Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: Glory Of Selene    12/07/2013    3 recensioni
Sebastian Michaelis.
Il maggiordomo perfetto, che segue il proprio padrone come un'ombra, che esegue ogni suo ordine senza battere ciglio e mai fallire, che è diventato un'estensione della sua volontà tanto da dare l'impressione che stia con lui da sempre, fin dalla nascita del giovane conte.
Ma qual è la vera storia del nero maggiordomo? Qual è il suo passato? Da quale istante ha cominciato ad esistere?
Quali vicende l'hanno portato, dall'Egitto di tremila anni fa, fino all'Inghilterra vittoriana, davanti alla gabbia di un bambino destinato alla morte?
*Dal capitolo 1*
"«Hai visto, Sebastian?» sussurrava imperterrito l’essere, il più tremendo che avesse mai incontrato, eppure l’unico, se ne rese conto in quel momento, al quale avrebbe accettato di sacrificare tutta la vita. «Questo è il potere, mio caro. E sarà ciò che avrai, se non rinnegherai la tua natura.»
«Qual è il prezzo che devo pagare?» domandò.
«Morirai.»
«Sono già morto.»
«La tua anima verrà inghiottita negli abissi più neri dell’inferno, e tra le sue fiamme brucerà, finché non ne sarà rimasto nulla.»
"
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sebastian Michaelis
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Uno
Qualche vaga traccia di bontà

 
La stanza era in penombra. Drappi di pesanti stoffe preziose e lussuosi tendaggi, giunti fin lì da chissà quali angoli remoti della terra, avevano il compito di nascondere maliziosamente i mille peccati che venivano giornalmente consumati all’interno di quelle mura profumate d’incenso.
Solo due ombre  a giocare tra i cuscini e le candele, due sagome indistinte proiettate dalla tenue luce rimasta come scuri disegni di puro inchiostro.
L’uomo si lasciò ricadere sul materasso ansimando sommessamente, ma con soddisfazione.
«E’ sempre un piacere venire a trovarti, Belle.» mormorò. La sua voce era bassa e sicura, velata d’ironia, senza la minima traccia d’incertezza. Il filo di lucido acciaio di una spada nera come la notte.
La donna ebbe una mezza risata, di chi capisce e apprezza il sarcasmo altrui, e s’accomodò meglio tra i profumati foulard color oro e rosso sangue.
«Molto meglio della tela di un ragno, vero?»
I suoi occhi, di una sfumatura di rosso talmente scura da sembrare nera, sfavillarono di divertimento e provocazione. Tutto in lei sembrava creato per il solo fine di sedurre.
L’uomo distese il volto in un’espressione impassibile mentre allungava un braccio a prendere gli occhiali da dove li aveva lasciati, affondati tra un cuscino blu notte e una pesante tenda dalle striature ocra. Li inforcò con calma, e sempre lentamente alzò lo sguardo ambrato – giallo, quasi – su di lei.
«Non provarci neanche, a giocare con me.» replicò infine, serissimo, compìto persino dopo una notte come quella appena passata.
Questa volta la risata di Belle fu lunga e piena.
«Ma se l’ho fatto per tutta la serata!»
Ammiccò in modo pericoloso, mentre una spirale di scuri capelli rosso mogano ricadeva a sfiorarle i seni, nudi e bianchissimi.
La lussuria, la lussuria incarnata, ecco chi era quella donna.
Lui la osservò, beandosi suo malgrado ancora una volta della vista del suo corpo nudo a pochi centimetri da sé, mentre la sua mente, incline per natura alla dolce abitudine del cadere in tentazione, cominciava già a desiderare di ricominciare da dove si erano interrotti. Eppure sapeva benissimo che non avrebbe dovuto perdere il controllo di nuovo; non era sua abitudine, ed era anche qualcosa che lo seccava parecchio.
«Libera di pensare ciò che più credi.» fu infine la sua risposta, seria come lo era stata la prima, distogliendo finalmente lo sguardo.
«Lo sai, Claude? Fuori dal letto sei mortalmente noioso.» commentò Belle, arricciando il naso, senza però rinunciare al proprio sorrisetto.
Il demone preferì ignorare la frecciata per cambiare del tutto argomento; altrimenti non sarebbe più riuscito a levarsi di dosso l’imperante brama di cedere un’altra volta alla tremenda sensualità di quella donna. «Allora…» sospirò, come un banchiere in procinto di fare la propria proposta. «Ti trovi sotto contratto, al momento?»
Di nuovo gli occhi di lei sfavillarono. «Geloso?» domandò, in un soffio languido. Poi, rise. «A dire il vero è un po’ di tempo che non mi capita di stipularne uno. Credo proprio che dovrò rimediare a questa mancanza… Gli esseri umani mi divertono infinitamente.»
«Ah, già». Claude  schioccò la lingua. «Non ho mai capito tutto questo tuo interesse nei loro confronti. Sono soltanto cibo.»
«Ti avrei fatto più sottile.» fu la replica di lei. «Personalmente, io godo del cibo soltanto quando riesco a comprenderne i tormenti e le contraddizioni interiori. E gli esseri umani sono campioni in questo. Quanto, quanto delizioso e bruciante desiderio di ascoltare la chiamata della tentazione, di congiungersi con la tentazione, di vivere nella tentazione c’è nella loro anima, un desiderio talmente forte da ridurla a brandelli, maciullarla nella sua prepotenza, non vogliono altro gli uomini, che peccare. Eppure quant’è disperato il loro bisogno di fuggire da quella stessa voglia malata! Quant’è grande il disgusto che provano nel vedersi nuotare nella crudeltà e nella perversione insite nella loro stessa natura!» I suoi occhi scintillavano di appassionata malvagità. «Gli esseri umani sono tutti neri, neri ti dico, neri come il demonio stesso, sporcati solo a tratti da qualche vaga traccia di bontà.»
 
