(11/07/13) NOTE PRE-PUBBLICAZIONE/POST EDIT RISULTATI (DA
LEGGERE): Sarò stringata, dato che le note vere e proprie
sono già state scritte nel trafiletto qua sotto (leggerle o meno sta a voi).
Volevo solo avvisare
che ho riportato alla fine del racconto un glossario e un elenco di note numerate
utili per una comprensione a 360° della storia: essendo ADD una shot storica,
credo vi possano tornare utili. Consiglio caldamente di andare a piè pagina,
copiare il tutto su un documento word (o quello che avete), così da avere ogni
informazione a portata di mano mentre leggete e non dover andare continuamente
avanti e indietro: non penso sia il massimo della comodità, vero? Per le note
numerate troverete un numerino in alto a destra del termine o della frase che necessita
di spiegazioni, mentre per il glossario ho usato l’italic-arial (altresì detto
corsivo). Questo vale per i termini stranieri ovviamente, e non per quelli
italiani.
Sappiate che ho
corretto –credo– tutti gli errori che mi erano stati indicati (grazie davvero
per la cura), tranne qualche frase che ho deciso di lasciare lì per gusti
personali. Scusate.
Leggendo la
correzione ho riso come una deficiente per certi errori che ho commesso (tipo
espropriare al posto di espatriare –dovutamente corretto, e sì, abbiate pietà
di questa povera stupida: combatto contro la dislessia da qualche anno ormai,
ma con scarsi risultati. Il livello degli errori viaggiava in questa direzione,
con la partecipazione straordinaria di “scapole” al posto di “clavicole” –sono cretina,
lo so–). Davvero, grazie per aver corretto tutto ciò: io c’ho provato,
evidentemente l’impresa andava al di là delle mie capacità (e della mia
dislessia XD).
Ringrazio le
amministratrici del contest per avermi dato la possibilità di scrivere una storia
che, in altre circostanze, non avrei mai scritto. Detto ciò, aggiungo due
postille che siete liberissimi di ignorare, a meno che non siate le due
donzelle a cui sono dedicate.
Te l’avevo promessa, ricordi? A marzo. Ti avevo detto che te l’avrei
dedicata dalla prima all’ultima parola. Grazie di cuore, Kenia (leggi sotto
perché).
Sono uno hyung felicemente sposato col coniglietto più trasgressivo del
mondo. E lo amo, non ce n’è (ed ora attieniti al patto e umiliati come il/la
sottoscritto/a). Tu sai chi sei (che poi… la parola giusta era trasgressivo,
vero? O ribelle? °°)
VII
classificata al contest K-POP The Ultimate Revolution indetto da eos_92, MoCo,
Orient_Express e taemotional
---
Titolo: About Drops and Dust
Nickname
forum e EFP:
Shinushio (=)
Pacchetto
scelto:
Tempio di Artemide a Efeso – Cravatta, Rumore
di passi (tacchi), Verde –
Fandom: SHINee
Personaggi: Jonghyun, Taemin, Key,
Nuovo Personaggio
Rating: Arancione
Genere: Drammatico,
Sentimentale, Introspettivo
Avvertimenti: AU (alternative
universe), Deathfic!, OOC (out of character), Tematiche delicate
Riassunto: Taemin era il figlio di due uomini, eppure non aveva neanche un padre.
[JongTae]
Lunghezza/tipologia: One-shot (+43 k – non
guardatemi male ;.; –)
Note
autore:
Non sarei mai riuscita a scrivere questa shot senza l’aiuto di quattro persone,
alle quali mi sembra oneroso porre i miei ringraziamenti.
A Kenia
Kenny un grazie immenso per avermi fornito tutte le pagine da studiare per
creare un’ambientazione quanto più corretta ed attinente all’originale, dal
contesto storico, alle tradizioni e alle religioni asiatiche.
A Giulia,
la mia coinquilina, un grazie per le lezioni sulla moda inglese, i tessuti, e
tutto ciò che concerne l’universo del fashion design.
A Emma
un grazie per la spolverata su Platone e le virtù in generale, oltre che per
aver trovato del tempo da dedicare a una sua ex studentessa prossima a una
crisi nevrotica.
A HeavenIsInYourEyes
un grazie sentitissimo per i calci in culo (J) e per aver sopportato i miei piagnistei tipo
“poni fine alle mie sofferenze, passami la cicuta”.
A loro va tutta la mia riconoscenza. Grazie di
cuore.
Quanto alla storia in sé, forse avrei dovuto
inserire l’avvertimento Angst: il fatto è che, anche dopo averla riletta per la
trentesima volta, non ho trovato niente di tanto forte da spingere il lettore
alle lacrime. Oltretutto EFP permette di inserire solo tre generi al massimo,
ed io ho giudicato i tre sopracitati i più importanti e rappresentativi.
Volendo continuare l’elenco, però, avrei potuto metterci Storico e, a quel
punto, Angst, sì.
Non dico sia una storia leggera: il rating
Arancione è stato scelto per una serie di tematiche delicate che dubito possano
essere comprese da un pubblico di tutte le età. Non ci sono scene spinte di
sesso, ma spero capiate leggendo il perché della mia scelta. Nel caso in cui
riteniate abbia esagerato, siete libere di prendere i provvedimenti che più vi
aggradano: so di essere un po’ tanto capra in questo genere di cose XD
Come leggerete negli altri due documenti
allegati assieme a questa shot (dove troverete tutte le spiegazioni alle note
numerate, oltre che un dizionario di alcuni termini scritti in corsivo - non so, metterveli a fine racconto
non mi sembrava una grande idea: avreste dovuto scorrere ogni volta la pagina e
poi tornare su -), alcuni dati saranno “leggermente” forzati ai fini della
storia: spero perdonerete questa “licenza d’autrice”. Quindi, riassumendo,
avrete un file con le note e un file coi termini scritti in corsivo (ci tengo a
precisare, però, che non tutti i
termini scritti in corsivo rientrano nel vocabolario: quelli in
italiano – evidentemente – sono stati scritti così per dare maggiore enfasi a
certe frasi. Credo comunque capirete quali sono le parole e i riferimenti da cercare
XD)
Per quanto concerne il regolamento di EFP, l’ho
letto con attenzione (temendo che la mia idea potesse andarvi contro). Ebbene,
oltre a essere stupidamente felice all’idea di aver trovato un cavillo, posso
confermare che la storia NON infrange alcuna regola (capirete leggendo, non
voglio rovinarvi la sorpresa facendovi spoiler). Mi riservo comunque di
scrivere alcune note a fine storia che, spero, chiariscano eventuali dubbi.
Voglio poi spendere due parole sulla nota OOC e
lo stile: per l’OOC era inevitabile, mi spiace. Essendo la storia ambientata in
un periodo storico distante circa un secolo dal nostro, è ovvio che i
personaggi risulteranno alterati e piuttosto pesantemente (anche se mi sono
sforzata di mantenere qualche aspetto che li ricollegasse a quelli originali).
E questo vale non solo per la caratterizzazione. Per lo stile… oddio, è
pesante, nel senso che troverete frasi lunghe, termini che non si sentono nel
parlato, descrizioni interminabili… il fatto è che, riprendendo i libri scritti
a fine ‘800, inizi ‘900, e volendo narrare di un periodo antecedente al nostro
di circa cento anni, dovevo scendere a patti con uno stile che NON è il mio e
che spero, dopo le prime cinque pagine, possa entrarvi dentro e rendere la
lettura piacevole. Si tratta di abituarsi… credo… spero… ;.;
Mi scuso infine per la lunghezza della shot: ma
da che mondo è mondo, Shin e la sintesi non si conoscono e, suppongo, mai si
conosceranno ;.;
Il tetto si è bruciato:
ora
posso vedere la luna.
~Masahide
***
“Rallegratevi,
padre: ora siete finalmente libero da questa condanna”
# Gyeongseong,
13th September 1909
Dust’s memories (I)
~ PROLOGUE ~
La morte di Lee Jinki e della sua
consorte era stata pianta con servilismo rassegnato dai membri della famiglia
Lee.
Il Daehan
Maeil Sinbo aveva liquidato la faccenda annettendo i nomi dei due
malcapitati alla lista infinita di decessi che, a dire dei giapponesi, non
aveva niente a che vedere con le decisioni prese dal governo in carica. Hirobumi Ito era stato chiaro: l’insubordinazione
non sarebbe stata in alcun modo tollerata, ragion per cui il nullaosta tra le
mani della polizia si era tramutato in una sorta di gratificazione cruda
scaturita dal compiere violenze atte a salvaguardare l’ordine. La colpa era
dunque da imputarsi alla stupidità di chi perseverava nel cercare di arrecar
danno alla potenza nipponica. Fine.
Disgrazie del genere sapevano di
stantio ormai, erano una quotidianità triste che tutti, seppur maldisposti,
avevano accolto nelle rispettive dimore. Lo scorso sabato il primogenito dei Kwon
era tornato a casa reggendosi su una protesi di ferro già arrugginita: l’arto
era stato assestato in modo scorretto, la madre se n’era accorta quando,
aiutandolo a salire una rampa di scale, aveva notato una scia di petali cremisi
sul pavimento di pietra opalina. Mercoledì, invece, era stata la volta della
figlia dei Choi. La vecchia balia che lavorava presso la residenza dei Lee aveva
assistito in prima persona alla fine umiliante della giovane. Conosceva i
genitori da anni, un lasso di tempo incalcolabile che si dilatava in una
dimensione astratta dentro la sua testa. Non ricordava le circostanze in cui si
erano incontrati, erano troppo lontane per essere rievocate. E anche ci fosse
riuscita, sarebbero state contaminate da fantasie ed epiteti non attinenti al
vero. Ricordava invece il volto consumato dalla fame della ragazzina: era stata
lei a chiuderle gli occhi, rimuovendo così ogni traccia del suo passaggio sul
pianeta. Nel farlo, si era chiesta se vi fosse un disegno preciso dietro a ciò,
un perché capace di ridare dignità alle brughiere insudiciate dai fumi e
dall’odore ferroso del sangue. Gyeongseong
non le aveva risposto, piegata al silenzio dal volere di uomini la cui statura
non rispecchiava l’incredibile potere di cui erano dotati.
La cosa l’aveva addolorata immensamente:
amava la sua città come un figlio ama la propria madre, e quel tradimento aveva
rafforzato in lei lo sconforto di chi sa che la sua vita non vale più di quella
di un parassita. E forse lei era davvero un parassita, o perlomeno così aveva
cominciato a vedersi.
La notizia della scomparsa dei signori
Lee era stata recapitata ai famigliari la mattina del tredici settembre incartata
in una busta sporca di cenere. Le circostanze legate all’accaduto erano state
citate approssimativamente, poche frasi arrangiate in un disegno sbrigativo di
china che avevano lasciato in bocca a tutti il sapore acre dell’impotenza.
Nessuno aveva osato inviare una
risposta per reclamare chiarimenti, nessuno si era chiesto se fosse giusto o
sbagliato: in una nazione predata dalla guerra, “giusto” e sbagliato” erano
concetti astratti e svuotati di ogni significato. Le domestiche si erano quindi
limitate ad allestire la sarangchae nel
più funebre dei silenzi, in attesa che i pochi amici sopravvissuti
all’occupazione giapponese si presentassero per rendere omaggio ai defunti.
Persone per bene, Lee Jinki e Lee ShinWa, quel genere
di persone che colpiscono piacevolmente l’opinione altrui per la loro semplicità.
Li si poteva trovare a ogni ora del giorno sotto il ciliegio del giardino
interno, occupati nell’ennesima partita a Janggi
o a godersi il refrigero del vento primaverile. La signora Lee, poi, suonava il
daegeum così bene da sedurre
l’attenzione e le simpatie di tutti i bambini del vicinato: non negò mai loro
una canzone, e un’altra ancora, infrangendo puntualmente la promessa di una
fine che si protraeva anche per ore. Questo perché non era in grado di scuotere
il capo a chi che fosse, che si trattasse di una supplica accorata o di un
capriccio infantile. E sorrideva, sorrideva persino nel sonno, vegliando
costantemente sul marito e sui domestici a lei cari.
Il signor Lee, uomo di modi e bontà di
altr’epoca, veniva spesso beffeggiato per il suo cuore troppo grande. La sua
magnanimità fu tale da spingerlo e prestare asilo ai senzatetto colpiti dalla ferocia
giapponese senza chiedere nulla in cambio. Tanto disponibile da esser tacciato
di stoltezza, questo era ciò che si diceva per le strade di lui. Chi lo faceva,
però, non riusciva a nascondere un sorriso grato e riconoscente che mieteva nell’immediato
la gravosità dell’affermazione pronunciata pocanzi.
Fu stimato ed apprezzato da ogni
servitore del casato al pari della moglie: molti videro in lui un bimbo avulso dal
veleno delle fauci sanguinolente della guerra, così diverso dalla sorella, da
quella donna sprovvista di grazia ed affabilità.
Pensare che il figlio dei due
compianti sarebbe andato in sorte a lei e a quel diavolo di suo marito aveva
fatto versare più di qualche lacrima alla nutrice del bimbo. La vecchia KyuMin
aveva preso atto della cosa con l’insofferenza tipica di chi guarda il proprio
marito partire per il fronte senza prospettive di ritorno: aveva visto nascere
Lee Taemin quattro anni prima in un’afosa giornata di luglio, tra i gemiti
soffocati nei panni sporchi e l’imbottitura del cuscino di sua madre. Ricordava
distintamente la sensazione di pace nata dallo stringere a sé il corpo minuto
di quella creatura, gli occhi esageratamente grandi che, col crescere, si erano
fatti, se possibile, ancora più grandi. E i capelli, neri come le piume dei
corvi, perennemente arruffati. Le mani, certo piccole, ma affusolate e
attraenti come quelle di una bambina.
Tutto di Lee Taemin faceva pensare a
un essere efebico senza connotazione fisica ed effettiva terrene. La sua
bellezza, per quanto di bellezza si potesse parlare considerata la giovane età,
era in grado di catturare il cuore degli ansanti e cancellare il dolore della
perdita che tutti, di quei tempi, avevano saggiato sulla propria pelle. KyuMin
vedeva Lee Taemin per il miracolo che era, una margherita nata tra le asperità
e le rocce appuntite di una terra che non aveva più niente da offrire ai suoi
abitanti. Un bambino modesto e umile, col sorriso perennemente disegnato sulle
labbra piene e rosee. Non se la sentiva di apostrofarlo angelo per paura di
vederselo portare via dal colpo di un fucile nel cuore della notte; dopotutto era
risaputo che i tesori dovevano rimanere nascosti, se non si voleva che qualche
malintenzionato se ne appropriasse indebitamente.
L’ala interna della residenza era
stata ripulita con la massima cura ed occupata da allestimenti floreali di
splendore inenarrabile. Un servitore aveva incorniciato due fotografie dei
padroni che tutti, passandovi davanti, avevano reputato consone all’occasione.
Probabilmente erano state scattate prima dell’inizio dell’occupazione. E in
effetti, se le si guardava bene, era impossibile non notare i fuochi delicati
della giovinezza impressi nei loro occhi. Fu lì che KyuMin trovò Taemin,
imbottigliato nel via vai di gente venuta a porgere le condoglianze, gli occhi
spalancati e gravidi di timore.
Fu facile indovinare quali pensieri gli
stessero passando per la mente avvezza al gioco: chi sono questi sconosciuti, perché sono qui? Dove sono mamma e papà?
KyuMin estrasse un fazzoletto dalla
manica larga dell’hanbok asciugandosi
una piccola lacrima, impietosita dallo smarrimento giustificato del piccino.
Quel gesto le costò pochi secondi, nessuno la notò. Oltretutto il grondare incessante
dell’acqua, ora rappresa sul tetto, ora invischiata nelle buche del suolo
argilloso, camuffò accortamente la sua mancanza.
Le giornate di pioggia erano l’ideale
per salutare i propri cari: nascondevano l’umiliazione di vedersi scoppiare in
un pianto dirotto e inevitabile.
Taemin sorrise riconoscendola tra la
bolgia di spettri[1] che ingombravano i corridoi esterni della
tenuta: inginocchiato sul pavimento di legno ondol accanto alla matriarca, la signora Lee Sun Young, chinava il
capo a ogni parola rivoltagli dai visitatori. Gli riusciva arduo capire cosa
stesse accadendo, motivo per cui si perdeva spesso nella contemplazione dello
stagno di loto accanto al ciliegio. Non lo faceva con cattiveria, per carità!
Come non esistevano bambini cattivi, non ve n’erano neanche di attenti a
qualcosa che sfuggiva alla loro comprensione, questo KyuMin lo sapeva bene.
Dubitava, però, che la natura ingenua del suo protetto avrebbe strappato
l’indulgenza alla capostipite.
«Mi chiedo perché abbiano aperto le
porte a tutta questa plebaglia rozza e indisciplinata! Non sanno forse che qui
risiede la nobile famiglia Lee? Lo trovo un affronto bell’e buono!»
