"La vita è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, passando per l'intervallo fugace del piacere."
-.Schopenhauer
Tieni
lo sguardo puntato verso il basso, il mento che a stento sfiora il
petto, il respiro caldo e tranquillo, a tratti irregolare, che si
infrange contro la maglietta.
Le
scarpe si susseguono, cammini nonostante tu abbia solo voglia di
fermarti e sederti su quella panchina di legno bianco che si distingue
in lontananza.
Vorresti
allungare una mano, accarezzarne la consistenza, sentire che almeno lei
c'è, che non se ne andrà mai, ma le tue mani sono
impegnate; stringi tra le braccia il tuo cappotto nero, così
pesante che ti chiedi se qualcosa o qualcuno non vi sia per caso
avvolto dentro.
Fa
caldo, il sole non sfiora ancora la tua faccia. I capelli folti e neri
sono sciolti sulle tue spalle, una ciocca abbandonata dietro
l'orecchio, il ciuffo sbarazzino che ti graffia una guancia. Eppure non
lo sposti, perché le tue mani sono occupate, perché
infondo ti piace sentire quella carezza lontana.
Osservi
distratta un bambino camminare con tranquillità, il suo
orsacchiotto di pezza tra le braccia, un sorriso dolce e tenero tra le
labbra. Sorridi anche tu, di riflesso, perché i sorrisi degli
altri fanno sempre un po' di compagnia.
Volti
lo sguardo verso destra, le labbra torturate fra i denti, i capelli
sempre più scompigliati a infastidirti il viso, le gambe
doloranti, la mente impegnata.
Pensi a tante cose, ma nessun pensiero o nessuna preoccupazione si riflette sul tuo volto.
Guardi
con disinvoltura quel negozio di fiori che sa di casa, di famiglia, di
pace; vorresti entrare, gettare quel cappotto ancora pesante per terra
e comprare un girasole. Poi stringeresti quello al petto, come si fa
con un bambino, aspirando il suo odore fresco e genuino.
Vorresti
sorridere portandotelo a casa, saltellando allegramente, gettando i
vecchi tacchi in un angolo e sedendoti frastornata. Poi forse te ne
dimenticheresti, lasciandolo a consumarsi da solo sopra un tavolo che
non frequenti mai, mentre ti rinchiudi nella tua stanza di artista per
dipingere qualcosa.
Dipingeresti
quel fiore, quel bambino, quell'orsetto e quella panchina. Forse
proveresti anche a autoritrarti con movimenti lenti e circolari della
mano, guardandoti ogni tanto allo specchio per essere sicura di
delineare una corretta figura del tuo volto. Sicuramente finiresti per
arrabbiarti, alla fine, a lavoro svolto, e getteresti tutto per terra,
urlando e fremendo perché avresti voluto fare di più.
Perché sei una perfezionista che adora dipingere la signora
Wilson e i suoi cinque gatti radunati intorno ad un focolare, anche in
estate, nonostante lei ormai sia morta e i gatti siano passati a
miglior vita con lei.
Ti
dondoleresti sul posto, lasciandoti cullare dal tuo respiro, dalla
vernice che cola giù da quel tuo quadro ancora fresco, che
macchia il pavimento e le pareti. Poi sorrideresti e rinizieresti a
disegnare, perché una nuova idea ti ha appena illuminato.
Ma
adesso sei qui, ancora con lo sguardo puntato sulle tue scarpe, le mani
sudate e gli occhi incurvati tristemente verso il basso.
Segui la linea dei tuoi passi, quella linea immaginaria che ti sei imposta di percorrere pur di non cadere.
Attraversi
con disinvoltura la strada, alzi una mano per ringraziare quella
macchina nera e lussuosa che ti ha appena fatto passare; sospiri, tendi
lo sguardo verso sinistra, poi scuoti la testa e continui a camminare.
Hai
appena oltrepassato la vetrina di una pasticceria e l'odore di cornetti
appena sfornati ti invade le narici; stai attenta a captare la risata
di quel bambino felice e orgoglioso che mordicchia un po' di crostata,
che ringrazia la madre, che si lascia accarezzare i capelli nonostante
gli dia fastidio. Sai, lo immagini, che quello è il suo modo di
ringraziarla, perché quelle labbra sottili sono troppo impegnate
a mordicchiare il dolce che ha in mano per pronunciare quelle parole.
Ti
perdi un attimo a immaginare quando anche tu potrai fare lo stesso con
un bambino, per sentirlo tuo, per poterlo accarezzare come non faresti
con nessun altro mai. Ti chiedi, fermandoti davanti ad un bivio, con
chi concepirai quella creatura, che nome gli darai, come sarà il
suo sorriso, che sfumatura avranno i suoi occhi. Ti dondoli sul posto,
muovendo sinuosamente quei fianchi stretti, sentendo il sangue fluire
sui tuoi polpacci; stringi ancora la giacca al petto, chiudi gli occhi,
respiri e poi torni a camminare.