 
Egitto, anno 3000 a. C. (circa)
 
4887 anni prima di Ciel Phantomhive.
 
La notte era sempre nera e assoluta nel bel mezzo del deserto. La luna, unica amorevole protettrice delle ombre notturne, sorrideva piena e argentata a scacciare tutti gli spiriti maligni che avrebbero potuto minacciare le fragili porte delle case del villaggio costruito, come tutti, a ridosso delle placide – eppure insidiose –, miracolose acque del Nilo.
Un solo lume osava sfidare l’oscurità, la timida candela di una casupola in cui una giovane madre cullava con dolcezza il figlio appena nato, avvolto in candide fasce di lino.
«Signora, non volete cercare di dormire, almeno un po’?»
La donna alzò lo sguardo dal visino del neonato per incontrare quello gentile della schiava. I due regni erano appena stati unificati e già si pensava all’espansione, già cominciavano a circolare schiavi provenienti dai paesi confinanti. Era suo marito che aveva insistito ad averne una, che le tenesse compagnia, aveva detto, mentre lui era occupato a prestare il servizio al tempio.
Le sorrise. «No, ti ringrazio. Voglio stare con lui finché non chiude gli occhi.»
La schiava annuì: capiva. Doveva aver avuto anche lei un figlio, una volta. Non gliel’aveva mai chiesto, e non avrebbe neanche voluto saperlo; era già stata privata della libertà, che almeno il passato rimanesse suo, e suo soltanto.
«Lo sapete?» mormorò quella, entrando definitivamente nella stanza. «Vostro figlio è un bambino speciale. Ha la protezione di Iside». Indicava la luna splendere fuori dalla finestra, materna e rassicurante.
La madre annuì, gli occhi scuri colmi d’affetto. «E’ sicuramente un bimbo baciato dagli dei. Vedi la sua pelle, com’è chiara? Non ho mai visto una carnagione così.»
«Come avete deciso di chiamarlo?»
«Abasi.»
Fu una parola carica di sentimento, orgoglio, amore, felicità.
Il sorriso di lei si riflesse anche sul volto della schiava.
«Il piccolo Abasi è nato per affascinare e sorprendere. Fidatevi di me.»
 