L’anziana nutrice distinse
nell’immediato la voce gracchiante levarsi al cielo con leggerezza
inappropriata, appartenente alla donna più odiosa con la quale avesse mai avuto
lo spiacere di incrociare la strada in settant’anni di vita. Mostri della sua
specie ne esistevano tanti, anche se erano pochi quelli che avevano l’ardore di
palesarsi come invece faceva lei.
Voltandosi verso il cenacolo di
poveracci, individuò presto l’opulenza della signora Kim Woohee nel vestito
d’importazione occidentale che quel giorno aveva deciso di indossare, più
adatto a un gran ricevimento che alla veglia funebre del fratello: il corpetto,
a suo parere eccessivamente stretto, le metteva in risalto i seni prominenti
coperti per vezzo da del pizzo bianco. La gonna, poi, larga e lunga, era
impreziosita da ricami d’ispirazione vittoriana, meraviglie che KyuMin aveva
visto solo nei libri e addosso alle nobildonne inglesi. Persino le calzature,
malgrado fossero nascoste dall’orlo della sottana, erano evidentemente inidonee
al contesto: vertiginosamente alte e di vernice lucida.
Se non altro, si disse l’anziana
signora, aveva avuto la decenza di vestirsi di bianco[2], al
contrario del marito.
Kim Jonghyun incarnava tutti i mali e
le immoralità vigenti e non di quel mondo traviato. La sua bellezza, diametralmente
opposta a quella dolce di Taemin, aveva spinto molte donne e, assai più grave,
uomini a gesti sconsiderati indegni persino di essere nominati. KyuMin aveva
ragione di credere che un demone sarebbe scappato con la coda fra le gambe se
obbligato a confrontarsi col carisma diabolico del marchese[3].
Girava voce si fosse venduto come una puttana agli azionisti della Korea Hide Company per stipulare un
contratto, senza contare poi le innumerevoli tresche con la Korean Land and Maritime Transportation
Company. Bisognava riconoscere, invero, che la famiglia Lee viveva avvolta nel calore dei panni di seta[4]
per merito suo e di nessun altro. KyuMin non era disposta a credere che il fine
giustificasse i mezzi; al contempo, non disegnava i profitti di cui i suoi
poveri padroni avevano beneficiato solo fino a ieri.
Forse non era stato un male l’unione
fra le due famiglie: Lee SunYoung era stata capace di vedere al di là
dell’immediato e di scegliere la nipote giusta per assolvere quella faccenda.
Lee Woohee e Kim Jonghyun si erano
sposati tre anni fa il giorno antecedente alla celebrazione del Dano. L’accordo fra le due famiglie era
stato lungo e a tratti esasperante: grazie al cielo la nobile matriarca aveva rivelato
innegabile maestria nel giostrare e tessere vaniloqui.
Non si capiva tuttora perché, fra
tutte le famiglie, la donna avesse scelto proprio quella dei Kim. Ciò non ledeva
al fatto che il suo buonsenso avesse saputo vedere laddove molti non avevano
avuto il coraggio di guardare, vittime del moralismo e delle virtù confuciane: i
Kim erano vacche grasse da mungere finché il latte non fosse venuto a mancare,
questa era la triste realtà dei fatti. Perché quando la miseria bussava alla
porta, l’unica cosa che potevi fare era correre ai ripari.
«Vecchia Min, da quanto tempo!»
Il rumore della pietra levigata
colpita dallo scalpiccio dei tacchi di Kim Woohee squarciò il silenzio commosso
entro cui tutti si stavano crogiolando. Poco dopo, la donna raggiunse la
nutrice esibendo un sorriso che, seppur sincero, KyuMin trovò detestabile come
pochi.
«È sempre una grande gioia per me
rivedervi.»
«Anche per me signora.» oh, solo i
cieli sapevano quanto avrebbe voluto che quelle parole fossero vere. «Vi trovo
in splendida forma.»
«Non fatevi abbindolare dall’abito, le
cose non potrebbero stare più diversamente!»
«Davvero?»
«Lo giuro! Tanto per cominciare, il viaggio
a Londra è stato un completo disastro! Mi auguro vi sia giunta voce dello
smarrimento del mio bagaglio a King’s
Cross! Una croce che non augurerei neanche a un giapponese. Dentro c’erano
tutti i vestiti comprati nelle boutique d’alta moda frequentate da niente di
meno che Re George in persona. E-»
«Vogliate scusare la mia scortesia, ma
potrei chiedervi il favore di parlarmene più tardi? La gente potrebbe
fraintendere il vostro entusiasmo e scambiarlo per maleducazione. Non desidero
comincino a trapelare maldicenze sul vostro conto.»
Kim Woohee era fondamentalmente una
donna stupida e piena di sé in modo imbarazzante. KyuMin la conosceva bene,
come conosceva i versanti aspri del monte Yanggu,
sua terra natia. Aveva visto crescere quella donna di ormai vent’anni senza
riuscire a mutare la sua predisposizione all’egoismo e all’amore per i soldi in
misericordia e modestia. Era il più grande dei suoi fallimenti, nonché cruccio
amletico attorno cui ruotavano svariati dubbi legati alla sua identità genetica:
possibile fosse davvero la figlia della matriarca Lee Sun Young? Per KyuMin
sarebbe stato più fattibile credere che gli asini avessero il dono della
parola.
Kim Woohee tacque guardandosi alle
spalle e, notando più di qualche sguardo tagliente rivolto al fiocco che le
teneva saldo il corpetto, convenne saggio seguire il consiglio della balia. Suo
marito, nel frattempo, perseverava nel silenzio, osservando tediato lo sciamare
di gente rivolto verso il portone d’ingresso.
«Ma sì, che sparlino pure quei bigotti.
Tutta invidia la loro!»
«E come potrebbe essere altrimenti,
signora? Basta guardarvi per capire quanto siete fortunata.»
«Ritengo sia vero.» replicò guardando
poi la fotografia del fratello adagiata sull’altare di legno. «Dov’è il
bambino?»
«A ricevere gli omaggi dei visitatori
assieme alla nobile matriarca. Vi chiedo di aspettare il termine della
cerimonia: non dovrebbe mancare molto.»
«Spero comprendiate il mio disappunto:
la nave salperà fra meno di tre ore e dobbiamo ancora recuperare i passaporti[5]
e la famiglia di mio marito. Il tempo stringe, vecchia Min: non possiamo
permetterci di sperperare attimi preziosi con queste formalità.»
«Dieci minuti dovrebbero bastare.»
Woohee non rispose, benché fosse ovvia
la sua disapprovazione.
«Kibum! Smettila di giocare con quei
bambini, non sta bene!» ordinò invece al figlio.
Fu allora che KyuMin notò il fanciullo
accomodato sulle radici dell’imponente ciliegio. Era cresciuto molto
dall’ultima volta in cui si erano incontrati e, malgrado pensasse che la
corporatura gracile non fosse indice di salute, non ebbe l’ipocrisia di
trovarlo spiacente. Al contrario. Aveva ereditato l’eleganza nel muoversi della
madre, quella morbida leggerezza che vedendo assoceresti più alle farfalle che
agli uomini. Una delle rare qualità degne di questo nome della donna. Anche i
lineamenti erano delicati, di una peculiare unicità. E i modi riservati
facevano ben sperare in una maturità sconosciuta a Woohee.
Che fosse merito del padre? Possibile
che quell’uomo avesse esercitato una buona influenza su quella creatura? Con
dei genitori del genere, KyuMin non sapeva sinceramente cosa pensare.
Kim Kibum doveva avere all’incirca tre
anni, se i suoi calcoli erano corretti. Era stato concepito poche settimane
dopo il matrimonio dei genitori, per la gioia delle famiglie e soprattutto di
Woohee. Durante tutti e nove i mesi di gestazione, la donna non aveva fatto
altro che lamentarsi di dolori indicibili che neanche i medici avevano saputo
diagnosticare. Una scusa come un’altra per attirare l’attenzione del marito e
farsi viziare. Il signor Jonghyun doveva essere una persona paziente, ne era
prova l’essere riuscito a passare indenne quell’esasperante periodo senza
cedere a istinti omicidi.
In senso lato, KyuMin ammirava quella
coloritura del suo carattere. Molto lato ovviamente.
«Ah, i bambini. Mi auguro che il
figlio di mio fratello sia stato educato a dovere: mi spaventa l’idea di
ripetere l’esperienza avuta con Kibum una seconda volta!»
L’unica che avrebbe dovuto imparare
qualcosa in fatto d’educazione era Woohee, magari proprio dal bambino,
evidentemente sgradito, che sarebbe finito sotto la sua ala.
«Non si preoccupi, signora: il piccolo
è adorabile. Il signore e la signora Lee lo hanno istruito con la massima
serietà. Pensi che a quattro anni sa già suonare qualche nota col pianoforte. E
canta. L’altro giorno ha costruito una bambolina con le sue mani, dovreste
vedere quant’è bel-»
«Oh santo cielo, lo hanno forse
confuso per una bambina? Erro o il suo nome è Taemin? Misericordia, non abbiamo
certo bisogno di un cabarettista nella nostra famiglia!»
KyuMin reputò saggio astenersi da
qualsivoglia tipo di commento, conscia del fatto che nessuna parola sarebbe
stata in grado di cambiare l’opinione incresciosa che Woohee si era già fatta
del bambino.
Non desiderava sprecare energie
preziose in cause perse.
«Vedo che non sei cambiata di una
virgola nel corso di questi ultimi due anni, Woohee.»
La nobile matriarca annunciò così la
sua presenza, scortata a breve distanza da un timido Taemin.
KyuMin chinò prontamente il capo
indietreggiando di un passo. Era arrivato il momento, per le signore, di
discutere riguardo agli ultimi preparativi; per il piccolo, di conoscere i suoi
nuovi genitori.
«Anche voi non siete affatto cambiata,
madre.» replicò Woohee accennando un sorriso di circostanza. Quindi spostò lo
sguardo sul bimbo che, smarrito, contemplava il picchettare della pioggia sulla
superficie increspata della pozza d’acqua, intimorito dalla sontuosità del suo
vestito e da tutto il bianco che lo circondava. «Deduco sia questo il figlio di
Jinki.»
Lee SunYoung annuì.
«Taemin ha appena compiuto quattro
anni. Non comprende appieno quanto è successo ai genitori, sebbene sia scosso e
non abbia dormito la notte. Mi auguro saprete prendervi cura di lui come fosse davvero vostro figlio.» così dicendo, si
rivolse per la prima volta a Jonghyun, compatto nel suo vestito da nobiluomo
inglese. «Voglio riporre fede in voi, non deludetemi.»
«Non sarà necessario.»
KyuMin trovò la voce di Jonghyun immutata
rispetto a quella radicata dentro ai suoi ricordi e risalente al giorno in cui
lo aveva conosciuto: c’era un che di sinistro contrapposto a rassegnazione nei
suoi occhi, rispecchiato dal timbro di una voce che non sapeva come definire. La
inquietava la sua mancanza d’espressività, il sorriso vuoto che rivolgeva a chi
di turno. C’era tanto, troppo, di personale che lottava per sfuggire alla morsa
ferrea dei suoi modi, appianato in un acuto disinteresse nei confronti di tutto
e tutti.
A momenti, Kim Jonghyun sembrava troppo perfetto per essere un semplice
uomo. E non era da escludere l’ipotesi che non lo fosse: solo così si poteva
spiegare la mancanza di moralità con cui affrontava gli affari.
«Che intendete dire?»
Lee Sun Yong guardò il marchese con
cipiglio perplesso.
«La fede riponetela nel vostro dio,
quale esso sia: non trovo di alcuna utilità le minacce mascherate a preghiere
per crescere un bambino.»
«Me lo auguro.» masticò lei tra i
denti, scostandosi per dare maggiore visibilità al nipote. «Vieni Taemin, è ora
di presentarsi ai tuoi nuovi genitori.»
Il piccino, lasciato solo a
fronteggiare le due serpi, continuò a tenere gli occhi saldamente incollati al
ciottolato. Nessuno al di fuori di Woohee lo trovò strano, in particolare KyuMin,
che tanto avrebbe voluto sottrarlo all’infausta sorte cui stava andando
incontro: scampare alla guerra per cadere in mano a quei diavoli non prometteva
un futuro roseo. Certo, lo avrebbero condotto in Giappone, gli avrebbero dato
una casa, un nome e una nuova vita lontana dagli spari dei fucili; eppure la
donna non riusciva a debellare completamente il sentore di morte che le pulsava
dentro al cuore. Non cercava una logica dietro a quel presentimento, forse per
paura di trovarla e di capire che un destino peggiore era dietro l’angolo, o
meglio nascosto dal sorriso bieco di Kim Jonghyun.
Era paura, si disse. Semplice rifiuto
di vederselo strappare da sotto il naso dopo tutti quegli anni trascorsi
insieme.
«Perché non parla? Volete darmi a
intendere che sia muto o, peggio, non gli abbiano insegnato a presentarsi
innanzi a due marchesi?» Woohee ammiccò incrociando le braccia al petto,
risentita. «Quale delusione.»
«Devo rimembrarti com’eri tu, cara
Woohee, alla sua età?»
«Mi offendete, madre. Sono certa che
qualsiasi domestico vi direbbe solo il bene della sottoscritta!»
«Non ne dubito, sono pagati per
farlo.»
Il battibecco delle due donne si
trascinò similmente a un animale ferito per circa una decina di minuti quando
Taemin, alzando lo sguardo, vide per la prima volta la figura longilinea ed austera
di Jonghyun, colui che il tempo gli avrebbe insegnato a chiamare padre.
L’impatto fu devastante.
KyuMin aveva letto abbastanza opere
Shakespeariane ai tempi in cui Woohee, ancora giovane, sognava il principe in
calzamaglia per non riconoscere la scintilla che caratterizzava tutti gli amori
tragici delle opere del poeta. E si era spaventata, e avrebbe voluto
oltrepassare le due nobildonne per frenare l’avanzata del piccino, se solo le
norme restrittive vigenti all’interno del casato glielo avessero permesso.
Quindi si era data della sciocca, conscia che l’amore più grande che un bambino
potesse provare era quello rivolto ai genitori. Ed era ovvio il motivo per cui
Taemin aveva scelto Kim Jonghyun e non Woohee; quell’arpia avrebbe spaventato Masatake Terauchi con la sua parlantina frivola
e presuntuosa, figurarsi una creatura di soli quattro anni! Alla luce di ciò,
perché non provare a dare fiducia all’uomo?
Nel frattempo, completamente
all’oscuro dei turbamenti della nutrice, Taemin aveva raggiunto il giovane
sconosciuto: era così bello nel suo vestito di cady opaco nero e con quel
laccio curioso legato al collo. Non aveva mai visto un simile cimelio. Quella
piccola nota di verde, quella diversità di cui si era fatto portavoce… Taemin
le trovò ammalianti, ipnotiche.
«Perché indossate una collana,
signore? Le collane non le mettono solo le donne?»
Kim Jonghyun rimase immobile, affascinato
dalla bellezza del volto acerbo del suo interlocutore.
Si lasciò prendere la mano scivolando
in un calore amniotico sconosciuto ma non per questo increscioso; nel mentre,
le due nobildonne decretavano chiuso lo scambio d’opinioni aguzze, ritenendo
più interessante seguire l’evolversi degli eventi.
«Collana? Intendi forse questa?»
Jonghyun arpionò un lembo della “collana”
giocherellandoci distrattamente.
«Sì.»
«Non è una collana; si chiama
cravatta.»
«Cioè una collana per uomini?»
«In un certo senso…»
«E fa male?»
La prima delle mille doti che Jonghyun
conobbe ed imparò ad apprezzare di Taemin fu la curiosità, l’interesse sincero,
a volte incontenibile, che aveva nell’approcciarsi alla realtà. Il continuo
sorprendersi per fatti e vicende che altri trovavano banali perché masticati
troppo a lungo, ormai insipidi, non sarebbe andato perduto negli anni. Anzi, se
possibile, si sarebbe accentuato. E il soggetto che più di tutti avrebbe
stimolato quella sete di sapere era e sarebbe sempre stato Jonghyun.
«Perché credi faccia male?»
«Sembra stretta…»
Il secondo pregio fu l’intuizione,
un’intelligenza mista a buon senso priva di superbia.
«Stringe un po’ ma non fa male: è
piacevole.»
«Ma come? Se stringe fa male e non può
far bene.»
Jonghyun sorrise per la prima volta.
Un sorriso accennato, incredibilmente fugace. Nessuno lo notò al di fuori della
vecchia nutrice e di Taemin.
«Un giorno capirai, ora sei troppo
giovane.» rispose inginocchiandoglisi davanti.
«Dite che anch’io ne avrò una quando
sarò grande?»
«Una?
Non essere sciocco, bambino: se varrai un quarto di quel che vale mio marito,
ne avrai almeno due dozzine nell’armadio!»
