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Autore: Fink    10/07/2013    3 recensioni
Post morte di Jen: sensazioni e pensieri di un agente federale.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Leroy Jethro Gibbs
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi e i dialoghi tra Gibbs e Svetlana e Gibbs e Franks sono tratti pari pari (o quasi) dalla puntata, perciò sono di proprietà di D. P. Bellisario e D. McGill che ne detengono tutti i diritti.

Piccola puntualizzazione: ci sono alcune variazioni rispetto alla scena originale, soprattutto all'inizio (un'esempio per tutti: la porta dello studio in realtà era aperta). Però mi sembrava più bello così e ho immaginato cosa avrebbe potuto pensare se avesse trovato la casa nelle condizioni che io mi sono immaginata. Beh, non mi resta che augurarvi buona lettura, sperando vi piaccia almeno un pochino.







Porta di legno



È meglio aver amato e perso
che non aver mai amato.
(Alfred Tennyson)





Scendi dall’auto e con passo pesante ti avvicini alla porta d’ingresso. Le tue mani frugano le tasche dei pantaloni alla ricerca delle chiavi, senti il metallo freddo a contatto con le tue dita.
Freddo come il tavolo d’acciaio su cui giace da sola.
Freddo come il suo corpo, disteso al buio nella sala autopsie.
Sei rimasto a lungo a fissare quel corpo inerme, mentre gli occhi indugiavano su ogni linea del volto, cercando di imprimerlo nella tua mente. La pelle candida, il viso rilassato nell’ultimo sonno.
Ti soffermi qualche istante davanti alla porta in legno massiccio; quella stessa porta che lei amava così tanto.
Quante volte le sei passato davanti, sostando un minuto di troppo, nella muta speranza di vederla aprirsi, di vedere un luce brillare oltre le tende gialle della sala, solo per sapere che era tornata.
Istintivamente alzi la testa verso la sua camera da letto e la tua mente fa un balzo indietro. Ritorna a quella sera di tre anni prima, quando l’avevi osservata affacciarsi alla finestra, con solo una leggera sottoveste rosa, orlata di pizzo nero.
Che gesto stupido il tuo, salutarla con un “ciao ciao” della mano, davvero infantile. Ma lei non sembrava averlo notato, anzi, ti aveva sorriso e dopo uno rapido scambio di battute era scesa, vestita di tutto punto, pronta a seguirti ovunque, ancora una volta.
Anni di lavoro sul campo, come agente, non si possono cancellare in poche ore, tu lo sapevi e lo sapeva anche lei, stare dietro ad una scrivania non le si confaceva.
Voleva essere aggiornata su tutto, non solo perché era il direttore, il suo era un bisogno diverso: voleva essere parte della squadra e non solo al di sopra di essa.
Sentiva il richiamo dell’azione, un bisogno atavico di sfidare la morte, di mettersi in gioco. Il bisogno di dimostrare che era cresciuta, maturata, che sapeva cavarsela da sola.
Non aveva bisogno del tuo aiuto.
Dannatamente orgogliosa.
A che cosa aveva portato?
Ad un corpo freddo e ad un ulteriore peso sulla tua coscienza e nel tuo cuore.
Sospiri mentre fai scorrere, ad una ad una, le chiavi tra le dita, cercando quella giusta.
Non vuoi forzare la serratura, non vuoi fare nulla che rischi di danneggiare, anche solo minimamente, quella porta, a cui lei, non smetteva mai di fartelo notare, era molto affezionata.
Per questo hai preso le chiavi dalla sua borsa, rivolgendole una breve occhiata, cercando il suo assenso.
Le infili nella toppa facendo scattare la serratura.
Muovi i primi passi nel corridoio illuminato solo dal chiarore perlaceo della luna, prima di cercare a tastoni l’interruttore della luce.
Dai una rapida occhiata attorno, giusto per accertarti che non ci sia nessuno, e passi oltre. Il corridoio non ti interessa anche se non puoi fare a meno di notare i fiori posti al di sopra del tavolino alla tua sinistra.
Un mazzo di orchidee rosa pallido fa capolino da un vaso di vetro trasparente, l’acqua è stata cambiata da poco e non c’è traccia di polvere sulle superfici di legno.
A quanto pare Noemi non ha smesso di venire a pulire la casa, le vecchie abitudini sono difficili da sradicare.
Ti avvicini un poco annusando la delicata fragranza dei petali e poi rivolgi le tue attenzioni verso la porta alla fine del corridoio e ti accorgi che è chiusa.
Da quando la conosci, da quando frequenti quella casa, mai una volta hai visto quella porta chiusa, ma, stranamente la cosa non ti insospettisce. Noemi deve averla chiusa, affinchè nessuno invadesse la privacy della sua señora.
Quello era il suo studio, forse la parte della casa che frequentava di più, la stanza che custodiva più di ogni altra le sue paure, i suoi segreti e le sue speranze.
In quella stanza aveva trovato il corpo esanime del padre.