Ventidue anni dopo
 
La potenza, la grandezza, l’intelligenza e – non per ultima – la bellezza del sacerdote del tempio di Bastet aveva fatto il giro del regno, tanto da giungere persino alle orecchie del Faraone. Voleva a tutti costi avere per sé quell’uomo straordinario, toccato dalla benevolenza degli dei, dal fascino tale da ammaliare chiunque osasse intavolare un discorso con lui.
Abasi di certo non aveva rifiutato; sarebbe stato da sciocchi farlo. Era giunto a Menfi con contenuto compiacimento, mentre tutti gli altri si erano aspettati stupore e gioia – d’altra parte, trovava molto divertente contraddire le aspettative altrui –, un monile d’oro tramandatagli del padre, una statuetta della dea alla quale aveva donato la propria vita. Non un bagaglio, con sé.
Ad essere sinceri, l’idea di servire quello smidollato del Faraone lo seccava terribilmente. Nessuno, a parte lui, si sarebbe permesso anche solo di pensare al proprio sovrano in maniera diversa da un timore religioso, reverenziale, ma Abasi era abbastanza acuto da vedere dietro una corona e un palazzo d’oro, e ciò che si era presentato davanti ai suoi occhi era soltanto un ometto vigliacco e sudaticcio – non certo un dio.
Si era inginocchiato e aveva giurato di essere a sua disposizione, sorridendo tranquillo e bonario, perché qualsiasi altro comportamento l’avrebbe portato, se non alla morte, a una rovina che non era per nulla disposto ad accogliere.
L’unica cosa che a suo parere era migliorata rispetto alla sua precedente condizione era il tempio da lui custodito, dieci volte più grande e più sontuoso. Finalmente qualcosa che fosse degno della regalità e della raffinatezza di Bastet.
«S… signore…»
Abasi si fermò, colto alla sprovvista dalla vocina acuta che aveva interrotto la sua quotidiana pratica del ricapitolare le azioni importanti, e fissò uno sguardo candidamente stupito sul volto sporco del bambino più magro che avesse mai visto.
Aveva i capelli castani che gli ricadevano sul visino, tutti arruffati e sporchi di fango e polvere, sotto i quali brillavano un paio di grandi occhi scuri resi lucidi dalle lacrime.
«Signore… vi prego… avreste qualche cosa da mangiare…?» supplicò, tirando forte su col naso.
L’espressione di Abasi tornò come sempre imperturbabile. Un mendicante. Soltanto un mendicante; nulla che potesse interessarlo, lui, che ricercava il potere e il denaro prima di ogni altra cosa.
«V… vi prego…» ripeté il piccolo. Le gambine ossute tremavano, per paura di una reazione violenta. Doveva già essere stato picchiato molte volte per l’ardire di aver chiesto del cibo alla persona sbagliata.
La piega della bocca di Abasi si fece seccata, mentre alzava già un braccio.
Il bimbo spalancò gli occhi e cadde in ginocchio, raggomitolandosi su se stesso in attesa dello schiaffo.
La mano del sacerdote ricadde allora, a prendere quella piccola e sudicia del bambinetto e aiutarlo a rialzarsi.
«Vieni.» disse, soltanto. L’espressione seccata del suo volto s’accentuò ancor più.
Il piccolo riaprì allora gli occhioni, pieni di meraviglia e di speranza, e obbedì al perentorio ordine del misterioso sconosciuto che, invece di picchiarlo, aveva deciso di portarlo con sé.
«Come ti chiami?» gli venne domandato. La voce dell’uomo era piacevole e vellutata, anche se incrinata e irrimediabilmente rotta da un’evidente nota di gelo.
«Kaphiri, signore.» rispose lui che, come tutti i bambini, aveva fatto in fretta ad abbandonare la paura per cedere ad una curiosità assai più forte e invitante.
«Va bene, Kaphiri». Il sacerdote sospirò, ed entrò insieme a lui nella casa costruita a ridosso delle mura di un tempio. Lì lasciò la sua mano, per indicargli il mobile di legno che fungeva da credenza. «Puoi prendere tutto quello che vuoi, a patto che non ti faccia mai più rivedere. Chiaro?»
Sul volto del bambino si dipinse un larghissimo sorriso, di gioia e incredulità.
«Davvero?» esclamò.
Lo sguardo di Abasi si fece duro.
«Sbrigati.»
Quello non se lo fece ripetere due volte, e con un’espressione di pura felicità effettuò un vero e proprio saccheggio, prima di correre via con le braccia zeppe di cibo.
Abasi scosse la testa con aria infastidita, abbassando il capo e massaggiandosi piano le tempie con le punte delle dita.
Meeow.
Il sacerdote alzò lo sguardo, per vedere un meraviglioso gatto dal pelo grigio a macchie nere entrare in casa sua, con il passo sinuoso e elegante tipico della sua razza.
Per la prima volta, Abasi sorrise, di un sorriso lieve e appena accennato. La dea Bastet amava manifestarglisi piuttosto spesso.
S’accovacciò e tese un braccio al terreno, in un rispettoso invito e segno di benevolenza.
«Mi sono rammollito troppo. Dite questo, mia Signora?» mormorò al gatto che si era avvicinato e che lo osservava con gli occhi verde smeraldo. «Forse avete ragione. Non so resistere ai bambini.» confessò Abasi.
È quando si fanno grandi che diventano assolutamente insopportabili…, fu il suo pensiero, ma si astenette dal dirlo ad alta voce.
«Ma non dovete preoccuparvi per questo. Non intaccherà la mia ascesa.» continuò. «Presto, grazie al denaro di quel farabutto di Sekani, la mia influenza e il mio nome diventeranno grandi quanto quelli del Faraone stesso. E lo supererò. E sarò io a regnare sul Nilo, grande e potente Bastet.»
Il suo sorriso s’allargò; e quasi, gli parve che il gatto sogghignasse con lui.
 
