dei motivi per cui era deciso a diventare poliziotto e mettere la sua vita al servizio della gente, dei bisognosi, delle vittime.
 
Mentre ficcava in borsa il libro di diritto, incrociò per un attimo lo sguardo della ragazza bionda, Martha. Qualcosa, nel suo modo di sorridergli, lo faceva sentire confuso. Era come se il suo cuore avesse improvvisamente deciso di battere al doppio della velocità normale, e nello stesso tempo si fosse incastrato da qualche parte vicino al pomo d’Adamo.
 
Uscirono dalla caffetteria e si avviarono verso l’edificio della direzione. Koichi apriva la strada, ma i due fratelli biondi non sembravano avere difficoltà a stargli al passo; soprattutto lei, che saltellava come un’adolescente, guardandosi intorno e parlando a raffica col fratello in una strana lingua sconosciuta.
 
“Siete nuovi di qui, vero?”, chiese Koichi a un tratto.
 
Stavolta fu il ragazzo, Nino, a rispondere per primo. “Sì, siamo arrivati due giorni fa da Catania. A proposito, io mi chiamo Nino Cannizzaro, e lei è mia sorella Martha”, aggiunse, tendendogli la mano. Koichi la strinse con decisione. Alla ragazza rivolse un rapido cenno di saluto, che lei ricambiò sorridendo. Le sue labbra piegavano naturalmente all’insù, come se non riuscisse mai davvero a restare seria. Era in assoluto la persona più solare che Koichi avesse mai incontrato in vita sua.
 
“Io sono Koichi Zenigata.”
 
“Piacere di conoscerti, Koichi-san”, fece Martha. Lo pronunciava in un modo buffo, Ko-o-i-chi, con le sillabe troppo distaccate fra loro. Eppure, il ragazzo non riuscì a evitare che il suo cuore facesse un buffo saltello sentendo quella sconosciuta, quell’italiana dai capelli biondi come la sabbia e gli occhi più verdi che si potessero immaginare, ripetere il suo nome. “E’ carino”, continuò allegramente lei. “Un po’ diverso dai soliti Yoshi, Tsubasa…”
 
“Riku”, suggerì Nino, come se fosse un loro scherzo personale.
 
“Akira! Ho perso il conto di quanti Akira ho sentito in questi due giorni…”
 
“Come si chiamava quel tizio dell’aereporto? Quello che non smetteva un attimo di ronzarti dietro?”
 
“Hmmm…” Martha aggrottò la fronte in un’espressione imbronciata, poi si illuminò in volto. “Yuki! Sì, ecco, Yuki… boh, Yuki Qualcosa!”, terminò, ridendo.
 
Ascoltare il loro botta e risposta simultaneo era meglio della televisione. Senza accorgersene, Koichi aveva persino smesso di camminare. Appoggiato a un muro, li osservava con le braccia incrociate e un mezzo sorriso sulle labbra.
 
“Allora, Nino e Martha… siete venuti a studiare a Keio in pianta stabile, o vi fermerete solo per un po’?”, buttò lì.
 
“Oh, no, solo quattro mesi”, rispose Martha, stavolta senza sorridere. Koichi le lanciò un’occhiata interrogativa, e lei scrollò le spalle. “Se dipendesse da me, non me ne andrei più. Adoro il Giappone, è in assoluto il primo posto al mondo dove vorrei vivere. Purtroppo, non possiamo permettercelo.”
 
“Ecco perché questa borsa di studio era così importante, per noi”, spiegò Nino.
 
Koichi lasciò vagare lo sguardo dall’uno all’altra, poi disse;
 
“Vediamo se indovino. Siete della facoltà di Lingue, vero?”
 
Ai due fratelli, per poco, non schizzarono fuori gli occhi dalle orbite.
 
“Come lo sai?”, strillarono all’unisono.
 
“Si sente”, replicò lui, con un mezzo sorriso. “Parlate bene il giapponese, avete una dizione perfetta.”
 
“Una ragazza che è nel mio corso di letteratura dice che ho l’accento milanese”, fece Martha, perplessa. “Milanese… io Milano l’avrò vista sì e no due volte, in cartolina!”
 
Il fratello disse qualcos’altro in quella lingua incomprensibile. Doveva essere una battuta, perché lei rise e gli diede uno spintone.
 
“Scusaci”, fece poi, voltandosi verso Koichi. “In effetti non dovremmo parlare fra noi in dialetto, non è carino nei tuoi confronti.”
 