Una
bicicletta rischia di graffiarti un fianco, una macchina suona il
clacson in ripetizione; qualcuno urla, qualcun altro ride.Vorresti
ridere anche tu, scuotere la testa e intimargli di smetterla, vorresti
poterti sedere sull'asfalto vicino a quella mendicante e condividere
con lei l'ultima mentina presente nella tua borsa. Eppure è
troppo presto, sono solo le tre del pomeriggio, non puoi ancora
mostrarti fragile; solitamente aspetti la notte per quello, per
sfilarti quella maschera pesante e di cera, come quelle delle
più maestose e prorompenti feste veneziane.
Sei convinta che nessuno riuscirebbe a imitarla, la tua maschera.
Ti
permetti un solo secondo per riflettere sul senso della vita, su tutte
quelle persone che camminano a braccetto intorno a te falsificando un
sorriso. Ti imponi di simulare anche tu felicità, eppure sai che
ad occhi esterni sembri solo un pagliaccio del quale non potersi
fidare. Nonostante tutto non ti senti estranea, perché ti
incastri perfettamente con il mondo, con quel sole spento e con quegli
occhiali arancioni che un ragazzo tiene in equilibrio sopra il naso
storto.
Vorresti
quasi rubarglieli, stringerli nella tua mano, gettarli a terra e dirgli
quanto siano orrendi; sai bene quanto sia brutto vestirsi di un
qualcosa così maledettamente fuori moda, come anche un sorriso
scortese.
Riavvii
i capelli dietro le orecchie, deglutisci a fondo, poi alzi lo sguardo
per incontrare le lancette del campanile; sei ancora in perfetto orario
per sentire l'ultima messa della giornata, ma non sei in vena. Non
adesso, non ora, non ancora.
La
sorpassi senza nemmeno fare un piccolo segno della croce, quel gesto
abituale che in un momento diverso avresti accompagnato con un inchino.
Ti
stringi solamente nelle spalle e cammini, come stai facendo, come hai
imparato a fare nonostante le cadute, nonostante le ferite.
Ti
ritrovi a guardare nuovamente le tue stesse gambe, perché
osservare le tue è meno deprimente dello studiare quelle degli
altri quando tutto quello che vorresti fare è solamente sederti
a gambe incrociate, accenderti una sigaretta e sputare fuori il tuo
rammarico e il fumo grigiastro.
Ti chiedi che colore ha la stanchezza, la tua emotività.
Saluti
con un gesto della mano il tuo giovane vicino di casa, quello bello,
quello che più volte ti ha guardato le gambe nude in estate;
vorresti ammiccare nella sua direzione, ma ti accorgi di non
desiderarlo realmente quando lui ti guarda con il suo sguardo triste e
rammaricato.
Vorresti stringergli la mano, dirgli che va tutto bene, che non si deve preoccupare, ma sai che sarebbe una bugia.
Sono solo le tre del pomeriggio e sei già stanca di mentire.
Sali
le scale a due la volta, sfilandoti i tacchi e tenendoli tra le mani
per sentire meno male, per sentire il freddo delle rampe contro i
piedi. Sono nudi i tuoi piedi, eccetto per quelle calze sottili e
velate, quelle che ti piacciono tanto, quelle che ti fanno sentire
provocante.
Arrivi
al tuo tuo appartamento, quella porta laccata di nero, quella maniglia
dorata ed elegante; ci poggi sopra la mano e per un momento ti senti
completa, come se percepissi un qualcosa che gli altri non vedono. Ti
chiedi, ancora una volta, che sapore ha la felicità.
Ti
bei del rumore della chiave che ruota dentro la serratura, lo
sfarfallio del tuo stomaco che si emoziona al solo pensiero di essere
tornata a casa; ti è mancata quella casa, ti è mancato
quell'odore.
Quel
profumo di pasta e pantofole, di pizza e vecchi vestiti, di un computer
ancora acceso sulla scrivania, una pagina di word ancora da completare.
Una parola scritta per metà mentre il display lampeggia
all'infinito attirando la tua completa attenzione.
E
capisci di essere sola, veramente e completamente, nel momento esatto
in cui ti chiudi la porta alle spalle e questa provoca un rumore
assordante dietro di te. Non ti volti, non ti spaventi; in questo
momento nulla fa realmente paura. Hai visto concretizzarsi il tuo
terrore più grande, quello della solitudine, perché mai
avresti immaginato che sarebbe stato così brutto tornare a casa
e non trovare nessuno a salutarti, stringerti a se, baciarti la testa,
coccolarti al suo petto, chiederti come è stata la tua giornata.
E avresti voluto farci l'amore, sopra quel pavimento, quel computer
ancora acceso che aspettava di essere spento.
Ti
prendi un solo istante per te stessa, poi getti quella giacca nera che
hai tenuto stretta al tuo corpo per tutta la giornata a terra, in un
angolo, quell'angolo dove sai che resterà fino al giorno
seguente. E quello seguente ancora.
Ti
passi la mano tra i capelli e ti guardi intorno, osservando quel vaso
bianco, quei fiori finti, quel mobile ancora aperto, la cornetta di
quel telefono che pende da sopra il muro.