***
 
Il consueto manto nero della notte aveva avvolto ogni cosa nel suo silenzio ovattato, come ogni dodici ore puntualmente accadeva. Poche anime osavano sfidare i fantasmi delle ore notturne; umane e non.
Poco lontano dalla città, un pugno di uomini il cui obbiettivo era impossessarsi del regno si davano appuntamento per discutere sugli ultimi dettagli della loro ambiziosa missione.
Accucciati come avvoltoi sui tetti delle ultime due casupole della periferia di Menfi, un paio di neri dei della morte attendevano pazienti di consumare il loro compito.
«Che noia.» mormorò uno.
L’altro non rispose e continuò a rimirarsi placidamente le unghie, nere, lunghe come artigli.
Quello sbuffò e cercò invano una posizione un po’ più comoda, scostandosi intanto alcune ciocche dei capelli castani che erano scese a solleticargli una guancia. Chissà perché proprio lui doveva fare coppia con un individuo così strano… Se l’era chiesto la prima volta che gli era stato affidato un compagno di lavoro, e se lo chiedeva anche in quel momento mentre osservava la lunga chioma argentea del suddetto.
Assottigliò lo sguardo e si tirò a sedere più composto per osservare meglio. Gli era sembrato di vedere…
«…Una treccina?»
Il compagno parve riscuotersi allora dalle proprie unghie.
«Uh?»
«Perché hai… una treccina tra i capelli?»
Il dio della morte più strambo in circolazione gli rivolse un sorriso allegro.
«Carina, vero?»
L’altro alzò gli occhi al cielo.
«Ah, sì, certo. Ti mancano solo le ciglia finte e il rossetto.»
Undertaker ridacchiò.
«Potrei prenderli in considerazione, anche se… non so quanto il rossetto si adatti al mio stile… come dire…»
«Funereo?»
«Funereo! Proprio così, già.»
Per l’ultima volta rise tra sé, poi il religioso silenzio notturno tornò a rivendicare la supremazia che gli spettava.
Lo shinigami dai capelli castani osservava il gruppo di persone che parlavano, ben nascoste dietro le piante di un’oasi vicina.
«Tu che ne pensi?» mormorò.
Si riferiva al sacerdote di Bastet, ovviamente. Era lui che, in quel periodo di tempo, aveva avuto il compito di sorvegliare; la sua morte era prevista per quella notte stessa, ma giungere ad una decisione definitiva era sempre molto difficile.
Il becchino, ancora una volta, scelse la strada sempre giusta della neutralità, e tacque. A lui era andata meglio, gli avevano assegnato la strage provocata da un incendio che sarebbe scoppiato di lì a poco.
«E’ ambizioso e pieno di talenti. È un ottimo retore e un sacerdote zelante. È intelligente, brillante, crudele quanto basta, e possiede lo specialissimo dono di saper incantare la gente». Sospirò. «Non c’è dubbio che, se mai dovessi lasciarlo in vita, il mondo cambierebbe radicalmente.»
Come sarebbe diventato l’Egitto, si chiedeva, sotto la guida di un uomo come lui?
«La sua morte è fondamentale per il corretto sviluppo dell’umanità.» fu tutto ciò che disse Undertaker.
Il suo compagno lo fissò. Poteva anche essere incomprensibile, un po’ folle forse, ma il mestiere del dio della morte lo sapeva fare diabolicamente bene. Non gli era mai capitato di sbagliare un giudizio; mai.
«Sei sicuro?», l’unica cosa che riuscì a replicare.
Ma il suo interlocutore lanciò un gridolino.
«Ah! Pare proprio che sia arrivato il mio momento.»
Si alzò da dov’era seduto, sistemò alla cintura la piccola falce che avevano dato in dotazione ad entrambi e si soffermò, solo per un attimo, sul suo compagno.
«Buona fortuna, allora!» gli disse, con uno dei suoi sorrisi ambigui, prima di dirigersi verso il centro della città, dove già cominciavano ad intravedersi i primi bagliori gialli e aranciati del fuoco.
 