Woohee, incapace di trattenersi oltre,
intervenne nella conversazione civettando il valore di Jonghyun tutta fiera.
Taemin la guardò a lungo interdetto:
scoprire che il valore di un uomo si misurava in base al numero di cravatte
nascoste dentro al cassetto fu il metro che gli permise di capire quanta
differenza intercorresse fra Jonghyun e suo padre, quello vero.
Tra i pochi ricordi collezionati nel
corso della sua giovane vita non ve n’era alcuno legato a Lee Jinki con addosso
quello strano accessorio.
«Quindi…» cominciò rivolgendosi
nuovamente a Jonghyun. «…anch’io sarò un uomo che avrà tante cravatte come voi,
signore?»
«Per il tuo bene, piccolo, spero
proprio di no.»
«E perché?»
Nessuna risposta.
«Signore, perché?»
«Perché non voglio vederti diventare
quel tipo d’uomo che indossa sempre e solo una cravatta dimenticandosi
volutamente di tutte le altre.»
KyuMin trovò singolare la
giustificazione, a momenti fortemente ironica. Doveva trattarsi di un
escamotage per sfuggire l’insistenza di Taemin e dirottarne l’attenzione
altrove. Non importava dove: qualsiasi altro lido sarebbe andato bene. Questo,
almeno, fu ciò che pensò.
«Nonna Sun Young mi ha detto che voi
sarete il mio nuovo papà, è vero?»
E Taemin cascò nella rete come da
programma.
«Sì, lo è.»
«Io… non credo di capire. Perché devo
cambiare papà? Quello vecchio non va più bene?»
Le sopracciglia di Jonghyun si arcuarono
appena all’udire quelle parole.
«Cosa ti è stato detto precisamente riguardo
a tuo padre e a tua madre?»
«Basta così.» la nobile matriarca decretò
chiuso lo scambio di battute con voce aspra. «Non osate mettere in dubbio la
mia autorità: cosa e quanto ho detto al bambino non è affar vostro!»
«Vi sbagliate, lo è eccome. Dopotutto
ora è mio figlio.»
«Come siete noiosi voi! Marito mio, posso
ricordarvi che mancano meno di tre ore all’imbarco? Abbiamo altro a cui
pensare, non vi pare?»
L’intervento, incredibile a dirsi,
provvidenziale di Woohee fu capace di mietere la tensione venutasi a creare fra
le due controparti.
Jonghyun annuì con fare sdegnato,
fronteggiando la vecchia monarca senza esitazione alcuna.
«Mi recherò in pellegrinaggio al santuario
di Jongmyo a pregare per voi. Ora
andate, non voglio vedere mia figlia tormentarsi dai timori.» detto ciò, Lee
SunYoung poggiò una mano sulla testa minuscola di Taemin in segno di benedizione.
«Cresci sano e forte, figliolo. Mangia tante verdure, obbedisci a quello che ti
dicono i signori Kim e tratta bene tuo fratello Kibum. Spero di rivederti un
giorno, Giappone permettendo.»
Taemin sorrise ingenuamente al bambino
che, nascosto tra le braccia di Woohee, lo contemplava incuriosito: Kibum, il
suo nuovo fratellino.
«Certo nonna, lo farò. Ci rivedremo
sicuramente, chiederò al signor…» nell’enfasi del momento, realizzò di non
conoscere ancora il nome dei suoi nuovi genitori.
«Jonghyun. Kim Jonghyun.» gli sussurrò
Jonghyun correndo in suo aiuto.
«Ecco! Chiederò al signor Jonghyun di
tornare qui. Vi porterò altre bamboline, saranno più belle delle ultime che ho
fatto, lo prometto.»
KyuMin sorrise intenerita dal candore
del fanciullo. Con un po’ di fortuna sarebbe riuscita a recuperare una delle
sue ultime creazioni: quella mattina le era parso di averne adocchiata una nei
pressi della camera della signora Lee.
«Promettere costa oneri non
indifferenti. Tienilo bene a mente, Taemin, non dimenticarlo.»
«Certo nonna. Lo prometto.»
Quel giorno, Lee Taemin strinse la
prima di una lunga serie di promesse destinate a sgretolarsi come foglie secche
all’infuriare del vento.
PROLOGUE - END
***
About Drops and Dust
# Kyoto, 18th July 1925
Drops’ Present (1)
Avrebbe
mentito dicendo di non averlo mai voluto.
Lo
aveva fatto, certo, in quel modo un po’ codardo e superficiale con cui si pensa
a eventuali risvolti senza però muoversi per favorirli. Troppe volte aveva
lasciato vagare lo sguardo sulla porta della sua camera. E si era visto per il
debole che era quando, incapace di guardare al di là delle trasparenze dello shoji, quella patina irrisoria che la
paura aveva trasfigurato nella più possente delle cinte murarie, aveva
preferito fuggire un confronto nascondendosi nell’autocommiserazione.
Taemin
trascorreva le giornate dedicando parte del suo tempo alla continua ricerca di
un inizio. E per quanto i dubbi si moltiplicassero alla stregua del konbu, per quanto ogni volta la
soddisfazione di averne risolto uno si diramasse in altri dieci più tediosi,
non poteva trattenersi dall’infliggersi quella pena.
La
verità era che aveva bisogno di soffrire per sentirsi meno in colpa: era un
modo piuttosto efficace di controbilanciare il peso gravoso dell’amore che
nutriva nei confronti di suo padre, Jonghyun, ora conosciuto col nome di
Takahiro Saito.
Lee
Taemin amava Kim Jonghyun con la stessa intensità con cui si vive sapendo che
mancano pochi minuti alla fine del mondo. Per lui era naturale come respirare e
contemporaneamente indispensabile per sopravvivere, una croce celata sotto
sorrisi innocenti che, si era ripromesso, mai avrebbe visto la luce del sole;
sarebbe morta bruciata in un pulviscolo di ceneri peccatrici assieme al suo
corpo. Questo perché per quanto lo desiderasse, per quanto i risvegli
improvvisi alle tre del mattino fossero sempre più frequenti, non poteva
sopportare la vergogna legata al pensiero di una possibile dichiarazione.
Lo
voleva, sì, ma in quel modo rassegnato con cui desideri qualcosa che non potrà
mai appartenerti.
Taemin
chiuse gli occhi lentamente, dissimulando le sue angosce in un sorriso appena
abbozzato. Il futon profumava di
fresco, quella fragranza che aveva imparato ad associare alla corteccia dei
ciliegi in fiore e al fluire delle acque dei fiumi. Con un piccolo sforzo
dell’immaginazione avrebbe potuto benissimo immaginarsi ai Sankeien Gardens di Yokohama: suo padre ce lo aveva portato cinque
anni prima per salutare l’inizio della primavera ed assolvere nel mentre alcuni
impegni lavorativi. Serbava un ricordo felice di quell’esperienza, come di
tutte quelle spese in sua compagnia. Forse era stato proprio in
quell’occasione, sotto il cadere incessante dei petali rosa, che aveva capito
di amarlo. Un amore sconveniente ed estraneo all’affetto che normalmente un
figlio prova nei confronti di un genitore, dell’uomo che l’ha visto crescere e
ne ha fatto a sua volta un uomo. Forse, più probabile, tutto era cominciato il
giorno in cui Jonghyun era venuto a prenderlo a Gyeongseong. O forse ancora quel sentimento era sempre esistito, ed
altro non era che un residuo d’amore della vita passata legato tanto saldamente
alla sua anima da essere sopravvissuto al trapasso.
Tanti
forse e nessuna risposta. E in fondo non poteva dirsi un male: sciogliere ogni
dubbio con un punto, prima seguito da un’interpunzione interrogativa, avrebbe
significato chiudere un ciclo che Taemin sognava eterno, ineffabile. Per questo
accoglieva quel perpetuarsi di “ma quando?” e “perché?”, ignaro del dolore che si
stava propinando.
La
luna sonnecchiava alta nel cielo, adagiata su una scia spumosa di vapore e fumi
cinerei, quando un fruscio impercettibile squarciò il silenzio circostante
trasformandosi in un invito lusinghiero.
Taemin
impiegò due secondi netti a carpirne la provenienza, mezzo per sgusciare fuori
dal futon ed alzarsi. A giudicare
dalle ombre disegnate sui tatami
dovevano essere le due del mattino, volendo esagerare le due e mezza.
Le
notti insonni gli avevano insegnato a scandire il tempo in base all’angolazione
e alla deformazione delle ombre degli oggetti della sua camera, unici spettatori
dei suoi turbamenti. Di positivo c’era che non potevano parlargli, non
direttamente perlomeno. Era la sua coscienza a immaginarsi la loro voce, quei
piccoli rimproveri molesti che non trovavano compiacimento perché già triti e
ritriti nella sua testa: è un uomo, è
sposato, ti ha accudito ed educato come un padre, non di meno agli occhi del
mondo è uno dei dirigenti di una zaibatsu.
Sì,
Taemin conosceva perfettamente queste cose, chi era Kim Jonghyun Takahiro Saito
e le conseguenze di una loro possibile relazione. Ma desiderare senza agire non
costava nulla, né tantomeno guastava l’ordine pleonastico delle loro vite. Il
suo sentimento aveva la consistenza impalpabile dei sogni, ma mentre questi, al
risveglio, fuggivano la mente lasciandosi dietro una volontà troppo pigra per
rammendarli, l’altro cresceva depositando stralci d’affetto, parole e gesti gli
uni sugli altri, in uno scoglio irto che nessun onda sarebbe mai riuscita a
levigare.
Un
nuovo fruscio serpeggiò nell’aria più impertinente del primo.
Taemin
raccolse in fretta e furia i geta e,
dopo aver saggiato circospetto il sonnecchiare della casa, fece scorrere la
porta della camera con la massima attenzione. Non un rumore lo tradì, il più
piccolo scricchiolio o cigolio. E trovandosi innanzi l’interminabile corridoio
della tenuta deserto, pensò di essere molto fortunato a poter vantare la
leggerezza di un gatto, acquisita a fronte di innumerevoli fallimenti in
passato.
Per
l’intera durata del tragitto si costrinse a non pensare a nulla, per timore che
i suoi dubbi si facessero corposi, massicci e che quindi cadessero provocando
un rumore sordo. Si trattenne persino dal respirare, lasciando libere solo le
gambe da ogni imposizione. E quando si vide fuori, quando capì che i suoi piedi
avevano retto la tensione del momento, quando la calura estiva si insinuò sotto
lo yutaka accarezzandogli la pelle
sudata, finalmente crollò. Cadde rovinosamente sui gradini di pietra bianca che
le domestiche avevano cosparso d’acqua prima di andare a dormire per scacciare la polvere di quotidianità[6] portata dai calzari degli
ospiti.
Il
giardino di casa Takahiro aveva un fascino particolare mistificato
dall’incontro e dalla convivenza di due mondi apparentemente uniti, la Corea e
il Giappone, in pratica distanti come l’Europa. Lo Yomiuri Shinbun dispensava il mito della
grande nazione chiudendo gli occhi dinanzi ai massacri che, Taemin sapeva, si
facevano sempre più crudi e spietati. E se da un lato aveva imparato ad
apprezzare la bellezza e le tradizioni del nuovo Paese, dall’altro non riusciva
a darsi pace per le sofferenze della sua gente.
Gli
era giunta voce che la sua nutrice, di cui lo scorrere del tempo aveva cancellato
le fattezze del volto salvando per mera disattenzione il nome, KyuMin, era
morta tre anni dopo la sua partenza strangolata dalla mano di un soldato
nipponico.
Se
glielo avessero chiesto, Taemin non avrebbe saputo dire quanto la notizia
avesse inciso sul suo stato d’animo. Ovviamente se n’era dispiaciuto, ma la
giovane età e l’incapacità di prendere una posizione contro quella che, ormai, aveva
imparato a considerare la sua terra avevano arginato il dolore in una sorta di rea
indifferenza. Gli sarebbero serviti altri dieci anni per rivalutare l’accaduto
e capire che l’appartenenza a una nazione o all’altra non obbligava a decretare
giusti e necessari gli sbagli che ambedue le parti commettevano.
Si
rialzò. Non aveva molto tempo a disposizione. E mentre percorreva la viuzza
cosparsa di ghiaia bianca, lambita ai lati da nuvole colorate verdi, il dubbio
di essersi immaginato tutto lo assalì.
Non
era una novità, gli capitava spesso: il reputare certa una chimera sfuggita alle
sue fantasie era un timore col quale si era rassegnato a convivere senza mai
abituarcisi. E si spaventava del potere mostruoso che quel sortilegio
esercitava sulla sua mente, piegata al volere di brame che alteravano la
realtà. E ancor di più si stupiva della riluttanza con cui si costringeva a
sottrarvisi. Per cosa, poi? Per vivere in un mondo che non gli dava ciò che
voleva. Una madre che si comportasse come una madre, un posto nella società
precluso, la forza di dire “no” e di disobbedire, un segno che gli facesse
capire che suo padre ricambiava i suoi sentimenti. Eppure non gli sembravano
richieste tanto gravose, qualcosa per cui sarebbe stato necessario smobilitare
le truppe giapponesi.
Fondamentalmente
chiedeva una sola cosa. Sotto più aspetti, vero, ma la sostanza non cambiava.
Chiedeva
di essere amato. Perché l’affetto di Kibum, traviato dalla paura di vedersi
sottrarre l’eredità che gli spettava di diritto da uno sconosciuto, era diventato morboso. Perché ricevere odio e
diffidenza dalla marchesa Woohee Takahiro Natsume Ibuki per la predilezione,
per lui inesistente, che Jonghyun nutriva nei confronti di uno sconosciuto, era una pugnalata
all’addome. Perché sentendosi chiamare in tal modo, sconosciuto, aveva cominciato a dimenticare quali fossero le sue
origini.
No,
a ben vedere Lee Taemin non chiedeva affatto di essere amato.
Chiedeva
un’identità. Perché è impossibile amare e rispettare qualcuno privo di nome, di
sentimenti, di casa e di famiglia.
La
strada si interruppe. Era giunto a destinazione. E volgendo lo sguardo al
vecchio pozzo, sotto la tettoia di bambù, notò una figura inquieta immersa
nella penombra, inginocchiata su un ciocco di legno levigato.
L’avrebbe
riconosciuta tra mille, a occhi chiusi e con rinnovato sollievo.
«Siete
tornato tardi oggi, padre.»
Kim
Jonghyun appoggiò il catino d’acqua fredda accanto a un masso e si alzò: la
giacca, la camicia e l’immancabile cravatta verde giacevano abbandonate sul
manto erboso accarezzate dalla brezza notturna che si respirava in riva al lago.
«Non
dovresti essere nei tuoi alloggi a quest’ora? Che ci fai qui?»
Taemin
indugiò un poco sul profilo dell’uomo, ora rischiarato dalla luce della luna.
Ci era già passato più volte, tante quante quelle spese a rievocare la sua
immagine dopo. Eppure ogni volta era come se fosse la prima: si innestava un
meccanismo per cui il filo dei ricordi si inceppava, successivamente recideva
ed era costretto a riaffrontare tutto da capo.
Kim
Jonghyun era quel genere d’uomo la cui bellezza avrebbe mozzato il fiato a
chiunque, indipendentemente dal sesso, l’età e la provenienza. La sua era una
bellezza ingiusta, che col passare degli anni, anziché affievolirsi, si era
rinvigorita nei tratti marcati della mandibola, nel taglio a goccia degli occhi
e nella generosa muscolatura. Persino i difetti, che presi uno a uno sarebbero
risultati sgradevoli, nel contesto avevano una loro armonia ben precisa.
Non
era un uomo particolarmente alto – anche se il metro giapponese differiva di
una decina di centimetri da quello coreano –, ma le spalle larghe e le mani grandi
compensavano quella mancanza conferendogli un’imponenza che la statura gli
aveva sottratto alla nascita. Gli zigomi, invece, eccessivamente pronunciati,
erano chiusi da due sopracciglia lunghissime che ricordavano le ali di un
gabbiano. E quel corpo, sul quale aveva fantasticato milioni e milioni di
volte, era così dannatamente appetibile da portarlo a chiedersi se avesse uno
scopo spendere del tempo a decantarne le ovvie lodi. Dopotutto il suo pensiero
era comune a quello di molti altri uomini, certo più abili nel descriverlo di
quanto fosse lui.
Distolse
rapido lo sguardo dal busto nudo di Jonghyun, imbarazzato a morte: cielo!,
doveva aver notato sicuramente il modo in cui lo aveva guardato,
quell’impudenza che si sentiva ancora impressa negli occhi e che bruciava
imporporandogli le guance. Non era stupido.
«Non
riuscivo a dormire. Questa calura estiva è soffocante, non trovate?»
«Quale
che sia la stagione hai sempre una scusa pronta: questo inverno era per la fuliggine
delle caldaie; d’autunno per il battere della pioggia contro il legno; di
primavera per il cinguettare dei passeri… pensi si addica questo tuo modo di
comportarti a chi sei e rappresenti? O che così facendo otterrai la benevolenza
di tua madre?»
