Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Melpomene Black    14/07/2013    2 recensioni
Una scelta, una difficile scelta che in realtà è un vicolo cieco. Alternative? Non ce ne sono. E allora Sherlock agisce, per il bene di Londra, dell'Inghilterra, di tutti. E poco importa se il mondo che si è costruito va in frantumi, in qualche modo imparerà ad andare avanti.
È il momento delle confessioni e no, non gli piace per niente.
« John, mi manchi. »
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A


DISCLAIMER: I personaggi non mi appartengono, essi sono di proprietà in primis di Sir Doyle e poi di Steven Moffat e Mark Gatiss.


Da questa storia non ricavo nulla, se non divertimento e forse anche tempo sprecato (sta a voi giudicare)


NdA: A un certo punto Sherlock fa delle considerazioni sulla religione, raccontate alla terza persona. Non è mia intenzione offendere nessuno, ho solo provato a immaginare quali potessero essere le considerazioni di questo personaggio, su questo argomento, nel momento narrato.


Le altre note sono in fondo alla pagina.

Buona lettura!

 

 

 

 

EMPTINESS - SENTIMENTI VUOTI

 

 

 

La poltrona rossa è fredda e vuota.
Lo sguardo di Sherlock si posa su ogni singolo oggetto presente nella stanza, anche il più insignificante. Il volumetto sul ripiano più alto della libreria è una copia della A-Z London Guide, quella utilizzata dalla mafia cinese per scrivere i messaggi in codice; la tazzina sul tavolino è stata fatta cadere inavvertitamente, ora è vuota e il suo contenuto è riverso sul tappeto; il cellulare sulla vecchia scrivania è del tutto simile a quello di "Uno Studio in Rosa", ma non è lo stesso, questo è qui per via di un gioco, uno sporco giochetto, il Grande Gioco, e quella dannata poltrona rossa è vuota da più di una settimana. Sherlock fa di tutto per non guardarla e i suoi sforzi non sono vani. Ignorare è decisamente più facile che affrontare.

In un angolo della stanza, da qualche parte, una ragazza butta le braccia al collo del fidanzato nello schermo del televisore. Patetico. Lui detesta quella scatola infernale fonte di disturbo e distrazione, ma il telecomando è sicuramente sepolto sotto un mucchio di cianfrusaglie e la voglia di cercarlo è completamente assente. Che canti pure, quello stupido aggeggio!

Sherlock è seduto al solito posto, con le gambe raccolte al petto e i riccioli neri che spuntano fuori dall'odioso "frisbee della morte". Perché lo ha ancora indosso? Non ha importanza.

Non si muove da due giorni, resta lì nella stessa identica posizione senza battere ciglio. Ogni tanto la signora Hudson gli porta un vassoio, pasti caldi che lui non degna nemmeno di un'occhiata. Non parla, le sue labbra sono costantemente serrate e gli occhi scattano da una parte all'altra, vigili e annoiati. Se la faccenda si limitasse a ciò, non sarebbe nulla di grave, lui è fatto così e niente potrà mai cambiarlo. Il problema è che non c'è più niente. Omicidi, criminali, pallottole nel muro, note di violino alle tre del mattino... Tutto è sparito, all'improvviso, come se queste cose non gli interessino più.

Il campanello trilla fastidiosamente, nessuno risponde. Poco importa, il visitatore ha una copia della chiave. Per i casi di emergenza. E questa lo è.

Mycroft Holmes bussa educatamente - è un vero gentleman, non può evitarlo - ed entra.

L'appartamento è immerso nel disordine più totale, ancora più del solito. Non sa se sia o meno normale, per suo fratello i canoni della normalità sono completamente differenti da quelli del resto del mondo.

Sta in piedi vicino alla porta, batte leggermente la punta dell'ombrello sul pavimento. Sherlock finge di non essersi accorto di lui e continua a esaminare una voluminosa pila di scartoffie, copie di rapporti della polizia, referti della scientifica et similia.

« Scappare da un ospedale nel cuore della notte, come un criminale... - esordisce Mycroft - Come ti è saltato in mente? »

« Dovevo tornare qui. » È poco più di un roco sussurro, le prime parole dopo giorni di silenzio.

« Ci saresti tornato dopo i dovuti accertamenti, per assicurarsi che tu sia uscito indenne da questa brutta avventura. »

Sherlock gli scocca un'occhiata a metà tra scetticismo e rimprovero. « Sto bene. » afferma stizzito con un colpo di tosse.