“No, no, non è un problema”, ribatté il ragazzo. “Allora quello era siciliano? Credevo fosse italiano generico…”
 
Stavolta toccò a Nino sganasciarsi dalle risate. “Teni gana di babbiare?”
 
“Ti ha chiesto se scherzi”, tradusse Martha, tentando inutilmente di restare seria. Lui avrebbe voluto che non si sforzasse tanto; quando sorrideva, i suoi occhi diventavano ancora più verdi del solito. Gli ricordavano il colore delle foglie in primavera. “Sei un buffone, Nino!”, proseguì la ragazza, scompigliando affettuosamente i capelli del fratello.
 
“Certo che sì”, rispose lui baldanzoso. “E’ il segreto del mio successo. Le donne adorano un uomo che le fa ridere!”
 
Quasi senza accorgersene, avevano ripreso a camminare. Pochi minuti dopo giunsero davanti ai gradini della direzione, e Koichi fece un gesto impacciato con il braccio, ad indicare l'intero palazzotto.
 
“Be’… eccoci arrivati.”
 
“Penso che da qui possiamo cavarcela da soli. Grazie di tutto, sei stato un grande”, fece Nino, alzando la mano con il palmo all’insù per battere un cinque. Fortunatamente, Koichi aveva imparato quel saluto da dei ragazzi americani che frequentavano alcuni corsi assieme a lui.
 
“Sì, grazie, Koichi-san”, gli fece eco Martha.
 
“Magari ci si vede in giro, uno di questi giorni”, aggiunse il fratello. E ridacchiò, come se avesse fatto una battuta spassosissima. L’Università di Keyo contava qualcosa tipo tremila studenti, quindi sarebbe stato estremamente difficile incontrare di nuovo un ragazzo che, oltretutto, non frequentava neppure la loro stessa Facoltà.
 
Né Koichi né Martha si unirono alla sua risata. Lui guardava la facciata della direzione; lei aveva abbassato gli occhi e giocherellava nervosamente con l’elastico della sua borsa.
 
“Be’…”, concluse finalmente Koichi, dopo una pausa imbarazzata.
 
“Sì”, gli fece eco Martha.
 
“Farò meglio che torni al mio esame di Diritto. Buona permanenza in Giappone, Nino… Martha.”
 
Li salutò agitando la mano e tornò lentamente sui suoi passi. Teneva le spalle leggermente incurvate, come sotto un peso invisibile.
 
Avrebbe voluto parlare più a lungo con i fratelli Cannizzaro. Come al solito, si ricordò troppo tardi che avrebbero potuto scambiarsi i telefoni e sentirsi ogni tanto. Era sempre così; quando doveva relazionarsi agli altri, o si chiudeva nel mutismo o reagiva a scoppio ritardato, forse per un suo istintivo bisogno di stare per conto suo… fatto sta che non riusciva mai a dire o fare la cosa giusta al momento giusto.
 
Nino aveva ragione. Con ogni probabilità, non si sarebbero rivisti mai più. E lui aveva ben altro di cui preoccuparsi, a cominciare dall’esame di Diritto. Tirò nuovamente fuori il libro e, trovato un angolino tranquillo accanto a un’aiuola, si appollaiò su una ringhiera e riprese a leggere.
 
Non era facile concentrarsi. Il suo sguardo scivolava da una riga all’altra, ma il suo cervello si ostinava a rimanere in cima alla pagina e alla prima occasione ne approfittava per tornare a lei, a quel raggio di sole primaverile con le fattezze di una ragazza italiana. Il ricordo del suo sorriso era quasi doloroso, per Koichi.
 
Se solo potessi rivederla…

 



Da quel giorno, ogni volta che faceva quattro passi per sgranchirsi le gambe, i suoi passi si indirizzavano automaticamente in direzione della Facoltà di Lingue. Era capace di bighellonare per ore intorno all’edificio; un paio di volte si avventurò persino nei corridoi, sperando di incontrare Martha. Un giorno gli era sembrato di riconoscere il bagliore dorato dei suoi capelli in mezzo a un chiassoso gruppo di ragazzi, ma li aveva persi di vista prima di potersene accertare.
 
Certo, sarebbe stato molto più semplice chiedere di lei in Direzione o alla Segreteria. Ma poi avrebbe dovuto spiegarle troppe cose, e inoltre non riusciva a pensare proprio a nessun pretesto valido per giustificare la sua presenza lì.
 