«Credete
sia un bugiardo?»
«Penso
tu sia troppo sensibile, Taemin. E che il tuo aspettarmi ogni sera fino a notte
tarda non sia consono a quello che ci si aspetta da te.» Jonghyun accennò un
sorriso riappropriandosi del catino dell’acqua. «Ciò non vuol dire che non lo
gradisca, però.»
Taemin
si chiedeva spesso come ci riuscisse, ad amalgamare i rimproveri e le parole
dolci in un impasto squisitamente equilibrato nella sua contraddittorietà.
Forse
era merito di suo padre se era diventato lunatico, oltre che facilmente
influenzabile dall’umore altrui. Se solo avesse avuto la capacità di giudicarsi
obiettivamente, di sicuro a quell’ora non ci sarebbe stato tanto imbarazzo fra di
loro. Che poi quell’imbarazzo fosse sentito solo da lui e non da Jonghyun,
quello era un altro paio di maniche.
Sorrise
a sua volta protendendo le mani in sua direzione.
«Lasciate.
Faccio io.»
Jonghyun
lo guardò perplesso, apparentemente combattuto fra il rispondere e il tacere. Infine
acconsentì, consegnandogli il secchio ed inginocchiandosi ai suoi piedi sulla
pietra fredda.
«Ho
la vaga impressione di vivere un continuo déjà-vu con te.»
«E
la cosa vi infastidisce?»
«No…
rende tutto più leggero.»
«Lo
prenderò come un complimento. Vi ringrazio, padre.»
«Non
ringraziarmi. Sono io quello dovrebbe ringraziare te.»
Taemin
pensò che avrebbe dovuto chiedersi perché. Invece la domanda che si pose fu
“però non lo fai mai. Non concretamente perlomeno. Ti costa tanto?”
Jonghyun
gli diceva spesso che avrebbe dovuto
essergli riconoscente, che la sua presenza aveva il potere di redimere i suoi
peccati. Parlava per mezzi termini, per frasi fatte che aprivano uno spiraglio
sulla sua anima implodendo successivamente nel più desolante dei mutismi. E
quel mondo variopinto di emozioni, sofferenze e sguardi che sigillava in un
silenzio ermetico, sotto strati di pelle coriacea tempestata di cicatrici,
rimaneva circoscritto in una dimensione che, Taemin sapeva, non sarebbe mai
riuscito a raggiungere.
Non
capiva quanto effettivo fosse il suo supporto, né tantomeno quanto sinceramente
lo apprezzasse.
«Deduco
che le trattative con gli americani siano andate bene stasera, a giudicare
dall’ora in cui siete rincasato…» sussurrò studiando il capo chino del padre.
Capovolse
delicatamente il catino sulla sua testa: l’acqua gelida scivolò lungo i tendini
tesi del suo collo sezionandosi in rivoli via via più fitti.
«Un
branco di barbari senza cortesia. Lo yanagi-daru
che ci hanno dato a fine cena non basta per comprare più di tre barili di sake.»
«Non
siate troppo burbero: il cambio di valuta dai dollari agli yen non dev’essere
cosa facile per loro.»
«Se
così fosse dovrei considerarli stupidi. Non è peggio?»
Taemin
rise divertito.
«Con
voi non c’è proprio verso di spuntarla, vero?»
«Suppongo
di no, anche se confido nelle tue doti. E a proposito di doti: gli esami di
sbarramento dell’Università Imperiale[7] sono vicini ormai. Come
procedono gli studi?»
«Discretamente.
Il signor Yamaguchi dice che non dovrei riscontrare problemi.»
«Buon
per te.» decretò recuperando i vestiti ed asciugandosi il volto con la giacca
del completo.
Taemin
non aveva una grande opinione dell’insegnante privato che sua madre aveva scelto
per lui, il signor Yamaguchi, uomo distinto e al contempo votato alla pigrizia.
La predilezione che nutriva per Kibum aveva accecato il suo buon senso
trasformandolo nel burattino, nonché amante, della marchesa. Niente di serio,
ovvio: dopotutto era difficile trovare un uomo più ricco di Jonghyun, e questo
Woohee lo sapeva bene.
Se
Taemin non si era mai lamentato della condotta deplorevole dell’uomo era stato
per non gravare ulteriormente il peso delle preoccupazioni e degli obblighi di
cui Jonghyun si faceva già carico. E lo diceva a fronte degli innumerevoli…
come chiamarli senza suonare indelicati, affari
forse?, che suo padre “concludeva” per permettere a tutta la famiglia una
vita di agi e lusso sfrenati. Questo perché essenzialmente, per quanto il tempo
gli avesse fatto capire che l’interesse di Jonghyun nei confronti della moglie
fosse irriverente, Woohee non sarebbe mai stata capace di vivere una vita
dimessa dallo sfarzo.
Tieniti vicini gli
amici, e ancora di più i nemici,
ripeteva sempre.
E
Taemin non capiva.
«Lasciate
che vi aiuti.»
«A
fare, di grazia?»
Jonghyun
spinse dentro all’asola l’ultimo bottone della camicia, quello attaccato al
colletto. Quindi si rimise la giacca umida.
«A
legarvi la cravatta.»
«Ho
già una moglie, Taemin, per quanto sia poco propensa a questo genere di cose.»
«E
dove sta scritto che non posso supplire le sue mancanze?»
Sospirò
sconfitto, falsamente restio a chiudere la conversazione.
«Sai,
vivere sperando che un giorno imparerai a ubbidirmi sta diventando sfiancante.»
Taemin
rise nervosamente cercando di frenare il tremolio concitato di cui erano
vittime le sue mani.
«A
proposito, stavo quasi per dimenticarmene…» così dicendo, Jonghyun si protese
verso di lui che, impegnato ad annodare la cravatta, quasi non si accorse del
bacio che posò sulla sua fronte. «Tanti auguri di buon compleanno, ragazzo.»
#
Kyoto, just another November’s
day, 1909
Dust’s Memories (II)
«Non m’interessa, che lo voglia o meno
non vi deve tangere! Toglietelo di lì immediatamente!»
«Ma signora-»
«Niente ma! I suoi capricci stanno
cominciando a innervosirmi! In futuro mi auguro saprete adempiere al vostro
dovere senza recarmi fastidi.»
Woohee oltrepassò le due domestiche esibendo
l’aria risoluta di chi sa di avere il potere per decidere quando e come
chiudere una conversazione. Il kimono bianco, però, la costrinse a muoversi più
lentamente di quanto non avrebbe fatto altrimenti, portandola a ripensare alla
faccenda con rinnovato sdegno. Ciò vide il nascere e l’articolarsi di nuovi,
collerici pensieri che non si fece scrupolo a riferire alle servitrici
nell’immediato.
«Punitelo. Chiudetelo nelle latrine
per una o due ore. Chissà che il freddo e la pioggia non gli schiariscano un
po’ le idee[8].»
«Ma il piccolo potrebbe ammalarsi!»
«Non mi riguarda, non è neanche mio
figlio! E voi ubbidite ai miei ordini: sono la marchesa Takahiro ed esigo mi si
venga mostrata deferenza!»
«Posso sapere il perché di tutto
questo trambusto?»
Un brivido colpevole percorse la
schiena di Woohee.
Fu la paura di leggere disapprovazione
negli occhi del marito a sgretolare in mille, minuscoli cocci il potere che
solo pochi attimi prima l’aveva fatta sentire una signora. E voltandosi per non
mancare all’esplicito confronto che Jonghyun le chiedeva, si riscoprì debole,
perdutamente succube della sua bellezza.
Fronteggiare Jonghyun era una
battaglia persa in partenza. Era come tornare bambini e guardare il mondo degli
adulti con l’ignoranza atavica che caratterizza gli anni della fanciullezza.
Non riuscivi a parlare, non volevi farlo per timore di ricevere pietà, o un
gesto che marcasse il baratro che intercorreva tra le due parti.
Woohee non era incolume a
quell’angoscia: guardava il marito ferita nell’orgoglio, conscia che i suoi
sforzi per eguagliarlo ed essere degna di rispetto erano vani. Ciò che più la
feriva, però, non era la superiorità manifesta del marito; era il dolore
stesso, radicato nel suo cuore lastricato di tagli e fori, tanto acuto da
ricordarle quanto fosse perdutamente innamorata di lui e, allo stesso tempo, di
quanto fosse unilaterale il sentimento. Quindi fece l’unica cosa intelligente
da fare: girò i tacchi e, impettita, abbandonò il corridoio ritirandosi nei
suoi alloggi.
Jonghyun si sprecò nel dedicarle
un’occhiata distratta prima di rivolgersi alle due domestiche.
«Cos’è successo?» chiese.
«Padron Takahiro, per fortuna siete
arrivato. Il signorino Shusei non vuole rincasare, sta fermo sulla porta di
casa da tre ore ormai!»
«E perché?»
«Non… non saprei dirvi. Abbiamo
provato a chiedergli di entrare, ma senza successo.»
«Ho capito. Ci penso io, potete
ritirarvi.»
Le donne chinarono il capo mostrando
riverenza, poi si dileguarono silenziose, impercettibili esistenze prive di
dignità.
Jonghyun sospirò imboccando la
direzione opposta.
Spese una manciata di secondi per
uscire dalla tenuta, scoprire che pioveva e scorgere il piccolo Taemin seduto
sull’ultimo gradino della scalinata: immobile, lo sguardo fisso nel vuoto,
avrebbe potuto benissimo essere scambiato per una delle mille e una statue del
tempio Kannon Sanjusangendo.
Dimentico della pioggia, persisteva nell’attesa di qualcosa che avrebbe tradito
immancabilmente le sue aspettative, fedele a un miraggio al quale si era
aggrappato per sopravvivere alla malinconia.
Il viaggio a Fukuoka, dal quale era
tornato proprio quel giorno, aveva trattenuto Jonghyun lontano da casa per più
di un mese. Quell’assenza prolungata gli aveva impedito di adempiere al suo
dovere di padre e soprattutto controllare gli approcci poco ortodossi di Woohee
nei confronti del figlio.
L’avversione di sua moglie per il
nipote si era rivelata in diverse occasioni sgretolando celere il sogno di una
famiglia felice che, stupidamente, si era creato stringendo per la prima volta
la mano del bambino a Gyeongseong due
mesi prima.
Tutto di lui la indisponeva.
Taemin era il figlio di suo fratello
Jinki, col quale non aveva intrattenuto il più roseo dei rapporti in passato.
Taemin era educato, timido e delicato,
più di quanto lei avrebbe mai potuto aspirare a essere.
Taemin era incredibilmente bello, ed
oscurava Kibum senza dover dire o fare alcunché.
Taemin mangiava poco e malvolentieri
per non irretirla riuscendo invece, con la sua accortezza, a ottenere l’effetto
contrario.
Taemin condivideva le sue origini,
eppure lei non riusciva ad accettare il fatto che un altro membro della
famiglia Lee avesse acquisito un titolo nobiliare pari al suo.
Infine, Taemin era intelligente, oltre
che illogicamente talentuoso per la sua età.
Le parole dell’anziana nutrice si
erano rivelate vere, e non gonfiate dall’autocompiacimento di chi è solito
sfoggiare i propri tesori per farsi ammirare: a quattro anni, il piccolo
conosceva e sapeva suonare col pianoforte Prelude e Fugue No.2 di Bach[9]
al pari di numerosi talenti internazionali. O meglio, così sarebbe stato se le
gambe, troppo corte, fossero riuscite a raggiungere i pedali. La cosa che però
più di tutte stregava nel piccolo era la naturalezza dei gesti, quella passione
eterea nata dal nulla che si leggeva nei suoi occhi.
Jonghyun aveva pensato a un miracolo
vedendolo per la prima volta accomodato sullo sgabello di pelle nero dietro allo
strumento. Si era detto anche che Taemin era nato per stare lì, che niente, neppure la statura, ridicola se
posta a paragone con le dimensioni del piano, stonava nell’ottica. Ogni cosa
era armoniosa, si incatenava alle corde dei tasti prolungandosi sino alle dita
esili del bimbo, creando suoni meravigliosi di cui probabilmente Taemin non
riusciva a cogliere la bellezza.
Avrebbe dovuto essere geloso. E lo
era, certamente, ma non in quel modo ostile con cui si desidera estirpare il
talento altrui dal suo corpo ed impiantarlo nel proprio. Non invidiava il dono
di Taemin in quanto tale: era geloso del bambino stesso, che tanto avrebbe
voluto seguire come un’ombra e proteggere da tutti e tutto, prima fra tutti
Woohee.
Quale che fosse la ragione, però, la
ignorava.
«Shusei.» lo chiamò. Subito dopo, si
corresse. «Taemin.»
Il bambino sussultò mentre la pioggia
continuava a cadere boriosa. Il volto, modellato da rigagnoli d’acqua, tradiva
un’ansia corrosiva. E specchiandosi nei suoi occhi velati di lacrime, Jonghyun
assaporò per la prima volta la consistenza pungente dell’inettitudine.
«Perché sei qui? Le signore Rangiku e
Abarai sono preoccupate per te, lo sai?»
Taemin non rispose, stretto alle gambe
raccolte al petto: i capelli umidi disegnavano arabeschi insoliti sulla sua
fronte.
«Torniamo dentro. Non vorrai far
arrabbiare Woohee, vero? Anche lei è in ansia per te.»
Ancora silenzio.
Jonghyun soppesò attentamente le
prospettive di una chiacchierata sotto il piovasco. Malattie, freddo acuminato
sulla pelle, vestiti dieci volte più pesanti del normale. Niente di positivo o
che gli fornisse la spinta necessaria per abbandonare il riparo che Taemin
sfuggiva senza un perché apparentemente valido. Sempre ce ne fosse uno.
«Ti va di dirmi almeno cosa stai
facendo?»
Il bambino inclinò di un poco il capo.
«Aspetto.» rispose. Anzi, guaì.
«Cosa. No, meglio: chi?»
«Mamma e papà.»
Le sopracciglia di Jonghyun si
piegarono verso il basso svelando perplessità.
«Cosa?»
«Aspetto i miei vecchi genitori.»
«E perché?»
«Perché a quelli nuovi non piaccio.»
Non c’era traccia di cattiveria nella sua
voce: questo però non voleva dire che le sue parole non lo avessero colpito.
Più di quanto avrebbero dovuto, più di quanto si sarebbe potuto immaginare. E
forse era stata proprio quell’innocenza a ferirlo, la consapevolezza che, anche
se falsa, quell’affermazione bruciava di verità dentro al cuore di Taemin.
«Perché lo pensi?»
«Perché la nuova mamm-» si interruppe,
rosicandosi l’interno delle guance. Quindi ricominciò da capo. « Perché la
signora Natsume ha detto che non sono suo figlio. E neanche vostro. E che non
gli piaccio per niente.»
«Non posso dire sia sbagliato, ma-»
«Visto? Lo dite anche voi. È per
questo che non ci siete mai? Perché non sono come Kibum? Cosa devo fare per
essere come lui e diventare vostro figlio?»
Se possibile, lo stupore di Jonghyun
si dilatò ulteriormente. Un’illuminazione si fece strada fra i suoi pensieri
strisciando come una serpe.
«Non devi assomigliare a Kibum per
essere mio figlio. Non sono il piacere o il sangue a determinare i legami che
si creano fra le persone.»
«Io… credo di non capire…»
«Taemin, hai almeno compreso cos’è
successo a tua madre e a tuo padre?»
Il piccolo annaspò nell’ovvietà di un
dato certo.
«Sono morti.» rispose senza
esitazioni.
«E cosa vuol dire essere morti?»
«Vuol dire non tornare mai più. Ma…» nuove
lacrime si impossessarono dei suoi occhi. Lacrime vuote di rassegnazione e cognizione.
«…ma loro mi mancano, e sono sicuro che anch’io manco a loro. Quindi, se li
aspetto, forse smetteranno di essere
morti e torneranno a prendermi.»
La pioggia si fece più violenta,
trasportata dall’infuriare del vento gelido, infiltrandosi tra i rami spogli
del ciliegio sofferente.
Jonghyun non capì cosa stesse facendo,
né tantomeno perché lo stesse facendo, ma quando uscì allo scoperto da sotto la
tettoia avvertì qualcosa di caldo irradiargli la pelle. E sedendosi accanto a
Taemin, e prendendolo tra le braccia, il calore si fece più forte, torrido,
bruciante.
«Sai cosa ti dico?» cinse il corpo del
bambino affossando il volto tra i suoi capelli viscosi. «Vorrà dire che li
aspetteremo insieme. Che ogni sera, dopo cena, ci siederemo qui e guarderemo la
strada fino a quando lo vorrai.» sorrise incurvandosi appena per proteggerlo dal
persistere delle lame d’acqua. «E quando ti sarai stancato, quando avrai capito, avrai vicino tuo padre a sorreggerti.»
«Quello vero?»