« Forse non ti rendi conto della precarietà delle tue condizioni di salute. Sei stato in coma per una settimana e, il giorno dopo esserti svegliato, hai deciso di farti una passeggiata per Londra come se niente fosse! »

« Ho detto che sto bene! » ripete deciso, alzando un po' troppo la voce, ma un violento attacco di tosse tradisce quella sua convinzione e lui non può far altro che sistemare meglio la sciarpa blu sulla gola in fiamme.

Mycroft gli si avvicina di qualche passo, lo sguardo preoccupato e al contempo esasperato.

« No, Sherlock, non stai affatto bene. Smettila di fare il testardo e vieni con me. »

« No. »

« Allora fila a letto e riposa. »

« No! » replica, incrociando le braccia come un bambino capriccioso.

« Al dottor Watson avresti dato ascolto, non è così? » Eccola, la nota dolente, una vera e propria sfida


Gli occhi di Sherlock, furenti, incrociano quelli del fratello per poi posarsi, gelidi e vuoti, sul teschio sulla mensola del camino, l'unico amico rimastogli - per lo meno Billy non se ne andrà, nemmeno se lo volesse -. Non ha intenzione di cadere in trappola, di cedere a quella provocazione che lo condurrebbe a ammettere di essere umano sfogarsi, come fanno tutti gli altri esseri umani. L'immobilità è l'unica arma a sua disposizione, al momento, ed è disposto a sfruttarla finché può.

Mycroft si arrende e decide di cambiare discorso.

« Ho telefonato al Detective Ispettore Lestrade, non verrai coinvolto in nessun caso per almeno un mese. Ho chiesto alla signora Hudson di controllarti. Non provare a uscire di casa finché non ti sarai rimesso in sesto. »

Apre la porta, si sofferma a osservare la pallida e tetra figura del fratello, una sorta di cadavere vivente. Non è carino pensarla in questi termini, ma non c'è espressione più adeguata.

Lo sguardo e la voce, prima severi, si raddolciscono. « Tutte le vite finiscono. Tutti i cuori si spezzano. Preoccuparsene non è un vantaggio. »

Quando se ne va, Sherlock sbuffa. No, preoccuparsene non è affatto un vantaggio. Eppure, per quanto il suo orgoglio opponga resistenza, il dolore avanza e lo dilania.

 

 

*****

 

 

Moriarty esce di scena. Sherlock rimane in attesa, la pistola è ancora pronta a far fuoco.

La porta si chiude. Torna a respirare.

Prova a disinnescare la bomba, ma ci vorrebbero troppo tempo e sangue freddo e al momento è carente di entrambe le cose. Strappa via il cappotto e lo lancia lontano, mentre John cerca di riprendersi e si siede sulle mattonelle bianche col fiato corto e il battito accelerato. Allora, solo allora, Sherlock si concede un sospiro di sollievo. Cammina avanti e indietro, nervosamente. Non deve far altro che avvisare la polizia e poi tutto sarà finito.

« Sherlock... Stai bene? »

Impiega qualche secondo a recepire la domanda a lui rivolta.

« Uhm? Sì. Sì, sto bene. » John, sciocco John, fino a pochi minuti fa ha rischiato la vita e ora la sua unica preoccupazione è la salute di Sherlock. Davvero strani, i sentimenti.

Prova l'impulso di dire qualcosa, un ringraziamento, qualsiasi cosa. Glielo deve, in fondo.

« Quella... cosa che hai fatto. Che tu... ti sei offerto di fare. È stata... buona. »

Quasi si vergogna di quell'accozzaglia sgrammaticata di parole, ma un semplice "grazie" sarebbe stato troppo difficile da pronunciare.

« Meno male che nessuno ci ha visto. » Cosa sta dicendo?

John prosegue. « Mi hai tolto i vestiti di dosso, di notte, in una piscina buia. La gente potrebbe parlare. »

« Diciamo che non fa altro. »

Sorridono. Fra poco tutto sarà finito, presto torneranno a casa senza essere interrogati - Lestrade sarà comprensivo -, magari con indosso un paio di stupide coperte per lo shock. La signora Hudson li abbraccerà, sollevata nel vederli sani e salvi, e capirà che è meglio lasciarli da soli. Guarderanno un po' di TV spazzatura, o quantomeno fingeranno di farlo, e si addormenteranno insieme, sdraiati sullo stesso divano.

Tanti punti rossi si condensano sui loro visi. Di nuovo nel mirino.

« Scusatemi! - esclama Moriarty - Sono così volubile! È una mia debolezza, ma a pensarci bene è l'unica che ho! »

Gli occhi di Sherlock e John s’incrociano, i primi seccati, i secondi impauriti.