Così, Koichi si affidò alla fortuna e alla determinazione.
 
Ogni volta che sentiva qualcuno parlare in italiano, sentiva il cuore balzargli in gola e si girava di scatto, nella speranza di vedere Martha o suo fratello Nino. Ma passò quasi una settimana prima che i suoi sforzi venissero finalmente ricompensati.
 
Quel giorno, tanto per cambiare, aveva deciso di appostarsi vicino ai tabelloni delle graduatorie. I ragazzi che gironzolavano lì intorno gli lanciavano occhiate curiose, chiedendosi con ogni probabilità se non fosse un nuovo studente. Vide un gruppetto di balordi, riconoscibili per le loro facce da schiaffi e gli identici sogghigni idioti, ridersela fra loro. Una ragazza diede una gomitata alla sua vicina e indicò con un cenno le sue spalle; l’altra le rispose con un risolino malizioso.
 
Prima che decidessero di rivolgergli la parola, lui si allontanò di qualche passo, evitando di guardare nella loro direzione. Le ragazze troppo dirette riuscivano sempre a metterlo a disagio, anche quando avevano le migliori intenzioni. Ripensò con nostalgia a Martha, al suo carattere  spontaneo e scanzonato. Se fosse stata lei a guardarlo come quelle due ragazze, forse non gli sarebbe dispiaciuto…
 
In quel momento, dal cortile echeggiò un suono simile a uno schianto, seguito da due voci sconsolate. Una era maschile, assolutamente comune, ma l’altra… Koichi l’avrebbe riconosciuta ovunque.
 
Si precipitò in quella direzione e, girato l’angolo, vide Martha e un ragazzo dai capelli neri che cercavano di rimettersi in piedi. Attorno a loro erano sparpagliati un gran numero di libri e un trolley capovolto.
 
Il ragazzo si stava scusando freneticamente con lei, e nello stesso tempo cercava di recuperare i suoi libri. Dovevano confrontarli in continuazione per riconoscere quali fossero le rispettive copie.
 
In un lampo, Koichi bruciò lo spazio che li divideva e fu al fianco di Martha, a pochi centimetri dai suoi occhi, dal suo volto.
 
“Martha, stai bene?”, chiese, sorreggendola per un braccio.
 
Lei alzò lo sguardo, sorpresa. Lo riconobbe subito.
 
“Koichi-san! Che bella sorpresa!”
 
“Ho visto cos’è successo. Ti sei fatta male?”
 
“No, tranquillo, sto benissimo”, si affrettò a rassicurarlo Martha. Il tizio che era andato a sbattere contro di lei si fece piccolo piccolo; evidentemente pensava che Koichi fosse qualcosa tipo un suo parente, o forse il suo ragazzo, e non aveva nessuna voglia di attirare su di sé la sua attenzione.
 
“Ti aiuto con i libri.”
 
“Ce la faccio da sola”, disse Martha. “Non preoccuparti.”
 
“No, davvero, lo faccio volentieri.”
 
Alla fine riuscirono, con qualche difficoltà, a separare i suoi libri da quelli del ragazzo, che fece un ultimo inchino nervoso e si defilò, tirandosi dietro il trolley.
 
“Dovrebbe stare più attento, con quell’aggeggio”, borbottò Koichi, guardandolo storto.
 
“In realtà è stata colpa mia”, arrossì Martha. “Non stavo guardando dove andavo e lui ha girato l’angolo sparato…”
 
“Sicura di star bene? Vuoi fare un salto in infermeria?”
 
“Oh, no, no, non mi sono fatta nulla!” Per tranquillizzarlo, sollevò i palmi delle mani e glieli mostrò. Per fortuna Koichi non vide l’ombra di un graffio, anche se i pantaloni che indossava erano impolverati all’altezza delle ginocchia. “Tu, piuttosto, che ci fai qui?”, continuò la ragazza, guardandolo incuriosita.
 
Lui si strinse nelle spalle.
 
“Niente d’importante. Passavo per caso…” Patetico. Non era capace di mentire, e lo sapeva benissimo. Uno di Giurisprudenza non aveva motivo di aggirarsi nei pressi della Facoltà di Lingue, a meno che non dovesse incontrare un conoscente.
 
“E’ il colmo! Che buffa coincidenza”, osservò Martha. “Pensa che non Nino parlavamo di te proprio ieri!”
 