***
 
«Traffico di bambini?!» ripeté Abasi con disgusto.
Sekani, con i suoi cinque uomini più fidati al seguito, rise.
«Che cosa c’è, hai scoperto quella coscienza che ti vantavi tanto di non avere?». Sputò per terra, con un sorriso feroce.
Eppure il sacerdote non ci trovava nulla di divertente, anzi: si sentiva stupido, ingenuo, preso in giro.
«Non era mai stato menzionato nulla del genere.» fu la sua obiezione, e sembrò debole persino a se stesso.
«Avevamo menzionato soldi. E ne avremo tanti.» replicò infatti il guerriero, senza un attimo di esitazione.
Il sacerdote di Bastet contrasse le labbra. Andiamo, Abasi., si disse. Lascia perdere questa tua vana chimera chiamata onore. Accetta di nuovo il patto. Sei a un passo dal conquistare tutto ciò che vuoi.
«No.» fu quello che disse, invece. «Io non ci sto più.»
A quanto pare il drappello di banditi che si erano accordati con il sacerdote non avevano più così tanta voglia di ridere. Lo sguardo del mercenario si fece minaccioso.
«Non rinunceremo a tutto questo denaro solo perché tu ti fai venire degli scrupoli assurdi.»
Abasi non aveva timori, forte della propria posizione di prestigio, della propria influenza.
«Calma gli spiriti, Sekani.» sibilò infatti. «Senza di me di questa operazione non se ne fa nulla.»
Successe tutto molto velocemente.
Senza neanche che si fosse accorto del minimo movimento, Abasi si ritrovò la tozza spada ricurva del mercenario affondata nel petto.
Il dolore era nulla, in confronto allo stupore provato.
«Credo che tu ti sia sopravvalutato, sacerdote di Bastet.»
La frase gli giunse in ritardo, e lontana, come se provenisse da un altro mondo.
Abasi sputò un grumo di sangue e rovinò a terra.
Sì, si era sopravvalutato. Si era creduto invincibile e immortale.
Tutto per dei bambini.
I mercenari sputarono e risero sul suo corpo agonizzante, e poi se ne andarono, probabilmente a far baldoria da qualche parte. Non avevano alcuna visione loro, non avevano alcun interesse a far fruttare i soldi ricavati da quell’ignobile compravendita, per avere di più.
Erano stupidi e limitati, eppure loro avrebbero vissuto, e lui sarebbe morto.
Il suo respiro si faceva sempre più debole e rado. Ogni molecola d’ossigeno che entrava nei suoi polmoni bruciava come acido, mentre pian piano sentiva tutto il suo corpo farsi freddo, le gambe, le braccia, il petto persino.
Come farà, pensava, la mia anima a trovare la via per l’aldilà?
Nessuno avrebbe trovato il suo corpo prima che avesse iniziato a decomporsi, lo sapeva bene. E sapeva anche cosa significava.
Dannazione eterna.
E sia., concluse.
Un attimo prima che lui chiudesse gli occhi, vinto dal dolore, dal freddo e dall’innaturale fiacchezza che l’aveva preso, vide un uomo in nero cadere rapace su di lui. Osservarlo.
Qualcosa nella sua mano brillava alla luce delle stelle. Alzò il braccio, e affondò quel qualcosa esattamente dov’era fiorita la ferita che gli aveva donato la morte.
Abasi spalancò gli occhi, ma non avvertì dolore. Piuttosto, vide una grande luce scaturire dal suo petto.
Questa è… la mia vita?, si domandò allarmato.
Vide l’essere sconosciuto esaminare per bene le immagini che scaturivano dalla sua anima; e in un attimo, il sacerdote seppe che cos’era.
Uno spirito maligno divoratore di anime, giunto fino a lui perché non ci sarebbe stato nessuno a dargli la sepoltura adeguata.
Abasi sentì le forze abbandonarlo, e la morte scendere infine gelida su di lui, definitiva e inesorabile.
Non lascerò che questo dannato essere abbia la mia anima., fu il suo ultimo pensiero prima di spirare.
 