«Io sono vero, Taemin. Più vero di
quanto tu possa comprendere ora.»
E in effetti Taemin non capì, ma non
gli importò: ora come ora si sentiva finalmente, dopo tanto tempo, a casa. E
questo gli bastava.
# Kyoto, 18th
July 1925
Drops’ Present (2)
La
sensazione di vuoto che quella
mattina, svegliandosi, scivolò liquida tra le sue dita, Taemin l’accantonò nel
momento in cui si accorse di aver infilato l’hakama al contrario.
Il
frinire delle cicale nei prati aveva accompagnato quegli attimi di imbarazzo
durante i quali si era dato dello stupido. Quindi si era sistemato e, presa la
faretra e dieci frecce, era uscito in giardino per dedicarsi al kyudo.
Era
una di quelle giornate che promettevano le migliori cose: il sole non picchiava
troppo forte e i riccioli di vapore si fluidificavano all’orizzonte in una
coltre di seta.
Guardando
il cielo, Taemin non aveva potuto fare a meno di paragonare la sua vita alla
forma delle nuvole: esteriormente corposa, concretamente astratta. Chiunque,
guardandolo, avrebbe stimato una consistenza retta da due gambe magrissime di
forse sessanta chili, dei palmi stretti ornati da cinque, lunghissime dita, un
collo sottile, un busto glabro e una massa di capelli rovosa. Se quel qualcuno,
però, avesse provato a chiedergli come si chiamava, Shusei sarebbe stato
costretto a intervenire e a barricare Taemin dietro a un nome fittizio dai kana sbiaditi. Era così che Taemin
sprofondava nelle voragini del nulla, in un mare di sabbie mobili ineffabile
come il suo essere, come lo scorrere di un fiume in piena su un letto di
ciottoli corrosi dall’acqua e dal tempo.
C’erano
delle mattine in cui si svegliava con le unghie piantate nella carne. Si
torturava i polsi per dieci minuti, poi scavava nella pelle fino a lasciare una
ragnatela di tagli rossi. Infine si rassegnava, ricorrendo all’unico rimedio utile
a sedare quegli attacchi di panico dovuti al non sapere cosa ne sarebbe stato
di lui: Jonghyun.
Suo
padre era l’unica certezza che lo legava a Taemin. Shusei si era insinuato così
bene nel suo corpo da averlo riempito completamente della propria pateticità,
oltre che di un quantitativo gravoso d’aria. E Taemin annaspava, innalzava una
resistenza penosa, si aggrappava disperatamente al suono del suo nome
pronunciato dalla voce di Jonghyun.
Taemin.
Gli ripeteva dentro alla testa.
Taemin.
Un po’ più giù, a cavallo fra la gola e i polmoni.
Taemin.
Nelle profondità del cuore.
Taemin.
Quel
giorno, però, non era riuscito a sentirlo. E la faretra pesava più del solito,
malgrado le frecce fossero la metà di quelle che prendeva ogni mattina.
Scacciò
quei pensieri dandosi di nuovo dello sciocco. E specchiandosi sulle sponde
limacciose del lago, rivolse i migliori auguri a Shusei per i suoi vent’anni.
*
Kibum
lo raggiunse quando l’ultima freccia si incuneò nel tronco dell’albero posto al
di là delle acque melmose della pozza.
«Buondì
Shusei.» lo salutò con uno dei suoi sorrisi stagni. «Come ci si sente a essere
diventato finalmente un uomo[10]?»
Taemin
calò le braccia lungo i fianchi indifferente.
«Come
ieri, direi.» poi, un pensiero. «No, anzi: peggio.»
«E
come mai?»
«Il
ricevimento di stasera[11]… non puoi immaginare cosa darei per
mandarci qualcun altro al mio posto.»
Kibum
ridacchiò sollevando il suo arco ed estraendo un dardo dalla faretra. Quello
rigò l’aria sinistro – forse un monito – impegolandosi nello sguardo perso di
Taemin. La punta scintillò vacua sezionando la luce del sole in infiniti
riverberi che morirono sui loro volti.
«Vorreste
fuggire la festa in vostro onore, mi par di capire.» chiuse un occhio
calcolando la traiettoria. «Provate a vederla in questo modo: finito il
ricevimento nostro padre vi porterà all’Okiya,
e lì potrete affogare i vostri dispiaceri sul seno della donna che più vi
aggrada.»
La
prima discordanza della giornata.
Taemin
storse il naso riluttante, la bocca sbrindellata in una smorfia triste. Il
codice vigente all’interno della famiglia Takahiro voleva che un uomo
ufficializzasse il suo ingresso nel mondo degli adulti giacendo con una geisha durante
la notte del suo ventesimo compleanno[12]: un costume, a suo dire,
tanto dispendioso quanto vizioso, anche se forse sarebbe stato di tutt’altro
avviso se solo avesse provato un minimo interesse nei confronti del gentil
sesso.
Quella
mancanza era un dato di fatto di cui aveva preso coscienza a seguito di
numerosi sogni erotici abitati da camicie sgualcite, cravatte verdi e sguardi intellegibili.
Inutile specificare chi fosse il soggetto attorno al quale ruotavano le sue
fantasie: sarebbe stato come gettare delle foglie secche nel fuoco e pretendere
così di spegnerlo.
Kibum,
come tutti d’altro canto, non sapeva niente dei suoi sentimenti per loro padre.
E con un po’ di fortuna così sarebbe stato per sempre, o almeno quelli erano i
propositi. Dubitava sarebbe riuscito a capire, e se non a capire, quantomeno ad
accettare: perché se era vero che giacere con una donna per affermare la propria
crescita era immorale, allora sperare che quella crescita scaturisse da una
notte di passione con Jonghyun era anche peggio. A complicare la faccenda c’era
quel bozzolo di gelosia smunto che Kibum aveva eretto intorno a sé: denso,
vischioso, incatramato nei ricordi d’infanzia e nella predilezione che Jonghyun
nutriva nei confronti di un figlio illegittimo.
Che
Kibum volesse bene a suo fratello era innegabile. Vedeva in lui un modello, un
esempio, qualcuno da eguagliare. Shusei era la persona più amabile del creato:
quando i medici lo avevano costretto a mettersi le stecche di ferro alle gambe
per correggere la postura a X [13], lui ne aveva indossate un paio a
sua volta per sostenerlo ed aiutarlo a reggere il dolore. E gli aveva insegnato
a suonare il fue, e gli aveva portato
di nascosto una pinta di amakuchi
perché così gli aveva chiesto al suo ultimo compleanno.
Come
in tutto, ovviamente, Taemin aveva imparato tardi che in ogni cosa c’era un
“ma”. Certo era che mai si sarebbe aspettato che nel caso di Kibum i “ma”
fossero addirittura cinque.
Il
primo “ma” si incarnava in Woohee, che aveva interrato nell’animo del figlio la
paura di vedere l’eredità di Jonghyun passare a un estraneo.
Il
secondo erano i costumi che, malgrado sancissero l’obbligo di transitorietà dei
beni a Kibum, lo soffocavano nelle spire di responsabilità che non sapeva
ancora se volersi accollare o meno.
Il
terzo era il complesso di inferiorità, consolidato nel corso degli anni dal
crescere delle abilità artistiche di Taemin e dal perire delle sue mai fiorite.
Il
quarto era la gelosia, il sentirsi nettamente inferiore al fratello davanti
agli occhi del padre e desiderare di essere lui.
Il
quinto, infine, era la finzione, il fatto che Kibum idolatrasse, e al contempo
odiasse, un ragazzo che nemmeno esisteva. Questo, forse, era il rovescio più
doloroso di tutti.
Kibum
non ricordava niente dei suoi primi tre anni di vita, com’era giusto che fosse.
I primi barlumi di immagini e suoni legati alla vita vedevano un ragazzino di
cinque anni dinoccolato, degli occhi eccessivamente grandi e un nome, Shusei,
al quale aveva imparato ad associare la figura del fratellastro. Taemin era un
estraneo, qualcuno che lui non conosceva, che loro madre voleva dimenticare e
che Jonghyun salvava, senza saperlo, ogni volta che ne pronunciava il nome.
Taemin
era un burattino senza vita e sogni, legato anima e corpo alle dita di Jonghyun
tramite dei fili invisibili d’amianto e amore.
«A
proposito, stavo quasi per scordarmene!» la freccia si staccò dall’arco rigando
l’aria prepotente. Tre secondi dopo trafisse la superficie dell’acqua inabissandosi
sulle sponde del lago. «Mannaggia. Comunque: i nostri genitori mi hanno detto
di comunicarvi che questo pomeriggio passerà la sarta per apportare le
modifiche al completo che indosserete stasera. Siate puntuale.»
«Non
mancherò.» biascicò Taemin assolutamente riluttante.
«E
vi prego, fratello mio, fatemi un piacere immenso: convincete nostro padre a
cambiarsi la cravatta stasera. Non voglio piangere lacrime di sangue vedendolo
con quell’artefatto risalente all’epoca di Murasaki-no-Shikibu.
Ne ha così tante nell’armadio, eppure non le sfiora neanche. Chissà per quale
motivo…»
L’obi stretta attorno ai fianchi di Taemin
si fece improvvisamente rovente.
Certo,
era logico, si disse studiando in attonito silenzio l’armeggiare frenetico di
Kibum con le frecce: suo fratello non poteva sapere quello che lui, invece,
aveva scoperto per sbaglio pochi anni prima. Woohee non gli avrebbe mai
permesso di arrivarci, e di avvelenare così l’opinione serafica che aveva di suo
padre. Quindi non poteva neanche sapere che Jonghyun non avrebbe mai indossato
altre cravatte all’infuori di quella vecchia e logora che pendeva sempre
attaccata al suo collo.
Essere
il garante di un segreto tanto promiscuo appesantiva l’animo di Taemin
spiattellandolo in un mare di fango; allo stesso tempo lo rendeva orgoglioso,
felice di condividere qualcosa di così intimo col padre. E non importava il
fatto che, di tutta quella storia, lui non sapesse che la metà, quella torbida:
era comunque qualcosa di esclusivo che li legava indissolubilmente.
«Ci
sarà affezionato.» disse infine muovendosi per recuperare le sue frecce, quelle
che non erano riuscite a raggiungere l’isolotto al centro del lago.
«Ma
non è un’attenuante! La moda non scende a compromessi coi sentimenti, e per
quanto possa intuire l’importanza che quella cravatta riveste per lui, non
posso in alcun modo tollerarlo!»
«E
da cosa lo intuisci di preciso?»
Kibum
scrollò le spalle preparandosi per scoccare la seconda freccia.
«Da
quel che so è un dono di suo padre. Non lo trovate un inguaribile romantico?»
«Un…
regalo del compianto patriarca?» chiese sorpreso.
«Esatto.
Ho provato a chiedere a nostra madre di svelarmi qualcosa di più sostanzioso,
ma nemmeno lei ha saputo saziare la mia curiosità.»
«Ma
davvero?»
«Sì,
giuro, e se devo essere sincero lo trovo ingiusto. Mi spiego: quei due sono
sposati, ciononostante non si conoscono affatto.» Kibum avanzò di un passo
chiudendo un occhio. «Non voglio essere come loro. Quando erediterò
ufficialmente il titolo di marchese e tutto ciò che mi compete, disporrò che
mia moglie sia partecipe della mia gioia e che si senta mia pari, al contrario
di nostra madre.»
«Ti
sbagli, Satoshi: sono convinto che nostro padre ami la marchesa. È solo un po’
burbero, per questo gli riesce difficile esprimere i suoi sentimenti.»
Kibum
non gli rispose, non subito perlomeno. Infiocchettò i polpastrelli alla corda
di crine tirando con forza, finché la punta della freccia non sfiorò l’asta
piegata di legno.
«Nostro
padre ama solo voi, fratello.»
E
la freccia volò, trapassò le acque centrando il tronco dell’albero, spezzando
quella che Taemin aveva lanciato pochi attimi prima.
# Kyoto, 21st
March, 1913
Dust’s Memories (III)
Fregi perlati bruciavano in alto nel
cielo sfumando gradualmente nel profumo delle foglie misto a quello dei fiori
di ciliegio. Le bacchette d’incenso giacevano inermi, condannate a consumarsi
di una morte lenta e agonizzante sulla lapide del nobile patriarca Seichiro
Takahiro, conosciuto in passato col nome di Kim Dong-Bin, padre di Jonghyun. Uomo
stimato e degno di rispetto, il signor Takahiro aveva lasciato la famiglia
l’anno prima, strappato alla vita da una malattia cerebrale che gli aveva fatto
più volte confondere il figli coi muli e viceversa. L’unica consolazione, per
quanto “magra”, era stata l’ingente somma di denaro che aveva spartito
equamente in tre parti, ognuna destinata a uno dei suoi tre figli, Jonghyun –
Saito –, Nobu – Seungho – e Yuna – ShinHo –. Solo Woohee aveva trovato ingiusta
la distribuzione, sottolineando quanto fosse stato villano ritenere Jonghyun,
il primogenito, uguale al fratello minore e, ben più grave, a una donna. Fortunatamente
i tre, muniti d’eleganza e di pazienza, avevano fatto orecchie da mercante,
annuendo addirittura ai suoi capricci e spigandole, col massimo garbo, che non
potevano nulla contro le decisioni prese dal defunto.
Nascosto dietro alle gambe possenti di
Jonghyun, fasciate in un paio di calzoni occidentali deplorevoli per
l’occasione, Taemin si contorceva tentando disperatamente di stringere i reni.
Sua madre gli aveva intimato di andare in bagno prima di uscire e non sembrava propensa
ad ascoltare lamentele di alcun tipo. Non sembrava dedita a niente, a dirla
tutta, e lo sguardo annoiato che lasciava vagare di memoriale in memoriale[14]
non faceva che accentuare il suo disinteresse per lo Shunbun no Hi.
Le usanze nipponiche, troppo diverse
da quelle a cui era stata abituata in Corea, simboleggiavano la debolezza del
suo Paese, costretto a espatriare con nuovi nomi, nuove identità e nuove
religioni per sopravvivere. Trovava deplorevole l’assenza totale di templi
confuciani; fastidiosamente molesta, invece, l’abbondanza di quelli dedicati al
culto di Buddha. Al contrario, trovava necessaria la partecipazione a una serie
di riti quotidiani ai quali suo marito non poteva, e doveva, sottrarsi per
compiacere gli acquirenti – e portare a casa i soldi –. Uno tra mille, la
cerimonia del Tè[15].
«Non ho potuto fare a meno di notare
la vettura parcheggiata nello spiazzo qui fuori. È con quella che ci avete raggiunti,
fratello?»
Jonghyun si esaurì in un inchino
profondo lasciando per un istante la mano infreddolita di Taemin.
Accesa una nuova bacchetta, vagliò
scrupolosamente l’interesse di Seungho.
«Un dono del signor Ford.» rispose atono, il ciottolato pressato
contro le ginocchia.
«State parlando del presidente della Detroit Ford Motor Company? Quell’Henry Ford?»
«Proprio lui. Ti sorprende la cosa?»
«Mentirei se vi dicessi il contrario.
Voglio dire, non capita tutti i giorni di vedere una Ford T qui in Giappone! Uno splendido modello, davvero.»
Sapevano entrambi quale fosse lo scopo
del peregrinare ammirato dei discorsi di Seungho, brillava di una luce beffata
sul suo volto. Sarebbe stato solo l’ennesimo pungolo d’invidia svaporato presto
nei fumi aromatici d’incenso, troppo alacre per lasciare tracce del suo
passaggio.
Jonghyun pensò di poterlo sopportare,
per questo tacque. Loro sorella, al contrario, assottigliò le labbra in segno
di protesta, memore del luogo e della circostanza per cui si trovavano lì. Fu
il suo esser donna a frenarla - nonché ultima ruota del carro – dall’avanzare
una timida protesta.
«Mi è giunta voce che la General Motors sta opponendo una
concorrenza spietata alla Detroit. Vi
risulta?»
Si tolse di dosso quella prima
frecciatina con una scrollata irriverente di spalle.
«Così sembrerebbe…»
«E dato che le vendite in America non
hanno fruttato i proventi sperati, Ford
ha pensato di andare a cercarli altrove. Molto astuto.»
Jonghyun non rispose; al suo fianco,
Kibum disegnava parole sgrammaticate con un bastoncino nella terra umida.
«Ma ditemi, fratello: come ha fatto il
famosissimo Henry Ford a giungere a
voi? Sapeva forse che dispendete profitti assai più interessanti di un misero
pugno di dollari?»
Cadde il silenzio.
I due si guardarono spietatamente a
lungo: Jonghyun conosceva la situazione in cui versava la compagnia di Seungho,
una piccola ditta d’automobili arroccata su misure protezionistiche che la
stavano affossando. Stringere un’alleanza con un pilastro economico come la Detroit era il sogno mai proferito per
paura di vederne scomparire la possibile realizzazione. Quella conoscenza con Ford doveva bruciargli come salsedine
sulle ferite, incarnata in un’invidia rancida che lo avrebbe condotto alla
deteriorazione.