Be’, se non altro si ricordavano di lui. Buon segno.
 
“In bene, spero”, ribatté, abbozzando un sorriso.
 
“Oh, sì. Solo cose positive sulla nostra guida!” Martha gli diede una gomitata affettuosa. “Ci chiedevamo com’era andato il tuo esame di Diritto. Hai detto che ci tenevi tanto…”
 
“Mi sono piazzato bene. Abbastanza bene”, precisò Koichi. Non disse che aveva tralasciato quasi completamente il ripasso per cercare lei. Era vero, ma gli sembrava troppo stupido dirlo a voce alta. “Che mi dici di voi? Come vi trovate, qui a Keio?”
 
Martha s’illuminò in volto. “Benissimo! E’ proprio come ce lo aspettavamo… e poi sono tutti tanto gentili con noi. Mio fratello è praticamente a casa sua; pensa che ha già uno stuolo di fans adoranti”, aggiunse ridacchiando.
 
“Posso offrirti qualcosa?” Con un cenno della testa, il ragazzo indicò l’edificio della mensa.
 
“Perché no?”, sorrise lei.
 
Non lo prese a braccetto, ma rimase al suo fianco per tutto il tragitto. Lungo la strada, parlarono allegramente del più e del meno. A Catania lei e Nino avevano preso in affitto una stanza insieme ad altri studenti, ma nel periodo delle vacanze tornavano a Caltanissetta, dove vivevano con i genitori e una vecchia zia che non si era mai sposata. Avevano due anni di differenza ed erano molto affezionati l’uno all’altra.
 
“E tu, hai fratelli o sorelle?”
 
“No, sono figlio unico.” Il che, probabilmente, era un vantaggio. Koichi era sempre stato troppo competitivo, e convivere con un fratello o una sorella avrebbe solo esasperato quel lato del suo carattere.
 
Martha voleva fare la giornalista di moda; sognava di girare il mondo alla scoperta di nuove usanze e costumi, per portarne la testimonianza in Italia. Quando Koichi le parlò della sua intenzione di diventare un grande poliziotto, lei rimase stupefatta e lo guardò con un’ammirazione che gli fece gonfiare il petto d’orgoglio.
 
“Anche Nino vorrebbe diventare poliziotto, sai? Nostro zio Gerlando, buonanima, era nell’Arma.”
 
“L’Arma?”
 
“Sì, i carabinieri… voi qui non li avete, naturalmente.” Stava per aggiungere qualcos’altro, quando le cadde l’occhio sull’orologio che aveva al polso. “Oh, cielo!”, squittì, balzando su come una molla. “Sono in ritardo, fra dieci minuti ho appuntamento in biblioteca con Reika per delle fotocopie. Scusami, Koichi, devo scappare!”
 
“Non c’è problema”, rispose il ragazzo. Vedendo che lei armeggiava per tirare fuori il portafoglio dalla borsa, l’avvertì; “Pago io!”
 
“Non se ne parla!”
 
“Senti, l’avevamo deciso prima. E poi sono io che ti ho invitata…”
 
“Offrirai tu la prossima volta”, ribatté Martha, sorridendo. Koichi sentì il cuore balzargli in gola. Allora ci sarebbe stata una prossima volta?
 
Fulminea, la ragazza lo precedette al bancone e pagò le loro consumazioni. A nulla valsero le proteste di Koichi; Martha sapeva essere testarda.
 
“Grazie di tutto”, concluse sorridendo, mentre lui l’accompagnava sulla porta della caffetteria. “E’ stato bello parlare un po’ fra noi… sai, come abbiamo fatto oggi.”

“Sì, anche per me”, annuì lui. Si guardarono impacciati, senza sapere bene come salutarsi. Alla fine, Martha gli tese la mano. Koichi la strinse, esitante.
 
“Allora… ciao”, mormorò lei. Gli fece un ultimo debole sorriso, poi si volse e si incamminò lungo un viale alberato.
 
Era la sua unica chance; se non glielo diceva ora, non l’avrebbe fatto mai più.
 
“Ehi… Martha!”, le urlò dietro Koichi. Aveva la gola stranamente arida, ma lei lo udì ugualmente e si girò a guardarlo con aria interrogativa.
 
“Sì?”
 
Il ragazzo trasse un profondo respiro. Ti prego, pensò, fa che non mi si spezzi la voce.
 
“Allora… quando posso rivederti?”

  
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