Lo shinigami si prese più del tempo adeguato per visionare i cinematic records di quel talentuoso sacerdote, il cui crimine era stato provare pietà nel momento più sbagliato, e si ripeté mille volte che lasciarlo alla morte sarebbe stato un gran peccato.
Ma la frase del compagno, assai più saggio di lui, era stata perentoria e terribilmente azzeccata, e non poteva non pensare alle gravi conseguenze che avrebbe comportato il gesto di risparmiare un uomo che anelava a un colpo di stato così importante.
Prese un respiro profondo e alzò nuovamente la falce. La decisione era stata presa.
Il fendente calò, ma non trovò mai il bersaglio.
Uno dei cinematic records si erano avviluppati intorno al suo braccio come diabolici tentacoli, e glielo torcevano con una forza sovrumana. Il dio della morte fu colto da uno stupore totalizzante, e così l’indomita anima del sacerdote di Bastet ebbe occasione di sopraffarlo.
Dieci, cento tentacoli giunsero a stritolargli braccia e gambe, così forti da spezzargli le ossa. La sua mano, resa tremante e sudaticcia dal terrore, perse l’impugnatura della Death Scythe, che irrimediabilmente cadde a terra, suggellando la sua fine.
Lo shinigami spalancò gli occhi, preso dal panico, e urlò.
«Undertaker!» gridava, mentre i cinematic records prendevano possesso del suo corpo. «Aiutami! Ti prego! Ti prego, Undertaker! Aiuto!»
Continuò ad urlare, cieco di terrore, ma non arrivò nessuno a salvarlo.
Il sole sorse, quando l’anima di un uomo defunto ebbe la meglio sul dio della morte che voleva mieterla, e lo vide sbriciolarsi e tornare ad essere sabbia all’inizio del deserto.
I cinematic records si sciolsero, allora, e si fusero insieme diventando un globo di luce e di materia sconosciuta, che si modellò fino ad assumere una forma più o meno umanoide.
Abasi riacquistò allora la consapevolezza.
Si girò indietro, osservò con disgusto e orrore lo spettacolo del proprio corpo riverso sulla sabbia diventare cibo per insetti, poi gli voltò le spalle.
Non aveva più nulla a che fare con quella cosa, adesso. Aveva sconfitto uno spirito maligno, ma poteva non voler significare nulla. Avrebbe dovuto trovare in fretta la strada per l’aldilà, e avrebbe dovuto farlo da solo.
Iniziò così il suo viaggio.
Libero dalla stanchezza, dalla fame, dalla sete, dal sonno, vagava, lungo il deserto o le vie delle città, invisibile a tutti, assorbito nell’eterna ricerca di una via che eppure non riusciva a vedere, non riusciva a percepire, probabilmente non avrebbe raggiunto mai.
Si fermò, una notte,  in mezzo alle dune dello sconfinato deserto, preda della rabbia e della paura.
Non aveva avuto tomba, trattamento, bendaggi, forse nemmeno un funerale. Tali mancanze, che d’altra parte da lui non dipendevano, avrebbero davvero avuto un prezzo da pagare così alto?
Errare in eterno, solo, privo di pace?
No., si diceva. No, dannazione, no. Non mi ha avuto quello spirito, non mi avrà nemmeno il destino. Riuscirò a raggiungere l’aldilà, lo giuro, lo giuro sulla mia anima, perché è l’unica cosa che mi è rimasta!
Abbassò il capo e se lo prese tra le mani. In tutto quel tempo aveva avuto modo di modellarsi per bene, e adesso supponeva che assomigliasse più o meno a com’era stato il suo aspetto da vivo.
Non doveva lasciarsi prendere dallo sconforto e dalla paura per il futuro. Ce l’avrebbe fatta, ne era certo. Non sarebbe scomparso,  né sarebbe impazzito.
Non avrebbe dovuto far altro che aggrapparsi a sé stesso, nel modo più forte che la sua tenacia gli avesse permesso, e sopravvivere.
Sopravvivere. Assumeva uno strano significato, come parola, pensata dall’anima di un uomo morto da tempo.
«Oh, finalmente! Sono davvero affamato…»
Abasi non era più abituato a sentire una voce che parlasse di lui, a vedere qualcuno che si accorgesse di lui, ma l’istinto e l’imperante desiderio di non morire furono più forti dello stupore, e lo indussero ad alzarsi di scatto e allontanarsi dall’individuo che si era appena gettato vorace su di lui.
L’anima del sacerdote osservò la bestia che si trovava davanti, piena di terrore.
Sembrava un essere a metà tra un uomo e una serpe; il volto era indiscutibilmente umano, affilato, trasfigurato dalla fame e dalla malvagità, e vi brillavano un paio di occhi verde smeraldo dalle pupille verticali come quelle di certi animali. La sua bocca era digrignata a mostrare dei canini mostruosamente più lunghi di quanto avrebbero dovuto essere, e le mani artigliate spuntavano da un corpo sinuoso e squamato come quello di un rettile.
Era spaventoso.
«Ch… che cosa sei?» osò domandare Abasi. Quella creatura sembrava non avere nulla a che vedere con lo spirito maligno che lo aveva aggredito al momento della sua morte.
«Io sono un demone. E tu sarai il mio cibo.» rispose l’essere, avventandosi di nuovo su di lui.
Era veloce, terribilmente veloce. La povera anima s’immaginò subito ridotta a brandelli e sbranata senza pietà, perché il demone era semplicemente troppo forte perché potesse pensare di fronteggiarlo.
Di una cosa, però, Abasi era certo.
Se fosse stato divorato non sarebbe mai riuscito ad arrivare nell’aldilà.
Si girò, dominato dall’istinto frenetico di non scomparire, e fuggì per il deserto.
Il demone rise e si mise subito al suo inseguimento. Non c’avrebbe messo molto a raggiungerlo, e allora per lui sarebbe stata la fine.
Cercò di allontanare il terrore e la frenesia per poter pensare lucidamente. Non poteva affrontarlo, non sarebbe mai riuscito ad avere la meglio. Doveva nascondersi, far perdere le proprie tracce.
Intanto il demone era arrivato a qualche metro da lui, e già aveva spiccato un balzo per poterlo ghermire e finire del tutto.
Abasi stava quasi per arrendersi, quando vide le palme di un’oasi spuntare davanti a sé.
Sono un’anima, non può essere un miraggio, si ripeté, e in un ultimo slancio di vitalità evitò per un pelo l’offensiva avversaria e si gettò tra le canne, tremando per l’adrenalina e per il panico.
Poteva sentire il sibilo del suo predatore.
«Puoi nasconderti quanto ti pare, piccola odiosa anima, tanto posso sentire il tuo odore.»
Abasi s’irrigidì. Se era vero, non avrebbe avuto speranze comunque.
Si guardò intorno, alla disperata ricerca di un’idea, una trovata per potersi salvare.
Dal canneto spuntò un corvo.
L’unica, assurda possibilità di salvezza balenò in un’istante nella testa di Abasi.
Senza pensarci ulteriormente – se non l’avesse fatto, ne era certo, sarebbe morto comunque –, uscì dal proprio precario nascondiglio e si gettò sull’animale.
La fusione fu disgustosa.
Avvertì, inizialmente, le penne dell’uccello conficcarsi ruvide dentro di sé, ma non desistette, si spinse più a fondo. Attraversò la sua pelle, che aveva un retrogusto dolciastro e stucchevole; giunse agli organi interni, che sapevano di sangue e di amaro. Se avesse avuto ancora un corpo, sicuramente avrebbe vomitato.
Preso com’era dal non lasciarsi sopraffare da tutte queste nuove orribili sensazioni, s’accorse in ritardo di una zaffata d’istinti e sentimenti primordiali che arrivò ad investirlo.
Avvertì distintamente fame – per quello c’era il bisogno di spingersi fra le canne, a cercare vermi – prima, e poi paura, di qualcosa d’ignoto che era arrivato a prendere possesso del proprio corpo.
Con stupore, Abasi si rese conto di sentire quello che provava l’animale.
Sbigottito, provò ad aprire gli occhi, e s’accorse di vedere ciò che vedeva il corvo. S’accorse di avere un becco nero, un paio di ali e di artigli rapaci.
S’accorse che, occultato dagli istinti e dal corpo dell’uccello, il demone non riusciva a sentirlo.
Era salvo.
La consapevolezza di essere sfuggito anche a quell’ennesimo pericolo lo colpì violentemente, e gli diede un’irrazionale e irrefrenabile voglia di ridere. E rise, di gusto, come non aveva mai fatto nemmeno da vivo.
Da qualche parte, in un’oasi incastonata in mezzo al deserto egiziano, un demone sentiva ribollire la propria ira per la scomparsa di quella che aveva designato come sua preda, e un piccolo, modesto corvo nero gracchiava, fragoroso e instancabile.
 