Poi John, rassegnato ma in fondo ancora spaventato, annuisce. Sherlock punta la pistola contro la bomba. Se qualcuno deve morire stanotte, che muoiano tutti. Non vorrebbe arrivare a tanto, saltare in aria con il suo migliore amico e il suo peggior nemico, ma quali sono le alternative?

Non vorrebbe coinvolgere John, lui non c'entra, è innocente, la sua unica colpa è stata quella di averlo conosciuto e chissà se in questo momento non stia rimpiangendo quel giorno.

La mano è ferma, non ha esitazioni, ma i sentimenti che ha sempre allontanato ora lo circondano, lo attanagliano, lo soffocano.

Non vuole farlo, non finché John è lì, John che lo ha salvato, che ha quasi sacrificato la sua vita per lui, John che gli è stato vicino, che gli ha voluto bene, John che lo ha apprezzato e amato.

Non ha altra scelta.


Preme il grilletto.

 

 

*****

 

 

È notte. Buia, immensa, infinita. Notte.

È notte e la pioggia batte prepotentemente contro i vetri. Da una settimana l'acqua inonda Londra incessantemente.

Sherlock poggia i piedi sul tappeto - quello antico, prezioso, una delle poche cose che gli sono rimaste di Casa Holmes - e prova ad alzarsi; tre giorni dalla sua fuga.

La testa duole, tutto si muove troppo velocemente, tutto gira, gira e gira. Perde l'equilibrio e per poco non cade, ma all'ultimo minuto riesce ad aggrapparsi ai braccioli della poltrona e a rimettersi in piedi. Si passa una mano sulla fronte bollente - non solo qualche linea di febbre, sicuramente di più - e poi sugli occhi stanchi.

Prima di tutto dovrebbe mettere qualcosa sotto i denti, da troppo tempo non tocca cibo, il digiuno è stata una pessima idea, ma lo stomaco è chiuso e un forte senso di nausea lo pervade. No, mangerà domattina.

Muove qualche passo verso una finestra, barcollando e reggendosi ai mobili. Si appoggia al muro - come può essere così stanco? - e scosta la tenda. Il mondo è lì fuori ed è andato avanti senza di lui. Non è giusto.

Poggia una mano sul vetro congelato e osserva le goccioline sbattervi contro e precipitare lentamente sul davanzale. Per la prima volta la mente si svuota, il treno rallenta, il razzo torna alla base. Niente più informazioni che vorticano, niente più Mind Palace bene organizzato. Niente, solo il vuoto più assoluto. E capisce che rinchiudersi nei meandri di un palazzo immaginario non è un buon sistema di protezione; una fortezza mentale, per quanto colta, non può tenerlo al sicuro e ripararlo da quelle dannate emozioni del tutto sconosciute - taciute, sepolte, dimenticate -. Rinchiudersi in se stesso gli era parso ovvio, un meccanismo di difesa impeccabile. Quanto si sbagliava! E solo ora se ne rende conto.

La pioggia bagna la città, il freddo gli entra nel cuore - perché ora sa di averne uno - e lui non può permettersi di rimanere immobile a guardare il proprio declino. Deve reagire.

Decide di aver bisogno di un the. Sì, un bel the, come quelli della signora Hudson, scuri, bollenti, deliziosi.

Si dirige in cucina con una rinnovata determinazioni - ma non abbastanza energia - e decide che sì, al diavolo, se lo preparerà da solo.

Rovista nella credenza alla ricerca delle bustine - ne sono rimaste solo tre, qualcuno dovrà comprarne delle altre - e afferra due tazzine.

Prende il bollitore e lo mette sul fuoco - è così che si fa, no? - e aspetta.

Da quanto tempo giaceva su quella poltrona? Da quanto tempo non usciva dall'appartamento per risolvere casi? Lestrade si sarà sentito perso senza il suo aiuto, forse per la disperazione avrà addirittura chiesto aiuto ad Anderson - no, per carità, questa prospettiva è semplicemente ridicola.

Il bollitore fischia.

Cosa sta aspettando? Perché John non fa smettere quell'insopportabile rumore che interrompe i suoi pensieri?

Una tazzina, quella che ancora stringe, cade a terra e si infrange. Non può essere.

Cade in ginocchio, sui cocci taglienti. Allunga una mano. Come ho potuto? Come ho potuto dimenticarmene, essere così debole?

Il sangue gronda sul palmo, gocciola sul pavimento. No, no, NO!

Malinconia.

Tristezza.

Disperazione.

Paura.