Taemin ascoltava inquieto il dialogo
fra gli adulti senza capire. Lo faceva per evadere la necessità impellente che
gli bruciava la vescica. E quando realizzò di essere arrivato al limite, si
fece coraggio e tirò la manica del kimono di sua madre.
«Signora Natsume…» sussurrò soffocando
le lacrime.
Lei chinò lo sguardo intollerante.
«Che vuoi? Non vedi che tuo padre sta
parlando?»
«Sì, ma-»
«Taci e torna al tuo posto. Qualsiasi
cosa tu abbia da dire può aspettare.»
Taemin raggelò: no, non poteva, e i
crampi allo stomaco ne erano la conferma. Tuttavia annuì e, chinando il capo,
si affiancò mesto a Jonghyun.
Che dolore indicibile.
«Se vuoi la macchina, fratello, non
hai che da chiederlo.» replicò Jonghyun scivolando in un sorriso
accondiscendente.
All’udire quelle parole, Woohee reputò
necessario esporre il proprio discontento.
«Marito mio, posso chiedervi di
valutare attentamente i pro e i contro della vostra scelta? La macchina ci
serve, lo sapete bene. Oltretutto sarebbe maleducato passare a terzi un dono
che il signor Ford ha fatto
esplicitamente a voi. Non ho ragione?»
Jonghyun sospirò tediato, molestamente
infastidito.
«Il signor Ford ha promesso di farmi avere il nuovo modello non appena uscirà
sul mercato i primi di aprile. Direi che possiamo permetterci di donare la vettura
a Seungho, non trovi?».
Fu così che la gentilezza precipitò
nella vendetta.
Quelle parole, di cui era possibile,
volendo, afferrare il retrogusto amaro dall’eco stemperato e incatramato nell’aria,
piegarono Seungho a un dolore ben più grande del precedente. E fu allora che
capì: niente e nessuno sarebbe mai stato in grado di distruggere Jonghyun, fargli
perdere l’equilibrio e godere della sua rovinosa caduta. La fune sotto i suoi
piedi, per quanto sottile, avrebbe retto il peso dei suoi peccati permettendogli
di proseguire a testa alta. Senza sbagliare. Senza amare. Ed era avvilente
constatare che l’unica cosa di cui potesse gioire era la lunghezza infinita
della corda, irta di chiodi acuminati che bucavano la sua pelle passo dopo
passo. Perché Jonghyun soffriva, perché la vita che aveva scelto lo poneva ogni
giorno davanti a uno specchio e a un confronto che, per quanto lo desiderasse,
non poteva eludere.
Sopravviveva, sì. Ma la sua condanna
era eterna, com’era senza tempo la conflittualità che li univa.
Il Wagasa
di Woohee roteò allegro all’udire le parole del marito, bianco e rosso fusi
in un rosa abbagliante.
«Oh beh, in tal caso fate pure ciò che
più vi aggrada.» cinguettò estasiata volgendo un ultimo inchino al memoriale
del defunto. Quindi si voltò verso il figlio e lo richiamò. «Kibum, rendi
omaggio a tuo nonno prima di andare.»
La rabbia di ShinHo, che sino ad
allora era rimasta in disparte per non infastidire i fratelli, crebbe oltre
l’inimmaginabile.
Esaurita ogni ragione e preso il
braccio del piccolo Taemin, spinse il nipote ai piedi della lapide un po’
troppo bruscamente. Poi si concentrò sulla donna.
«Devo ricordarvi io che avete due figli?
Lasciate porgere anche a Taemin un saluto a nostro padre!»
Le guance di Woohee si tinsero di
irritazione.
«Come osate! I termini di cui vi siete
servita per rivolgervi alla sottoscritta sono maleducati oltre ogni dire! Sono
io la madre di Kibum e Taemin, quindi tenete a freno la lingua e ricordatevi di
non impicciarvi negli affari che non vi competono!»
«Siete una donna profondamente
infelice, Woohee. Provo pietà per voi.»
«Risparmiatevela, non so che farmene
del-»
«QUALE OLTRAGGIO! NON POSSO CREDERE A
CIÓ CHE VEDONO I MIEI OCCHI!!»
Il veleno incollato alle labbra
imbrattate di rossetto delle due donne si pietrificò in stupore costringendole
a deporre l’ascia di guerra: era stato Seungho a urlare, a fendere la quiete
purissima che si respirava fra un monumento e l’altro, i ricordi di uomini che
avevano impreziosito il Giappone con le loro personalità e le loro doti.
La scena che, voltandosi, si impresse
nei loro occhi aveva dello scandaloso: una pozza giallognola dall’odore agro
insudiciava il marmo del memoriale del signor Takahiro sotto i calzari fradici
di Taemin. Sul kimono del bimbo, d’un bianco sfavillante, sbocciavano chiazze
scure diramate verso le gambe fino alle ginocchia molli.
Nessuno badò alle lacrime copiose che
solcavano come aratri la terra il volto del piccino, nessuno parve notare il
terrore impresso nei suoi grandissimi occhi, ora puntati verso il basso e
traboccanti di disagio.
Nessuno.
Tranne Jonghyun.
«È UNA VERGOGNA! QUESTO VANDALO HA
URINATO SULLA TOMBA DI NOSTRO PADRE!!» strillò ShinHo additando il fautore della
disgrazia. Dopodiché si rivolse a Woohee, collerica. «Ditemi, è questo il modo
in cui vi prendete cura dei vostri figli e avete educato loro? Ah, ora so di
poter dormire sonni tranquilli! Non ho mai visto un comportamento tanto deplorevole
in vent’anni di vita, giuro!»
Se le fosse stato possibile, Woohee
avrebbe voluto dissiparsi in un mare d’incenso. Sarebbe stato bello aggirare così
quella scocciatura, lasciando ad altri il compito di occuparsene; facile
disinteressarsi delle sorti del figlio. No, non figlio, perché pensare a Taemin
in quei termini era persino più svilente che assumersi la responsabilità del
suo danno. Certi fatti andavano presi di petto e, Woohee sapeva, non v’era
nessuno tra i presenti in grado di sedare lo sgomento al suo pari. Non le
rimaneva altro da fare, quindi, che risolvere la questione.
Mosse il primo di una breve serie di
passi verso il bambino, ancora impietrito per quanto accaduto. Stupido infante,
neanche capace di quantificare la gravità del suo gesto! Non c’era uomo sulla
faccia della Terra che potesse comprendere l’immensità dell’odio che nutriva
nei suoi confronti, poco ma sicuro!
Quando gli fu davanti, ignorò i piccoli
cerchi concentrici disegnati sulla terra: lacrime. E alzando il braccio al
cielo, pensò ingenuamente che tutti avrebbero approvato quello che stava per
fare, che nessuno avrebbe avuto l’ardore di frapporsi. Fu solo quando si vide
cingere il polso e successivamente spingere in malo modo all’indietro che
dovette ricredersi.
«Voglio fervidamente sperare…» cominciò Jonghyun stringendo
Taemin tra le braccia: la parola “sperare” echeggiò minacciosa sulle sue
labbra. «…che tu non stessi per fare
quello che stavi per fare.»
Woohee sgranò gli occhi terrorizzata,
il mento scosso da tremiti umiliati: ecco, se c’era una cosa che odiava più di
Taemin quella era l’amore che suo marito rivolgeva a lui anziché a lei. Se
Jonghyun l’avesse amata la metà di quanto amava il figliastro, probabilmente
non avrebbe sofferto in maniera tanto cruda.
«I-io…» provò a improvvisare delle
scuse, qualsiasi cosa sarebbe andata bene, ma il muro contro cui si infranse il
suo debole approccio, connaturato nella schiena rivoltale da Jonghyun, la fece
desistere subito.
Taemin, ancora sconvolto per
l’accaduto, guardò il padre con occhi gonfi e colmi di infinita tristezza.
«P-padre… i-io ho cercat… ho provato a
trattenermi, ma… i-io… mi dispiac-»
Si interruppe: Jonghyun si era sfilato
la giacca del suo lussuosissimo completo e gli aveva alzato la gonna del
kimono. Credette di morire per la vergogna quando prese ad asciugargli le gambe
sporche di urina con le maniche dell’ indumento.
«P-padre, n-non lo fate… n-non
voglio…»
«Va tutto bene, Taemin, non
preoccuparti. Ci penseranno le domestiche a pulire dopo.» gli rispose lui
abbozzando un sorriso dolce.
«M-ma n-non è questo il punto!»
«No, hai ragione. Non è questo il
punto.» Jonghyun accarezzò un’ultima volta la pelle gelida delle sue gambe
prima di alzarsi e tirarselo contro il torace. «Il punto è che questi adulti
sono davvero dei gran maleducati. Prima hai provato a dire a Woohee che avevi
necessità di andare al bagno, vero? E lei non ti ha ascoltato.»
Taemin non fece in tempo a metabolizzare:
la paura di accrescere la rabbia della marchesa lo frenò dal dire qualsiasi
cosa, oltre che permettergli di escogitare un modo per negare la cosa.
Jonghyun accolse quel silenzio con crescente
acredine.
«Lo immaginavo…» quindi si voltò,
freddò sul nascere eventuali commenti ed annunciò: «Possiamo andare. La nostra
visita si conclude qui.»
Taemin incollò la fronte contro il
petto dell’uomo e chiuse gli occhi per non vedere gli sguardi certamente
arrabbiati degli zii e di sua madre.
L’ultima cosa che vide fu la cravatta
verde che Jonghyun indossava sempre, quale che fosse la circostanza. E in
qualche modo riuscì a calmarsi.
# Kyoto, 18th
July 1925
Drops’ Present (3)
Woohee
serbava pochi ricordi felici dentro al cuore, affastellati in ordine
prettamente casuale come libri su di una mensola troppo alta per poter essere
raggiunta. Rimanevano lì, sepolti da uno strato misero di polvere, a vigilare
senza muoversi per caderle in seno al petto. Erano talmente lontani che lo
sguardo si perdeva nel cercarli, d’una pigrizia quasi scocciata.
Aspettare
era un inciampare perpetuo nel nulla, Woohee lo sapeva bene. Per questo
ingannava il tempo coltivando rancore, inscatolandolo dentro alla testa in un
cofanetto privo di chiusure.
A
dispetto delle apparenze non era affatto cattiva: era il mondo in cui viveva a
volerla spietata, una condizione sessista che sin dalla nascita l’aveva obbligata
a chinare il capo. Veniva da una famiglia ritenuta dal volgo altolocata,
mediocre se posta a paragone con l’aristocrazia. Unica donna del casato Lee,
era cresciuta schiacciata dal peso di tradizioni maschiliste che avevano
soffocato presto la sua ingenuità e le sue speranze.
Jinki
era sempre stato il favorito del nobile patriarca. Jinki, il ragazzo amato da
tutti per la sua spensieratezza, per la sua incapacità di guardare al domani
senza aver assaporato appieno le gioie del presente.
Woohee
non era così, non lo era mai stata: viveva proiettata nel futuro, divorata da visioni
infelici in cui si sentiva togliere la terra da sotto i piedi, assillata da
incubi terrificanti all’insegna della povertà e dell’abbandono. Era una codarda
che si atteggiava a gran dama, i cui modi di fare sgradevoli altro non erano se
non la manifestazione delle sue paure più torbide. La sua gelosia si rosolava
in quella verità, che certo non le rendeva onore ma, se non altro, le puliva la
coscienza.
«Mi
cercavate madre?»
Woohee
distolse lo sguardo dalla fila indiana di naga-noshi
accatastata sul mobiletto intarsiato d’oro e d’ottone, doni pusillanimi e sgraditissimi
che aveva ricevuto alle nozze.
Farlo
le dispiacque un po’.
«Sì.
È mio desiderio scambiare due parole con te.»
Kibum
si accomodò sullo zabuton con grazia
innata, tanto perfetta da sembrar calcolata. Il capelli fulgidi danzarono mossi
dagli spiragli della brezza estiva, intrufolatasi nella dimora attraverso una
piccola fenditura del vetro che dava sull’esterno.
Gli
alloggi di Woohee godevano della migliore vista sul giardino. La loro posizione
li rendeva ottimi per concedersi qualche istante di placido riposo e dedicarsi
alla cura dello spirito. Il trionfo dei colori estivi portava quiete nell’animo
della donna, offuscata però dal via vai incessante di Taemin, che quel giorno
si stava intrattenendo esageratamente a lungo nella disciplina del kyudo.
La
marchesa digrignò i denti inquieta: la bellezza del ragazzo si faceva di giorno
in giorno più palese, splendeva di un’innocenza incorrotta, apparentemente
aliena alle volubilità umane. Le era impossibile non ammettere la piacevolezza
del volto, la cui grazia rammentava quello puro di una vergine. Che dire poi
della postura, esile e al contempo decisa? O del modo in cui sollevava le
braccia al cielo, quasi stesse per spiccare il volo?
Niente,
ecco cosa. Non vedeva niente in lui
che sfiorasse il concetto di sgradevole.
Le sarebbe bastato poco: una lentiggine, un piede piatto, un leggerissimo
strabismo, la più stupida delle sottigliezze per godere della sua imperfezione,
ed evitare così di guardarlo con gli occhi di chi guarda il proprio dio. Un dio
crudele che ad alcuni dava tutto, ad altri niente.
«Ebbene?»
Sospirò
scacciando quei pensieri tristi dalla testa.
«Ti
ho visto parlare con tuo fratello prima. Gli hai riferito della sarta?»
Kibum
annuì ignorando il gravare del proprio peso sulle caviglie[16].
«Certo,
mi ha garantito la sua puntualità. Sapete, disquisendo pocanzi, mi ha confidato
di essere un po’ preoccupato per il ricevimento di stasera, per quanto io non ne
veda uno di motivo valido.»
«Cosa
te lo fa pensare?»
«Suvvia
madre, stiamo parlando di Shusei! Se escludiamo qualche piccolo incidente
legato agli anni dell’infanzia, non ha mai arrecato dispiaceri alla nostra
famiglia.»
Mai
verità fu più sentita.
Woohee
annuì persa nella contemplazione del figlio. Kibum era un ragazzo di buona
indole, abbastanza intelligente da separare i gusti personali e le antipatie
dall’oggettività. Quella dote gli aveva permesso di legarsi a suo fratello più
di quanto nessuno avrebbe detto guardandoli, e di gioire dei suoi successi con
stima sincera.
Un
bel giovane, un buon giocatore di go,
uno studente diligente… sì, Kibum era il figlio senza lodi né frode che ogni
donna sarebbe stata lieta di crescere. Non odioso, non capriccioso e
piacevolmente attratto dalla moda, era il classico bambino senza tempo che mai
avrebbe disubbidito a sua madre.
La
parola giusta per descriverlo era mediocre,
il che non era assolutamente, nella maniera più totale, una cosa negativa: la
sua mediocrità permetteva a Woohee di riscattarsi, di far valere se stessa
attraverso le sue parole, i suoi gesti e di diventare così un uomo, anche se per poco. E le sarebbe bastato per essere felice,
se solo non ci fosse stato Taemin tra i piedi. Perché Taemin non era affatto mediocre, e la sua perfezione si cibava
della normalità di Kibum senza farsi complimenti.
«Sono
riuscita ad accaparrarmi un completo assai elegante per il ricevimento di
stasera, di gran lunga più bello di quello di Shusei: ci saranno un sacco di
giovani della sua stessa età scortati dai loro genitori, quindi vedi di non
sfigurare, te ne prego.» disse versandosi dell’acqua di sorgente nel bicchiere.
«Dimostra a tuo padre che sei il legittimo
erede dei Takahiro.»
Avrebbe
voluto dire degno, ma sarebbe stata
una bugia. Non aveva il cuore di illudere suo figlio.
«Non
temete madre, farò del mio meglio.»
Woohee
pregò affinché fosse sufficiente.
«Vogliate
togliermi una curiosità…» Kibum si sistemò l’haori umido che non aveva avuto modo di cambiare. «…ma il completo
più bello non spetterebbe a Shusei? Non è egoista da parte nostra privarlo di
un tale onore?»
La
donna si esibì in una delle sue peggiori smorfie.
«La
solidarietà non ti aiuterà a legittimare ciò che è già tuo, Kibum. Non mostrare
pietà per nessuno all’infuori di me, ricordartelo.»
«Ma
cosa indosserà Shusei?»
«Un
frac di tuo padre. È per questo che abbiamo provveduto a chiamare la sarta, per
apportare le modifiche necessarie. Basta a tranquillizzarti?»
«Perdonate
la mia insolenza, madre, ma io davvero non riesco a capire: essere più piacente
di Shusei non potrebbe irretire il marchese? E comunque, come da voi detto,
l’erede legittimo sono io – la voce
gli tremò nel dirlo, sporca traditrice – quindi dubito che questo gesto possa
condurci da qualche parte.»