Non appena riuscì a smettere di ridere, Abasi decise di andare. Il corvo, però, aveva delle idee tutte sue riguardo al concetto di “riprendere il cammino”, e senza nemmeno rendersene conto un sacerdote alquanto sbigottito si ritrovò sollevato a metri e metri da terra, a sfruttare le correnti d’aria e sorvolare l’immenso Egitto.
Il corso del Nilo, visto da lì, sembrava un nastro di seta argentata cucito nell’abito di una donna facoltosa.
Lui era senza fiato. Che senso aveva, si disse a un certo punto, continuare a cercare ossessivamente l’illusione di una via verso l’aldilà? Non sarebbe stato cento volte meglio rimanere lì, e continuare a vivere per sempre viaggiando lungo il cielo, osservando il mondo dall’alto?
Di sicuro, quella era la cosa più simile al paradiso che ci fosse.
 
Passò parecchio tempo in quella forma.
Viaggiò molto, visitò paesi che prima non si era neanche sognato che esistessero, si dedicò a una cultura che non avrebbe mai sperato di avere – d’altra parte, un corvo può arrivare in molti luoghi agli uomini preclusi.
A lungo andare, però, cominciò ad annoiarsi.
Fin da bambino la sua vita aveva avuto uno scopo: diventare sempre più ricco e potente. E aveva fallito. Da morto si era dato l’obiettivo di trovare la strada che conducesse all’aldilà, ma aveva fallito anche in quello.
Cominciò a domandarsi, con fastidio, se quei continui viaggi fossero per caso un palliativo, un contentino da dare al proprio animo martoriato dalle continue sconfitte.
Simili dubbi giungevano, come ogni altra cosa che possedesse la giusta dose di ambiguità, inquietudine e fascino, durante le ore notturne.
E durante la notte giunse anche lui.
Quella fu la prima volta che Abasi lo incontrò.
 