Mai come in questo momento Sherlock si è sentito tanto uomo, fragile come tutti gli altri - o forse di più.

 

 

*****

 

 

Cimiteri. Che gran perdita di tempo. Quando la gente muore, muore e basta, non c'è niente dopo e il posto giusto per un cadavere è l'obitorio, al servizio della scienza. Oppure nel frigorifero del 221B di Baker Street.

I cimiteri sono inutili per un sacco di ragioni. Prima di tutto, sono il luogo in cui la gente manifesta i sentimenti, ira, tristezza, rammarico, nostalgia. Poi rappresentano uno spreco di denaro, tra lapidi, statue e spese di sepoltura; perché darsi tanta pena per un morto che di certo non potrà apprezzare la propria dimora eterna? E, come se non bastasse, i cimiteri sono il luogo in cui la religione regna sovrana - inutile ammasso di idee sbagliate che cercano di confutare la scienza; la fede è un sentimento, stupido come tutti gli altri -.

Insomma, Sherlock detesta i cimiteri. Eppure ora si trova lì, davanti al bianco marmo dalle incisioni nere. È una cosetta abbastanza sobria - per quanto sobria possa essere una lapide adornata di fiori - e non sarebbe potuta essere altrimenti, considerando la persona di cui porta la memoria.

Sherlock si guarda attorno, si ritrova immerso in un mare di putti e angeli piangenti. Davvero è caduto tanto in basso?

Getta la cicca di sigaretta spenta dalla pioggia e la calpesta quasi con odio, sebbene non ce ne sia bisogno.

Si concentra sulla scritta e sospira. È andato lì solo perché glielo deve.

Ancora non riesce a credere che lui sia lì sotto, coperto da cumuli e cumuli di terra - fase della negazione, non cascarci di nuovo - benché l'ultima volta in cui l'abbia visto egli fosse solo un corpo orribilmente sfigurato.

Di chi è la colpa? Sua, ovviamente. Ha fatto la scelta sbagliata da perfetto idiota quando aveva sempre avuto davanti a sé la soluzione. E lui, il grande Sherlock Holmes, non era stato in grado di vederla! Fase della rabbia, calmati.

Cosa viene dopo? Fase della contrattazione. Ma a che serve contrattare? È morto, dannazione, niente lo riporterà in vita!

Ancora rabbia, ora dovresti smetterla.
« Beh, scusa se penso in maniera razionale. Sperare non lo farà risorgere magicamente! »

Sfiora a lapide con la mano fasciata e fa male, forse perché la ferita risale a un paio di ore fa e il benché minimo tocco rinvia il processo di cicatrizzazione, o forse non è proprio la mano a dolere, forse è il cuore - l'organo essenziale per la vita, quello sempre in movimento, che non smette mai di battere, nemmeno per un secondo, sede dei sentimenti (errato, i sentimenti sono processi chimici e risposte a impulsi elaborati dal cervello) - forse è il cuore a sanguinare.

La sola idea di averlo perso per sempre gli annebbia la vista - no, quella è la pioggia, sciocco -. Fase della depressione. Tu, depresso? Divertente nella sua impossibilità.

« Chiedi ai lacci emostatici e alle siringhe se so cosa sia la depressione.


Sentimenti. Lo vedi? Ne hai anche tu.

« E va bene, lo ammetto! Ho provato qualcosa in passato. Ma ora è diverso... »

Affatto.

Si inginocchia nel fango, mentre la pioggia scroscia e le fasciature si impregnano di sangue.

È il momento delle confessioni e no, non gli piace per niente.

« Cristo, John, mi manchi! » mormora a denti stretti.

« Credevo saremmo morti entrambi e poi più nulla, solo cenere sui detriti. E invece no! Io sono sopravvissuto, come per miracolo, quei miracoli in cui la gente si ostina a credere. Tutte bugie! Non c'erano percentuali di sopravvivenza, però sono qui. Perché? La tua fede ha davvero un fondamento? Sono stato graziato dal tuo misericordioso Signore? Allora perché io sì e tu no? Perché? »

Una goccia salata gli bagna le labbra, ed è davvero strano perché la pioggia non ha questo sapore. Ma allora cos'è?

Finalmente se ne rende conto. Sta piangendo. Non gli capitava da così tanto tempo che ormai aveva dimenticato il terribile sapore delle lacrime.

Si asciuga velocemente gli occhi. Non è possibile! « Non sto piangendo, non sono triste! No! »

Arrenditi all'evidenza, negarlo non cambierà i fatti. E i fatti sono che John Watson è morto nell'esplosione della piscina, James Moriarty sembra non esistere e Sherlock Holmes sta piangendo davanti alla tomba del suo migliore - unico - amico. Niente di più, niente di meno. Questo è quanto.