In quella sala aveva fronteggiato “la Rana”.
Sul pavimento di quella stanza, l’ultima sera prima della vostra missione a Parigi, vi eravate amati mentre il fuoco crepitava nel camino.
Ma non c’era più nulla dopo Parigi, giusto?
Te lo aveva fatto capire, in modo nemmeno troppo velato, il primo giorno, respingendo il tuo ingenuo tentativo di riprendere le cose da dove le avevate lasciate.
Ingenuo. E sciocco. Ecco cosa sei.
Avevi sperato che il suo ritorno cambiasse le cose, ma dovevi sapere che non sarebbe successo nulla, così sei andato avanti, nascondendole, ancora una volta, di avere avuto una famiglia, soffocando i tuoi sentimenti per lei. Fuggendo da lei.
E quando hai visto la scintilla della gelosia nei suoi occhi, mentre frequentavi Hollis Mann, ne hai gioito, era il tuo modo di vendicarti di lei.
Ti fermi sull’uscio, una mano stretta attorno alla maniglia.
Entrare in quello studio senza di lei, non ti sembra corretto, ma sai che devi farlo se vuoi capire come è iniziata e se vuoi porre fine a questa storia.
Non riesci a muovere che pochi passi al suo interno perché un intenso profumo di lavanda ti riempie le narici.
Socchiudi gli occhi e respiri a fondo. Il suo profumo ti colma e ti stordisce, riportandoti alla mente la sua pelle, morbida e accaldata sotto il tocco delle tue labbra.
Quando finalmente torni padrone di te, ti avvicini alla scrivania coperta da fascicoli e fogli sparsi. Un piatto con un toast ammuffito è stato relegato in un angolo del tavolo, ad indicare che in quella stanza nessuno ha messo piede da qualche giorno.
Estrai dalla tasca dei pantaloni il cellulare di Drantjev, sulla superficie c’è del sangue incrostato che non ti preoccupi di pulire e lo appoggi sopra il tavolo, accanto ad alcuni fogli che leggi con scarso interesse. Si tratta di fascicoli di vecchi casi, rendiconti finanziari e l’invito ad una cena con il Segretario della Marina.
Quando sposti anche l’ultimo foglio lo vedi.
L’incipit di una lettera.
Caro Jethro”.
Due sole parole, scritte con una calligrafia minuta e curata.
Ti bastano qui pochi tratti d’inchiostro perché il tuo mondo di certezze crolli, la verità ti colpisce come una pugnalata in pieno petto.
Per la seconda volta aveva affidato i suoi sentimenti ad un pezzo di carta.
Troppo orgogliosa per dirti quello che provava.
Per la seconda volta ti ritrovi da solo, in una stanza in penombra, con una lettera in mano e questa volta non puoi fare nulla per farle cambiare idea. Non la puoi più inseguire fino all’aeroporto per farla ragionare.
Ancora una volta, troppo orgoglioso per darle una seconda possibilità.
Il cellulare accanto a te suona e la voce del vicedirettore Vance risuona infastidita all’altro capo, mentre ti chiede dove sei andato. Fortunatamente il cellulare vibra di nuovo indicando una chiamata in entrata, saluti poco cortesemente Leon mettendolo in attesa, e rispondi.
Svetlana sembra sorpresa, di certo si aspettava di trovare Dranjiev all’altro capo e non uno sconosciuto.
“Chi parla?”
“Questo non ti deve interessare. Quello che importa è che io… ho quello che vuoi.” Le rispondi senza darle il tempo di continuare.
“Dov’è Viggo?”
“È morto. Ho bisogno di incontrarti.”
“Chi parla?” chiede ancora una volta, il tono sorpreso ma per nulla preoccupato per questa intromissione da parte di uno sconosciuto.
“Il signor Oshimaida.”
La senti trattenere il respiro, poi riaggancia.
No ci vorrà molto prima che venga da te, perciò ti alzi, attraversi il corridoio e socchiudi la porta d’ingresso, non vuoi che venga danneggiata.
***
Il bourbon nell’ampolla riflette la luce della lampada, ne versi due dita in uno dei bicchieri bassi di vetro opacizzato. Avverti una presenza alle tue spalle, non ci ha messo molto ad arrivare, ma non ti volti, limitandoti a posare l’ampolla sul ripiano davanti a te.
“Ciao Natasha” la saluti senza voltarti “O preferisci che ti chiami…Svetlana” scandisci il suo nome quasi con scherno.
Giri appena la testa per guardarla: il revolver stretto nella destra è puntato verso di te. Tu nella destra tieni ancora in mano il bicchiere con il liquido ambrato.
“Niente affari.” Affermi con tranquillità “è una cosa personale.”
Prende un respiro profondo, gli occhi colmi di rabbia.
“Sei stato tu ad uccidere Alatoly?”
Tieni gli occhi fissi su di lei mentre le immagini del passato riaffiorano nella tua mente. Ti inumidisci le labbra prima di rispondere, mostrandole sempre il fianco.
“Che cos’era per te?”
“Tutto.” La sua voce trema, gli occhi un poco arrossati.