Si presentava, anch’egli, come un corvo. Venne in volo, come un corvo, e come un corvo si appollaiò di fianco a lui, sul tetto di una casa.
Ma sorrideva; e, si sa, i corvi non sorridono.
«Michaelis.» sussurrò. Era un sussurro vibrante, di una voce profonda e piena.
Abasi sussultò, e lo osservò con timore.
Non assomigliava né ad uno spirito con la falce né ad un demone. Sembrava più un’anima errante come lui.
«Come mi hai chiamato?» domandò, diffidente. Non aveva mai sentito quel nome.
«Con il tuo nome. Sebastian Michaelis.» ripeté quello.
Il sacerdote corvo scosse la testolina piumata.
«Sbagli. Il mio nome è Abasi.»
Ma il nuovo arrivato non si scompose.
«Ti identifichi in quel nome insignificante perché la tua anima è ancora umana. La tua vera essenza, è quella che ho chiamato. Sebastian Michaelis.»
Lui osservò quello strano corvo, spennato e sorridente, con occhi diversi. Aveva paura, ma ne era anche tremendamente attratto.
«Chi sei tu?»
«Io sono colui che può darti tutto. Capacità fuori dal comune. Una vita, visto che la tua l’hai persa. Un nuovo corpo, se lo desideri.»
Per la prima volta dopo tanto tempo, nell’anima di Abasi tornò a nascere l’ambizione.
«Sei un dio». Non fu una domanda.
Il corvo spennato rise; e fu una risata umana – mostruosa, eppure umana –, non un gracchio.
«Sono il demonio.»
Per un istante, l’anima del sacerdote si sentì schiacciata e annullata da quella nuova consapevolezza. Si ritrovò annichilita e tremante stesa ai piedi di un gigantesco corvo, piegata a baciargli il piumaggio ancora e ancora, per tutta l’eternità.
Abasi si riscosse con un’esclamazione di terrore, ma si accorse che nulla era cambiato, lui era ancora su quel tetto, e l’uccello di fianco a lui era persino un po’ più piccolo del normale.
Eppure le sue pupille erano ancora dilatate dalla paura.
«Hai visto, Sebastian?» sussurrava imperterrito quell’essere, il più tremendo che avesse mai incontrato, eppure l’unico, se ne rese conto in quel momento, al quale avrebbe accettato di sacrificare tutta la vita. «Questo è il potere, mio caro. E sarà ciò che avrai, se non rinnegherai la tua natura.»
Ad Abasi – rinato ormai Sebastian Michaelis – ci volle un po’ di tempo per calmare i battiti impazziti del cuoricino dell’uccello che possedeva, ma quando tutto s’acquietò, la scelta apparve chiara e allettante davanti a sé.
«Qual è il prezzo che devo pagare?» domandò.
Tutto, lo sapeva bene, tutto aveva un prezzo.
La domanda, per qualche ragione inspiegabile, parve divertire l’essere, che eppure rispose gentilmente.
«Morirai.»
«Sono già morto.»
«La tua anima verrà inghiottita negli abissi più neri dell’inferno, e tra le sue fiamme brucerà, finché non ne sarà rimasto nulla.»
Chissà per quale strano fenomeno della psiche, quell’immagine non lo atterrì neanche lontanamente rispetto a quanto aveva fatto la visione avuta dopo aver udito il vero nome di quell’essere.
Abasi, anche se ormai non era più questo il suo nome, rimase impassibile.
«Ma rinascerò.» intuì.
Il sorriso dell’essere si allargò.
«Oh, sì, rinascerai. E il tuo nome sarà, per sempre, Sebastian Michaelis.»
 
Abasi accettò, e la sua anima precipitò nella più nera bocca dell’inferno.
 
Quella fu l’ultima volta che Sebastian lo incontrò.



Ciò che dice l'Autore

Sono DAVVERO contenta di essere ruiscita a pubblicare questa storia! E' tardissimo e sono davvero stanca, ma mi sono impegnata tanto per riuscire a concludere il primo capitolo e pubblicarlo entro oggi, e qualche parola da spendere è d'obbligo. Innanzitutto, spero che sia piaciuto a tutti quelli che l'hanno letta. Da un po' di tempo meditavo di pubblicare qualcosa in questo fandom (Kuroshitsuji è una sotira che non si può non amare), e adesso sono felicissima di essere riuscita a farlo ^^
Allora. Mi sono divertita tantissimo a supporre il passato e il background di Sebby; prima di Ciel di lui si dice poco o nulla, e non mi è sembrato affatto giusto! Premesso, non sono affatto una storia. Nella parte dell'Antico Egitto avrò scritto duemila e più castronerie e, dirò, mi sarei volentieri risparmiata questa pubblica umiliazione, non fosse che quelli dell'anime hanno voluto a tutti i costi rivelare che Sebastian ha conosciuto un faraone, perciò ho dovuto anticipare la data della sua nascita di un bel po' di tempo <.<''
Pe il suo passato da umano mi sono ispirata alla fine della seconda serie dell'anime, dove Ciel diventa anch'egli demone; ho pensato: se tutti i demoni prima fossero stati umani?
Idem per la storia dei cinematic records assassini (xD): nell'OAV sul passato di Grelle si vede una cosa simile, e mi è venuto in mente di svilupparla.
Basta basta, ci sarebbero mille cose da dire ancora ma è meglio se me ne fili a letto.
Grazie mille per la lettura e... al prossimo!!
Un bacione,
Glory.


 
  
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