 

 

*****

 

 

Lui se ne sta in piedi all'angolo della strada, tranquillo, sereno, le mani nelle tasche del giubbotto e l'aria di aspettare qualcuno. Assurdo.
Sherlock lo guarda da lontano ed etichetta la situazione come "incomprensibile". Sconfitto da Londra, paradossale. Perché questa è Londra, no? Uguale, ma diversa. Tutto è bianco, dai palazzi ai marciapiedi, dai monumenti storici ai cartelloni pubblicitari. E manca l'asfalto; i piedi sono sicuramente ancorati al suolo, ma il suolo non c'è. È tutto davvero troppo strano, di che trucco si tratta?

Rivolge un'altra occhiata all'uomo dall'altra parte della strada, il quale non batte ciglio e attende con pazienza.

Sherlock non ne può più, capisce che non riuscirà mai a dedurre cosa stia accadendo dalle poche prove a sua disposizione, deve necessariamente chiedere aiuto.

Gli si avvicina, accorciando la distanza tra loro in poche falcate.

« È uno scherzo? » domanda, furente.

John non si scompone, gli rivolge un sorriso cordiale. « Ciao, Sherlock. Ne è passato, di tempo. »

« Chi sei? Cosa vuoi? »

« Sai benissimo chi sono. »

« Tu sei morto! » Fase dell'accettazione - ecco dov'era finita -.

« Però sono qui. »

« Illusione. Devo essere sotto l'effetto di droga, probabilmente morfina dal momento che sto sognando, non può essere un'allucinazione. È un sogno. »

John scuote la testa. « Tu guardi, ma non osservi. Osserva, Sherlock, trai le tue conclusioni. Eri così bravo a farlo, il migliore... »

Sherlock osserva, si sta sforzando, ma proprio non riesce a comprendere, è come se mancasse qualcosa, il minuscolo tassello di un grande puzzle...

« Eri... » ripete in un sussurro. Ora non più? Ha smesso di pensare logicamente? Quando?

All'improvviso tutto è più chiaro, il bianco, Londra - per la precisione Baker Street, ovvio -, l'asfalto, John.

Sorride mestamente. « E così sono morto, non è vero? »

John sospira. « Una pallottola in pieno petto ha risolto il Problema Finale, come lo chiamavate. Sei morto prima che i soccorsi potessero arrivare. Ma, se può consolarti, anche Moriarty ha fatto la tua stessa fine. »

Gli gira attorno, le mani allacciate dietro la schiena - perché la sinistra è ancora fasciata? - e gli occhi piantati nel cielo inesistente. Non è pronto a toccare questo argomento, è ancora troppo presto.

« E così il Paradiso esiste davvero. » Non gli piace evidenziare l'ovvio, ma il silenzio va riempito in qualche modo.

« Proprio così. Ma credo che non ti permetteranno di entrare. Sai, quella roba della punizione per non aver creduto eccetera eccetera. »

« Suppongo che l'Inferno sia meno noioso. Spero abbiamo casi interessanti da risolvere. »

Si guardano negli occhi, finalmente, dopo tutto quel tempo di lacrime e rimpianti.

Sorridono. No, non è cambiato proprio niente. Loro sono sempre gli stessi, ogni cosa è sempre la stessa.

Di nuovo al 221B di Baker Street. Di nuovo insieme. Questa volta per sempre.

 

 

 

 

 

 


Mene's Corner

Salve, oh sventurati lettori che siete giunti fin qui! Ok, convenevoli a parte, prima di tutto ringrazio coloro che sono arrivati fin qui e hanno letto questa storia. Spero sia stata di vostro gradimento!

Di solito non scrivo One-Shot (per lo meno non così lunghe) ma c'è sempre una prima volta, no? Di solito non scrivo nemmeno così - voglio dire, non credo sia il mio stile. Essendo questa storia introspettiva dal punto di vista di Sherlock ho ritenuto il mio stile abituale troppo "lento" per tale personaggio. Per scrivere al meglio di lui, bisogna calarsi nei suoi panni e non è semplice - un flusso di coscienza ininterrotto -.

Un ringraziamento speciale va alla mia cara Jo Hamish Watson che, tra le altre cose, ha letto questa mia storia per prima. And... I owe you so much, dear.

Mi farebbe piacere sapere la vostra opinione in merito a questa shot e... credo sia tutto.

Goodbye!

 

Mene Black

  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Melpomene Black