E poi crolli, come quel muro, come quel cappotto, come quel girasole che non hai avuto il coraggio di comprare.
Cadi
a terra e ti prendi la testa fra le mani, i sussulti che ti percorrono
tutta, i singhiozzi che rimbalzano sulla tua schiena, spaventata.
Ti chiedi dove sia la felicità, che sapore abbia il domani.
Ti domandi dove sia lui. Dove sia io.
Ti
sfili lentamente quel velo di lutto che hai portato sul volto per tutta
la giornata, quel fitto strato di sicurezza che ti sei trascinata
dietro tutta la mattinata; era quello che pesava, non la tua giacca.
Ti
senti debole, ti accorgi di esserlo ancora, di esserlo ora. Non
realizzi ancora la mia morte, non credi ancora che io sia veramente
scomparso. Mi cerchi in quella casa che fu mia, che fu anche nostra,
aspettando che io esca dal bagno arrabbiato e con il rotolo della carta
igienica fra le mani chiedendoti perché mai non hai comprato
quella morbida che piace a me. E mi vorresti rispondere che sono
viziato, che quella costa troppo, che abbiamo le bollette da pagare e
che devo spegnere quel maledetto computer, che devo finire di scrivere
quel libro perché lo devo consegnare alla casa editrice.
Mi
vorresti rimbeccare dicendomi che sono uno scrittore emergente, un
eterno bambino, uno che non diventerà nessuno nella vita. Ti
accorgi di non pensarle veramente quelle cose, di non averle mai
pensate, ma di averle dette perché sei troppo orgogliosa per
dirmi che mi ami. Mi hai sempre amato e ti chiedi se io lo abbia mai
saputo, se lo abbia mai capito.
Ti
sfiori i piedi doloranti con lentezza, ancora piangendo, ancora con il
volto piegato verso il basso, quel vestito nero che non hai la forza di
sfilarti.
Ti
ci addormenterai quella sera, con quel vestito, tra quelle lacrime e su
quel pavimento. Ti sveglierai l'indomani mattina con la guancia che sa
di quelle mattonelle, che sono ancora fredde e bagnate, chiamando a
gran voce il mio nome per dirmi che è pronto il caffè.
Il caffè non è realmente pronto e io non verrò mai in cucina a ricordartelo.
Ti
dondoli ancora sul posto, tremante, urlando, chiedendoti dove tu abbia
sbagliato. Ti domandi dove sia, perché sia andato, perché
sia morto.
Ti
vorresti accendere una sigaretta solo per il gusto di prendere fuoco
insieme a quella casa, quei ricordi, quel dolore e quella certezza.
Quel profumo che senti sulla pelle, indistruttibile, perché il
mio.
E sai per certo che mi amerai, che non smetterai mai di farlo.
Ti
mordi forte l'interno guancia per sentire il sapore ferreo del sangue,
per sentire un po' meno male; qualcuno disse che il dolore fisico
distrae da quello morale, ma sbagliava, perché quello
psicologico distrugge e ferisce lì dove il sangue non fluisce.
Hai
ancora gli occhi chiusi quando ti vedo versare le lacrime più
chiare che tu abbia mai posseduto, quelle trasparenti dell'amore,
quelle che fanno male perché nessuno le asciugherà.
Hai
ancora le labbra screpolate e secche quando pieghi le braccia verso il
busto e le stringi forte vicino al cuore, quasi lo vorresti strappare
via, quasi lo vorresti gettare lontano. Eppure ti limiti a tenerle
lì, vicino al cuore, sopra il vestito sgualcito, a contatto con
la pelle gelida del tuo corpo.
So
per certo che stai aspettando un mio abbraccio, quel bacio che non
arriverà mai, perché ormai sei diventata il fantasma del
tuo essere, lo spettro di un qualcosa che non saresti voluta divenire.
Eri una ragazza forte un tempo, sarai una ragazza ancora più
forte fra qualche giorno seppur con qualche cicatrice sul corpo, sul
volto, fra le mani. Ma resterai bellissima, lo sai anche tu. Rimarrai
sempre incantevole nonostante il trucco sciolto sul volto, le labbra
rotte, gli occhi incurvati pericolosamente verso il basso e la fronte
alta.
Nessuno ti cambierà, perché cambiarti significherebbe modificare anche quello che c'è stato fra di noi.
E
io ti amerò sempre, lo sai, lo senti mentre sorridi. Ti
guarderò da lontano, con le braccia incrociate e un'espressione
di disappunto sul volto, mentre tu vivrai sempre la tua perfetta vita
al mio fianco, il tuo sorriso che sa di risate fresche e genuine, le
tue labbra di rose che impareranno di nuovo a incurvarsi verso l'alto.
La tua fragranza diventerà la mia, perché
l'abbraccerò ogni notte possessivamente fino a quando la mia
pelle non l'assorbirà del tutto. E sarò con te, ogni
istante. Ti amerò come il ricordo di quello che c'è
stato, di quel sole che non tramonta mai perché destinato sempre
a risorgere, come qualcosa di proibito. Perché anche tu, lo so,
lo sai, farai lo stesso.