Per un attimo provi compassione. Sai bene che cosa significa perdere la persona che ami. È un vuoto, come un buco allo stomaco, ma molto più grande e doloroso e il tempo, a dispetto di ciò che si dice non cura questo tipo di ferite. E il vuoto non potrà mai essere colmato del tutto, soprattutto se si accumulano. Con il tempo finisce che ti inghiotte e una parte di te scompare, come risucchiata nel triangolo delle bermuda.
“Perché ora?”
“Perché solo ora sono riuscita a trovarti.”
“La notte in cui è morto una donna era venuta per ucciderti… che cosa è successo?”
“Non ha potuto farlo.” Un ghigno beffardo compare sulle sue labbra. La pistola sempre puntata verso di te.
Ti giri lentamente e guardi verso la scrivania, Svetlana segue il movimento dei tuoi occhi, la pistola è lì, appoggiata sopra alcuni fogli accanto alla lettera di Jen.
Ti basterebbe allungare una mano, prenderla e premere il grilletto, ma rimani immobile limitandoti ad osservare la donna.
“E tu puoi?” le chiedi con aria di sfida, lei ricambia il tuo sguardo e carica il revolver.
Ti rendi conto solo in quel momento che forse era esattamente questo ciò che volevi, attirarla in quella casa non per vendicare Jen, ma perché lei ponesse fine alla tua vita. Abbracci l’idea di poterti finalmente ricongiungere con lei, dirle tutto ciò che per anni le hai tenuto nascosto.
Chiederle perdono per averle inferto l’ennesimo dolore quando, solo per farle un torto, avevi iniziato ad uscire con il colonnello Mann.
Confessarle quanto era bella la sera del ballo della marina, fasciata nell’abito nero e quanto avresti voluto che avesse chiesto a te di accompagnarla. Avevi invidiato e quasi odiato Ducky in quell’occasione.
Dirle quanto ti irritava quando ti teneva testa e quanto avresti voluto azzittirla con un bacio profondo.
Avresti potuto riguardare in quegli occhi verdi, annegando in quell’amore che tu non hai mai saputo (o forse voluto) vedere.
Ti lasci cullare da questi pensieri e tutto sommato, morire in quel momento, senza vendicare Jen, non ti sembra poi così brutta come idea.
Uno sparo fende l’aria e tu fissi Svetlana, certo che il colpo sia partito dal suo revolver, nel secondo che segue ti prepari a sentire il dolore lancinante prima di essere inghiottito da un buio senza fine.
Ma non accade nulla.
Sei sicuro che non possa aver sbagliato il colpo, siete troppo vicini, anche un principiante ti colpirebbe da quella distanza.
È un attimo, i vostri sguardi si incontrano, i suoi occhi si fanno vitrei e si accascia a terra, senza un gemito.
Guardi oltre il punto in cui si trovava.
Mike Franks è in piedi accanto alla porta d’ingresso, la pistola, fumante, stretta nel pugno.
“Stavi per rimanerci secco, vero Pivello?” ti chiede retorico entrando nello studio.
“E così Jenny non è riuscito a farlo. Quella donna era un’artista in queste cose.”
“Non a quei tempi.” Rispondi sfilando la pistola a Svetlana e controllandole il polso. Nessun battito.
“Cosa è cambiato?”
“Io.” Rispondi secco.
“Lei ha fatto le sue scelte.”
“Le avevo insegnato ad accettarle, niente era naturale per lei.” Infili il revolver nella cintura dei pantaloni e ti volti verso Franks.
Ti guarda con aria malinconica, il tono di voce si fa basso e più calmo “Jenny teneva a te, aveva molti rimpianti.”
Non era la sola e se solo Mike non fosse intervenuto, ora ne avresti uno in meno. Sei tentato di dirglielo, di chiedergli perché anche stavolta è intervenuto, perché non ha lasciato che le cose seguissero il loro corso. Avresti rivisto Jen e forse avresti anche riabbracciato “le tue ragazze”, come amavi definire la tua famiglia.
“Li abbiamo tutti.” ti limiti a rispondere con noncuranza.
“Sarai nei guai fino al collo quando troveranno il corpo.”
Un’idea ti balena nella mente.
“Non troveranno mai il corpo.” Guardi il tuo ex capo con espressione complice, lui comprende subito e in un attimo vi ritrovate in cucina.
Senza guardarti troppo attorno, temendo che anche quel luogo ti faccia riaffiorare ricordi dolorosi, ti avvicini al lavandino e apri gli sportellini.
La valvola con il tubo del gas si trova proprio li, apri la valvola e stacchi il tubo; il gas fuoriesce con un getto violento ed inizia a riempire la stanza. Prendi il tostapane che si trova su una mensola lì accanto e lo accendi, cerchi del pane o qualsiasi cosa da poterci infilare dentro. Alla fine opti per alcune tovagliette di carta e le porgi a Franks che le infila nel tostapane, poi uscite di tutta fretta.
Non ci vorrà molto prima che la carta nel tostapane prenda fuoco e con l’aria satura di gas, la conseguenza sarà inevitabile.
Per l’ultima volta alzi gli occhi, incrociando le finestre della sua camera da letto, poi scendi soffermandoti sulla porta d’ingresso, colto dai sensi di colpa.
Non le hai lasciato nemmeno quella.


   
 
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