Se
fosse stata sola, Woohee sarebbe scoppiata a ridere. Oh, talvolta l’ingenuità
di suo figlio era semplicemente senza eguali! C’era di che piangere da quanto
era stolto!
«Lascia
fare, Satoshi: so quel che dico. Devi solo continuare a fidarti di me come hai
fatto finora.» Quindi volse lo sguardo all’esterno, augurandosi che il
figliastro percepisse il suo odio.
Nel
frattempo, Taemin aveva smesso di allenarsi: seduto sull’erba, a gambe
incrociate, guardava assorto un punto impreciso della reggia, qualcosa che, a
giudicare dal suo sguardo, doveva essere incredibilmente interessante.
Woohee
avrebbe pianto la sua curiosità, lo sapeva: eppure l’idea di dare una sbirciata
non le sembrò lì per lì tanto balzana.
Non
fece niente per impedirlo, nulla per prevenirne i mali: seguì la direzione
indicata dallo sguardo del ragazzo, che all’oscuro di tutto continuava a godersi
lo spettacolo – qualunque esso fosse –. E giurò di morire quando la sua ricerca
terminò con l’intercalare di Jonghyun sulla sua traiettoria, occupato a
sbrigare alcune pratiche di lavoro.
«Che
tu sia maledetto…» farfugliò a voce così bassa che, sebbene le fosse di fronte,
Kibum non riuscì a udire alcunché.
Da
quanto lo sapeva? Quanti giorni, mesi, anni erano trascorsi dacché aveva
scoperto l’amore che Taemin nutriva per suo padre? Era così lontano da
sembrarle eterno. Un amore fatto di sguardi profughi, desideri soffocati nel
rispetto e nella consapevolezza che per loro non avrebbe potuto esserci alcun
futuro. Né ora, né mai.
Se
Woohee sopportava quella condizione era proprio a fronte di quel fatto, che per
grazia degli dei le permetteva di tenersi accanto Jonghyun senza temere una
concorrenza. Perché Taemin era un rivale che non avrebbe mai potuto vincere, lo
leggeva negli occhi di suo marito, nell’affetto smisurato che nutriva per lui.
E non importava quanto grande fosse l’amore che, invece, provava lei nei suoi
confronti: Woohee era e sarebbe sempre stata la donna che suo padre lo aveva
costretto a sposare, un obbligo a cui aveva ubbidito senza battere ciglio. Ciò
non voleva dire ovviamente che la cosa fosse stata gradita. E Woohee soffriva,
lottava disperatamente per convincersi che le bastava avere l’involucro vuoto
fatto di carne e razionalità di Jonghyun, che non le serviva il suo cuore per essere felice. La sua opera di
convincimento, però, era destinata a cadere nella miseria e, ben più triste, a
rialzarsi di volta in volta più debole.
C’era
forse qualcosa di più triste del sapere che le sue speranze erano condannate a
crollare per poi rianimarsi e crollare ancora più penosamente? Woohee non
credeva. Perciò aveva cominciato a frequentare altri uomini, oltre che a
imbruttire i modi: per ottenere la sua attenzione, per riconoscere in lui la
stessa gelosia che lei serbava dentro di sé.
Inutile
dire che i risultati erano stati pietosi.
«State
bene madre?»
La
voce di Kibum la riportò bruscamente alla realtà. Nel mentre, Taemin distolse
lo sguardo dal padre per posarlo sulle acque del lago. Pura casualità.
Fu
allora che Jonghyun si voltò a guardare il figlio, concedendosi un sorriso che
raramente Woohee gli aveva visto dipinto sulle labbra.
Un
pensiero strisciò ostile sulla sua pelle, cingendole la gola fino a quasi
soffocarla. Lo scacciò rapida, dicendosi che desiderare la morte di qualcuno,
per quanto disprezzato, fosse troppo anche per lei.
*
Gentilissimo Signorino,
Con la qui presente spero di non arrecarVi disturbo
alcuno, lungi da me poi rubarVi tempo prezioso che dovreste dedicare allo
studio e all’ardua disciplina dell’Ikebana.
Prendete il mio gesto come il capriccio
di una povera, vecchia pazza, che affranta dalle sorti del suo Paese trova
diletto nello scriverVi queste poche righe.
A dire il vero, sono poche le nuove degne d’esser
menzionate. Vi sarà certamente giunta voce della morte della Nobile Matriarca;
l’unica gioia di cui abbiamo saputo godere si incarna nella consapevolezza che
è stata la malattia a portarsela via - e non un giapponese.
Siate
allegro, giuro: non il più piccolo dolore ha deturpato il sorriso ch’Ella
rivolgeva ai visitatori. Credo di non esagerare quando dico che, trovandoLa la
mattina del fatto, tutti noi abbiamo pensato si stesse burlando dei domestici,
tanto era serena l’espressione dipinta sul suo volto. Non vedete le mie parole
come la mancia che si dà a un mendicante per non farlo morire di stenti oggi e
trovarlo annegato nelle acque gelide del fiume Han l’indomani[17]: la mia non vuole
essere – e ritengo non lo sia – l’ennesima consolazione che Vi avranno
propinato, e che ormai ballerà fiacca sulla Vostra lingua. Suppongo, correggetemi
se sbaglio, di essere l’unico contatto rimastoVi qui a Gyeongseong, ormai: tutti stanno abbandonando la città, e non v’è nulla di più
desolante che il silenzio delle strade, un silenzio stridente se posto a
paragone con lo scalpiccio dei piedi di bambino ancora disegnati nella mia
mente.
Oh,
scusatemi, talvolta mi faccio prendere dalla malinconia, credo sia l’età.
Dopotutto sono solo un’umile donna che avverte l’appropinquarsi inesorabile
della morte pregandone il decorso veloce.
Non
Vi ho ancora chiesto come state: so che la Vostra giovane età vi precluderà la
possibilità di rispondermi, ma lasciatemi sperare nella Vostra gentilezza e
pregare che qualche servitore si presti a scrivere poche righe al Vostro posto.
Sono forse troppo sfacciata a elemosinarVi questo grande piacere? So bene di importunarVi,
ma il tempo incalza e mai vorrei lasciare questo mondo senza sapere di Voi le
migliori cose. Dovete sapere che serbo ancora tutte le bamboline di cartapesta
che eravate solito costruire quando vivevate qui. Una purtroppo è caduta in una
pozzanghera mentre le traghettavo dalla sarangchae alla anchae,
mi scuso per l’incidente.
Mi
domando se ne costruite ancora, se la Signora Woohee Vi aiuta come faceva Vostra
Madre. E il piano? Vostro Padre, Kim Jonghyun, Vi permette di coltivare il dono
che il cielo Vi ha dato? Sarebbe un dolore insopportabile per me scoprire il
contrario. In questo assomigliate molto alla Nobile Lee ShinWa,
Vostra Madre: forse Voi non ricordate, ma anch’Ella era figlia della Musica.
Era per me un immenso piacere ascoltare il suono brioso del suo daegeum, aveva l’incredibile capacità di alleviare i dolori e di sciogliere la
tensione onerosa di noi domestici dovuta all’accollarci i bisogni del casato.
Ma sto parlando ancora di me, oh santo cielo! Sono proprio una maleducata,
vogliate perdonarmi. Ecco, rimedio subito.
Come
state Signorino? Il Giappone Vi aggrada? E la famiglia, i nuovi genitori,
Vostro cugino Kibum? Siate gentile con lui, siete la sua guida ora. Da quel che
so è cagionevole di salute, quindi non affaticatelo troppo coi giochi. E non
mangia il pesce: non commettete l’errore di offrigli del pregiatissimo Katsuobushi perché buttereste dei soldi in qualcosa di cui non saprà che farsene.
Datelo alla Signora Woohee, piuttosto: sapeste quanto ne mangiava da piccina! È
senza dubbio uno dei suoi cibi preferiti.
So
cosa starete pensando: la marchesa non si merita un’unghia, figurarsi del
pregiatissimo Katsuobushi!
Non è nei miei desideri mentirVi o
indorarVi la pillola: conosco la Signora Woohee da moltissimi anni, quindi Vi
assicuro che comprendo il Vostro disappunto. Ma Vi prego di portare pazienza:
siate virtuoso, e sappiate vedere al di là dei modi grezzi e, talvolta,
spiacevoli. Solo così potrete scorgere le qualità innegabili di cui è dotata.
La sua unica sfortuna è stata quella di avere un padre che non l’ha affatto
amata quanto i Vostri genitori hanno amato Voi. Non compatitela per questo, Vi
maledirebbe: siate calmo invece, e sopportate. Un giorno verrete ricompensato.
Vorrei
chiudere così questa breve, apologetica lettera. Non suonerebbe male, vero?
Invece mi obbligo a proseguire, perché c’è un ultimo punto, il più importante,
di cui mi preme parlarVi – con la speranza che farlo non comporti la censura
della qui presente.
Vi
supplico, signorino, ascoltate diligentemente le mie parole: guardatevi da
Vostro padre, Kim Jonghyun, dal suo atteggiamento e dai suoi colleghi di
lavoro. Spiegarvi il perché ora sarebbe insensato, quindi mi riprometto di
farlo non appena avrete acquisito più consapevolezza di chi siete e di chi
diverrete. Ma Vi incito sin da ora a tenere gli occhi bene aperti e a non
cadere vittima del suo innegabile carisma: non potete immaginare quanti uomini
e donne abbiano incontrato una fine irriferibile per causa sua. Non lasciateVi
abbindolare dal mondo da cui proviene, e soprattutto non azzardateVi a metterci
piede. Vogliate risparmiarVi una sorte tanto infelice. Mi auguro comunque
sappia essere un buon padre: dal comportamento di Kibum al funerale dei Vostri genitori,
direi proprio di sì.
Rileggendo
quanto scritto sopra mi rendo conto di aver parlato troppo. Ora Vi saluto
Signorino, non voglio farVi perdere un solo minuto di più. Crescete forte,
mangiate sano e diventate un bell’uomo: spero di essere ancora nel mondo dei
vivi quando compirete vent’anni, non so esprimervi la gioia che mi darebbe
vederVi allora. E ricordate – scusate la pedanteria: occhi aperti su Kim
Jonghyun.
Cordiali
saluti.
Choi KyuMin
˜ 3 aprile 1912
«Non
mi avete mai detto come si chiama…»
La
voce della domestica, una ragazza di presumibilmente sedici, diciassette anni,
escoriò il silenzio sacrale che aveva accompagnato Taemin nella lettura della
missiva recapitatagli dieci primavere prima. Era stato Jonghyun a consegnargliela,
sorvolando sul contenuto disdicevole ed altamente calunnioso. Agli occhi di
Taemin l’episodio non si era rivelato più spregevole dei modi della marchesa, anzi:
trovare il coraggio di fidarsi, come aveva fatto, e lasciargli carta bianca su
cosa pensare o meno di lui era da stimarsi. Perciò aveva ignorato di proposito
le ammonizioni di KyuMin, eludendo domande a cui nessuno avrebbe saputo dare un
parere obiettivo. Del tipo: “che abbia sbagliato a non prestare attenzione ai suoi
consigli?”.
Arrivato
a quel punto, chiederselo era insensato, oltre che dannoso.
Amare
Jonghyun aveva esaurito il suo limite di sopportazione al dolore già da tempo.
«Chi?»
chiese ripiegando la lettera con fare pacato, ma non per questo irriflessivo.
Lei
sorrise: una timidezza contradittoria le illuminò le guance.
«La
donna che vi ha scritto quella missiva. La leggete tutti i giorni, ed è una
sofferenza per me vedervi tanto indisposto sul finire.» poi un’esitazione,
tradita dal picchiettio irrequieto delle dita. «Si tratta forse di una
Signorina cui siete promesso?»
Taemin
rise divertito dalla prospettiva, le labbra afflitte per lo sforzo.
«Assolutamente
no. Mio padre desidera che sia io a scegliere partito un giorno, indi per cui
chi, quando e come.» ripose lo scritto nel mobiletto ai piedi del futon e si alzò, pronto per farsi
aiutare a indossare lo yutaka. «È
un’anziana servitrice che lavorava per la mia famiglia. No, mi correggo: era.»
«Era?
Non sarà morta mi auguro…»
«Purtroppo
sì, e in circostanze… non propriamente
felici.»
Per
non dire barbare.
«Io…
sono terribilmente spiacente, non avrei dovuto irretirla con la mia curiosità.
Disponete di me ciò che volete: non avanzerò alcuna protesta.»
Rimettere
nelle mani di altri il proprio destino era qualcosa che Taemin non tollerava,
per non dire disdegnava. La domanda era dunque perché?, seguita da un numero imprecisato di specificazioni l’una diversa
dall’altra.
Perché
succedeva?
Perché
lo permetteva?
Perché
non se ne lavava semplicemente le mani?
Si
impegnava per costruire di discussione in discussione un rapporto sereno coi servitori.
Non gli sembrava di aver mai assunto arie sprezzanti, o comunque di quel genere
che chiunque avrebbe scampato come la peste; per non parlare delle direttive, raschiate
a un numero vergognosamente basso. Ci doveva essere qualcosa, oltre agli oneri
imposti dal casato, che spaventava i domestici tanto da spingerli
all’autoalienazione, qualcosa che Taemin si proibiva di ricollegare ad altri
che alla madre. E non era cattiveria la sua, o malafede, no: era semplice constatazione
dei fatti, una logica ineluttabile che scagionava Jonghyun da ogni dubbio al di
là dell’affetto che nutriva nei suoi confronti.
Suo
padre era ammirabile: si addossava i dolori, le vite, gli sbagli e
l’inimmaginabile di tutti, famiglia o servitori che fossero, senza emettere il
più morbido gemito o concedersi un solo lamento. Ancor di più era da adorare
per il suo saper essere inflessibile nella maniera giusta per farsi rispettare;
allo stesso modo, accondiscendente quel tanto necessario per farsi amare.
Stasi
perfetta. Equilibrio inscalfibile.
Taemin
si chiedeva spesso se sarebbe mai diventato come lui, cadendo pochi istanti
dopo vittima del disfattismo: no, lui era troppo… ingenuo per meritare
deferenza. Presumibilmente era quello il motivo per cui ogni servitore della
casa lo amava e lo guardava con occhi alterati dall’affetto: vedeva in lui un
agnello prossimo al macello, che certo non avrebbe esitato a immolare le ossa anteponendo
il bene comune al proprio.
Ed
era vero: Taemin lo avrebbe fatto. Peccato che, a differenza di quello del
padre, il suo corpo fosse troppo magro per sorreggere macigni di simile
portata. E l’unico peso che avrebbe voluto sobbarcarsi – felicissimo di farlo –
era al momento imprigionato in un labirinto di cravatte abitato da ricordi
amari. Solo la cravatta verde era salvifica, l’unica a cui suo padre si
aggrappasse per sopravvivere. E Taemin avrebbe venduto l’anima per essere,
anche solo per poco, quel dannatissimo cimelio.
«Di
che dovrei disporre? Non hai fatto nulla di male.» ribatté stanco. Fu una
tortura combattere per non darlo a vedere. «Piuttosto, pensiamo alle cose
serie: tra un’ora arriverà la sarta e la nobile marchesa mi ucciderà se non mi
troverò nei suoi alloggi in orario. Conviene sbrigarci con lo yutaka, mh?»
La
ragazza rinsavì e con un movimento fluido si portò alle sue spalle, il vestito
tra le mani.
«Avete
assolutamente ragione, signorino. Come sempre.»
Su
ciò Taemin aveva i suoi seri dubbi.
# Kyoto, just
another September’s day, 1918
Dust’s Memories
(IV)
Da che mondo era mondo e di pilastri
inscalfibili forse ve n’erano un paio, tra cui la sfericità della Terra e il
teorema secondo il quale la riluttanza dei giovani era direttamente
proporzionale allo sconforto dei professori posti innanzi all’obbligo di
sopperire le loro mancanze, Jonghyun era felicissimo di non aver intrapreso la
carriera scolastica, e grazie tante.
C’era stato un tempo, cucito fra i drappeggi
sfarzosi e un po’ eccentrici della sua adolescenza, in cui si era più e più
volte immaginato dietro a una cattedra subissata da tomi, fogli sparsi e
polvere di gesso. A condizionarlo erano state le parole di un professore, che
vedendo in lui la pazienza stoica propria di due soli mestieri, quello
dell’insegnante e quello della madre, aveva cercato di tramandargli un’eredità
fatta di crisi nevrotiche, notti insonni e raucedine. Erano stati i primi cenni
di demenza senile nell’uomo, da pochi mesi trentenne, a piegarlo a una presa di
posizione drastica, consolidata poi dall’arrivo burrascoso di Woohee e
dall’ingresso nel mondo del lavoro di una zaibatsu.
Quindi no, quello dell’insegnante non
era, né tantomeno sarebbe mai divenuto, il suo impiego…
«Satoshi, smettila di giocare col
calamaio e di pasticciare gli scritti di tuo fratello. Torna a studiare!»
…peccato solo non avesse saputo preventivare
l’arrivo di due figli.
Sistemò la sua hitoe, quindi depose il quotidiano che stava leggendo e si alzò. Le
tazzine di celadon reindirizzarono la
luce riflessa nei vetri della tenuta, opacizzati da un velo di condensa, in un
arcobaleno fioco. Ne osservò la scia evanescente per una manciata di secondi,
giusto il tempo necessario per estraniarsi, racimolare calma e pazienza e
tornare a dedicarsi al figlio. Quello indisciplinato ovviamente.
«Padre mi annoio, questo Platone non
riesco proprio a ficcarmelo in testa! Posso fare una pausa di dieci minuti?
Giuro, non un secondo di più!» Kibum sgranò gli occhi lucidi: era
particolarmente bravo a intortare il prossimo con guaiti ed espressioni addolorate.
Se avesse impiegato un terzo dell’energia sperperata nei trastulli psicologici altrove,
e per “altrove” Jonghyun intendeva lo studio, a quell’ora sarebbe stato se non
pari, forse di poco inferiore a Taemin.
Sospirò aggrottando la fronte.
«E sia. Rimani nei paraggi però: sai
che tua madre non tollera interruzioni di alcun tipo durante le ore di apprendimento.»
Kibum annuì sfoggiando la solennità
tipica dei ragazzini incapaci di vedere al di là del successo, inabili di
ipotizzare un fallimento e le conseguenze.
Faceva strano pensarlo, ma i bambini
erano proprio così: si sentivano tanto più grandi e coraggiosi quanto era più giovane
la loro età. Ed era ironico per Jonghyun guardare suo figlio ed accorgersi che
fra i due quello spaventato era lui. Non Kibum, un fanciullo di appena dodici
anni: lui, Jonghyun, un uomo che ne aveva fatte e viste di tutti i colori per
arrivare dov’era.
Sorrise tra sé e sé: l’ignoranza dei bimbi
era il dono dei prodi. Ecco perché gli eroi dei racconti epici nascevano,
vivevano e combattevano, talvolta pure morivano, in giovane età: perché lo
scorrere degli anni avrebbe sfaldato il coraggio di cui andavano armati per i
campi di battaglia, assorbendo inevitabilmente la loro forza e la loro
spavalderia.
A ben guardare era un compromesso
spietatamente beffardo. I bambini erano sì impavidi - perché ignoranti -: sfortunatamente
erano anche immaturi, oltre che privi di muscoli ed intelligenza. Al contrario,
gli adulti erano esperti navigatori di mondo. Ed era ciò che li bloccava: la
paura di sbagliare, di accollarsi responsabilità, di cambiare.
Paura. Più conoscevano, più
crescevano, più avevano paura.
Kibum balzò in piedi calciando lo zabuton lontano. Un sorriso vittorioso
gli imperlò il volto, disegnandosi acquietato sugli sdruccioli di stanchezza dovuti
alle fatiche dello studio. Muovendosi di un passo verso l’uscita, si ricordò
improvvisamente del fratello ancora chino sui libri. Quindi tornò indietro.
«Shusei, Shusei, tu non vieni? Voglio
provare a prendere una Koi a mani
nude! Mi aiuti?»
Taemin piegò a forza il capo, restio
all’idea di doversi fermare ora che forse, e sottolineava forse, stava cominciando a capirci qualcosa.
«Scusami Satoshi, ma preferisco
restare. Al limite ti raggiungo dopo: mi porto avanti qui, così poi ti spiego.»
Kibum parve apprezzare i risvolti.
Sorrise.
«Sei il migliore Shusei, lo dico
sempre io! Allora vado: mi raccomando, conto su di te!» detto ciò fece scorrere
gli shoji della camera, trottando
verso il lago percosso dal frinire bonario delle cicale e dal gracidare dei rospi.
Un volta lontano, Taemin incollò nuovamente
lo sguardo sui fogli adagiati in ordine sparso sul tavolo, e con un gesto
esasperato della mano, prima posata sulle ginocchia, si grattò la testa. Un
rivolo di sudore gli rigò la pelle indugiando sulla fossetta del mento, per poi
passare giù, alla giugulare, alle clavicole. Le labbra, talvolta serrate,
talvolta dischiuse, succhiavano inappagate la capoccia del pennello, mentre i
denti ne mordicchiavano l’estremità affamati. Infine gli occhi, rossi e gonfi, andavano
e tornavano sulle stesse parole e frasi del testo, le più difficili.
Jonghyun guardava affascinato il ragazzo
da una decina di minuti quando la pendola a ridosso della parete scoccò le
quattro e mezza.
Trasalì sbigottito, i vestiti
improvvisamente scomodi. Poi volse lo sguardo di nuovo al figlio, deglutendo. E
incespicò nel ripetersi, constatando che le sue labbra erano bagnate di saliva.
E piene, più carnose di quelle di Woohee. Nemmeno le geisha che aveva visto a
Tokyo in uno dei suoi viaggi d’affari gli avevano offerto bocche tanto deliziose.
Forse a rendere invitanti quelle
labbra non era neanche la forma, bensì il fatto che gli fossero precluse.
Perché era risaputo che gli uomini desideravano ciò che non avrebbero mai potuto
avere.
Taemin rientrava senza dubbio nella
categoria di cose e persone dalle quali avrebbe dovuto tenersi alla larga. Per
i santi Kami, aveva solo tredici
anni! Era un ragazzino, un bimbo che col passare del tempo sarebbe sbocciato in
un meraviglioso uomo: la società non avrebbe visto di buon occhio un’eventuale
relazione – a meno che questa non fosse un semplice diletto, niente più di una
banale fuga dalla realtà –. Come se non bastasse, perché il sesso e la
differenza d’età non erano già un problema invalicabile, Taemin era addirittura
suo figlio! Adottivo, certo, ma pur sempre un figlio. Tra l’altro, per quale astruso
motivo si stava ponendo quella serie di ammonizioni? Non c’era niente da riprendere
perché, poco ma sicuro, non era né mai si sarebbe innamorato di lui. Suvvia,
era semplicemente ridicolo: innamorarsi di un infante! Avrebbe meritato di
bruciare all’inferno solo per averci pensato.
«Non desideri fare una pausa anche tu?
Sembri molto stanco…» disse cacciando quei pensieri sconvenienti.
Taemin bofonchiò un “no” a labbra
strette, le sopracciglia aggrottate per lo sforzo.
«Sapete, ha ragione Kibum: questo
greco è davvero ostico. Se parlasse come mangiava a quest’ora sarei fuori con
lui a godermi gli ultimi spiragli d’estate.»
Jonghyun sorrise muovendosi di qualche
passo in sua direzione: quando gli fu innanzi, lesse il contenuto degli appunti
e le note riportate sui fogli. Non gli fu difficile comprendere il nodo della
questione: fu la calligrafia pulita e leggermente spigolosa a permetterglielo.
«Le virtù platoniche?» chiese
sedendosi al suo fianco. Le loro gambe si sfiorarono appena.
Taemin annuì. Dopodiché gli porse gli
scritti riguardanti Confucio.
«Se devo essere sincero, non vedo un
punto che sia uno in comune fra i due. Ma toglietemi una curiosità: anche voi
avete studiato queste cose per diventare il dirigente di una Zaibatsu?»
«Certo che sì. E ritieniti fortunato a
non aver ancora incontrato Aristotele.»
«Esistono modi più efficaci di
confortare il prossimo, sapete?»
«Esistono anche modi più efficaci di
fronteggiare lo sconforto.» rise accarezzandogli la testa: la trovò
piacevolmente morbida, benché i capelli fossero un viluppo di spine. «Vediamo
un po’ se ti posso aiutare. Cosa non ti è chiaro?»
Quello che voleva essere un aiuto
scivolò presto in un colpo al bassoventre.
«Suonerei stupido se vi rispondessi
tutto?» ammise calpestando il proprio orgoglio. Beh, in fin dei conti era la
verità.
«Suvvia ragazzo, non fare di tutta
l’erba un fascio.»
«Avete troppa considerazione di questo
idiota, padre. Siate più obiettivo in futuro, vi risparmierete dispiaceri.»
«Obiettivo? Cosa ti fa credere che non
lo sia?»
Una smorfia prese vita sulle sue labbra.
«Il fatto che siete troppo buono
forse?»
Jonghyun rise forte, lusingato dalla
visione aulica che suo figlio aveva di lui.
«Ti sbagli. Ho fiducia nelle tue
capacità e nella tua serietà. Sei tu quello troppo severo con te stesso.
Dopotutto sei rimasto qui a studiare e non hai seguito tuo fratello, no?»
«Ve l’ha mai detto nessuno che avete
l’incredibile capacità di vedere il buono persino dove non c’è? Eppure lo
sapete che non faccio niente di più di quanto ci si aspetta da me. Oltretutto
Kibum è piccolo: arriverà anche per lui il momento in cui preferirà adempiere i
suoi doveri piuttosto che svagarsi.»
Piccolo, certo. Peccato che i due
avessero solo pochi mesi di differenza.
«Mi auguro tu abbia ragione.» e se lo
augurò con tutto il cuore, mettendoci fede nel convincersene appieno. «Ma
veniamo a noi: esponimi i tuoi dubbi.»
Taemin alzò un braccio tediato. Con
uno scatto repentino si aggiustò alla meno peggio su un fianco, la fiacca
impastata tra i denti.
«Presto detto. Dunque: l’etica di
Platone si articola in quattro punti cardine che corrispondono al controllo
delle passioni: la temperanza, la saggezza, il coraggio e la giustizia. E fin
qui direi che ci siamo. Ciò che non mi spiego è a cosa servano. Voglio dire: a
cosa porta dominare le passioni con la razionalità? L’uomo non è forse fatto di
desideri? Se questi vengono soffocati, non corre il rischio di alienare il suo
io?»
Jonghyun si massaggiò il mento interdetto:
Taemin aveva un modo tutto suo di approcciarsi alla realtà, quell’occhio
critico che obbligava lo spettatore a modellare le proprie convinzioni a fronte
della linearità del suo pensiero. La continua ricerca di un perché che
districasse le incomprensioni faceva di lui un osservatore attento della vita e
dei processi che regolavano le interazioni fra gli uomini.
«Che tu abbia ragione è innegabile.» rispose.
«Per capire il pensiero platonico, però, devi estraniarti dai folclori del
nostro paese, indi per cui da Confucio, Buddha e dal Tao. In questo caso, un
uomo è virtuoso solo quando riesce a dominare completamente le pulsioni a
favore della ragione.»
«Ma è privo di senso logico! Suvvia
padre, com’è possibile riuscirci? Non sarebbe auspicabile conviverci cercando
un equilibrio fra le due?»
«Il tuo sforzo di vedere un perché nelle
ovvietà è encomiabile.»
«Non posso dire di non apprezzare i
vostri complimenti, ma vi prego concentratevi!»
Fu impossibile non domandarsi quanti
ragazzi della sua età avrebbero ripreso un genitore chiedendogli di evitare
disquisizioni prolisse. Nessuno
probabilmente.
Era incredibile come i ruoli si
capovolgessero quando si parlava o aveva a che fare con Taemin. C’era di che
vergognarsene.
«Facciamo così…» cominciò riordinando
le idee. «Partiamo da Confucio: una volta chiarito il suo pensiero lo
confronteremo con quello di Platone, e che gli dei ce la mandino buona. Va
bene?»
«Come preferite…» bofonchiò lui lascivo
soffocando uno sbadiglio nella manica spiegazzata dello yutaka.
«Bene.» respirò a fondo schiarendosi
la voce con un colpo di tosse. «Cosa sai degli Analecta?»
«So che parlano della pratica che
conduce alla virtù perfetta…»
«…e?»
«…e che tale virtù è divisa in due
rami: il ren e il li. Il ren può essere tradotto come benevolenza, amore disinteressato, e
si può raggiungere praticando la magnanimità, il rispetto, la scrupolosità, la
gentilezza e la sincerità.»
«Molto bene, Taemin. Davvero. E il li?»
«È la pratica delle virtù sopracitate.
Esse si sviluppano in cinque canali relazionali: marito/moglie,
genitore/figlio, amico/amico, giovane/anziano, suddito/sovran-» si interruppe,
il pennino sospeso per aria. Poi, la folgorazione. «Però a pensarci bene anche
questa suddivisione è priva di senso logico.»
Jonghyun sospirò sconsolato. No, forse
la parola giusta per descrivere il suo stato d’animo era esasperato. Decisamente,
quello dell’insegnante non era un mestiere che si confaceva alle sue doti.
«Perché di grazia?»
Taemin sbuffò, le mani intrecciate
sulla fronte, indispettito per la mancanza d’acume del suo interlocutore.
«Come dire… credo che questi canali
possano essere uno solo per alcune persone.»
«Lo ritengo improbabile, ma se sai
fornirmi un esempio concreto potrei rivedere le mie convinzioni.»
Cadde il silenzio.
Lo trovò strano, addirittura
inquietante: suo figlio era solito rispondere nell’immediato, gli capitava
raramente di non sapere cosa dire.
Lo vide indugiare con lo sguardo sulla
superficie lignea del tavolo, disegnare linee spezzate dall’esitazione con la
punta delle dita.
«Io… non vorrei fraintendeste il mio
pensiero. Dopotutto sono solo un ragazzino, ne ho di nozioni da apprendere.
Probabilmente la mia visione delle cose è distorta dall’ignoranza e-»
«Stai tranquillo, non ti giudicherò
male. È plausibile che non esistano risposte e opinioni sbagliate.»
«Se la mettete così…» iniziò, la voce
sublimata in un sussurro dal timore. «…ecco, quando penso a voi, padre, io non
riesco a inserirmi in alcuno dei canali confuciani.»
Il cuore di Jonghyun perse due
battiti.
Fu difficilissimo imporsi un briciolo
di controllo, oltre che respingere la confusione che quelle poche parole
avevano versato sugli innumerevoli fogli sparsi un po’ ovunque. Qualcosa gli
suggerì che lo avrebbe rimpianto, che avrebbe pagato caro il prezzo di quella curiosità:
tuttavia non riuscì proprio a trattenersi dall’elemosinare chiarimenti.
«Cosa… cosa intendi dire?»
Se possibile, le guance del ragazzo,
già rosse, si imporporarono ulteriormente.
«I-io…» balbettò. Poi si ritrasse.
«Non importa. Sono stupidaggini, sì. Torniamo a dedicarci al parallelismo fra
Platone e Confucio.»
«No.»
Si stupirono entrambi della veemenza
con cui aveva risposto, un impeto che non gli si addiceva nella maniera più
totale.
«No… cosa?»
«Non è così che ti ho insegnato: si
finisce sempre ciò che si comincia, quindi prosegui senza farti pregare.»
«Io…» trasse un respiro profondo
contando fino a dieci: avrebbe preferito morire piuttosto che impegolarsi in
certi discorsi. Lo sguardo severo che ricevette, però, infiacchì la sua
riluttanza. Quindi vuotò il sacco. «…quando sono con voi, mi comporto come se
foste mio padre, ma allo stesso tempo mio amico, padrone, senpai e… sì, mio marito. Per me siete
tutte e cinque le cose.» la voce gli si incrinò lacerata dalla paura. «Lo
ritenete… inopportuno, vero? Il mio sentimento nei vostri confronti.»
Jonghyun percepì la gola torcersi sino
a strappargli un gemito di sorpresa. Non riuscì in alcun modo a evitarlo, a
contenere lo smarrimento dovuto a quella dichiarazione: il sangue gli ribollì nelle
vene, e avrebbe giurato di non star esagerando nel credere che di lì a poco
sarebbe collassato. Gli succedeva spesso di sentirsi strano con Taemin al suo
fianco, di avvertire il bisogno impellente di allentarsi la cravatta d’un
tratto incredibilmente stretta. Perché che Taemin gli facesse uno strano
effetto era un dato assodato dinanzi al quale aveva chinato la testa sconfitto tempo
addietro. Detto ciò, era anche vero che mai, e c’era di che ribadire il
concetto di mai, si sarebbe aspettato
una simile dichiarazione. E se da una parte, quella irrazionale, ne era felice,
dall’altra attribuiva l’affetto smisurato che nutriva nei suoi confronti all’età,
o al fatto che comunque fosse l’unico all’interno della casa a dargli amore.
A quel punto però sorgeva un dubbio:
possibile che il suo amore fosse… esagerato? Che scavallasse i limiti
dell’affetto che un padre era obbligato a rispettare per non diventare qualcos’altro agli occhi del figlio?
Quel qualcos’altro lo fece rabbrividire; un po’ per l’orrore, un po’ per
l’emozione.
«Non è questo che mi turba.» cominciò
tastando i primi lembi di un terreno sconosciuto. «Io… posso capire il fatto
che tu mi veda come un amico e un senpai. Con uno sforzo dell’immaginazione posso addirittura
sorvolare sul rapporto sovrano/suddito, per quanto gradirei non fosse così, ma…»
deglutì il nodo di titubanze incastratosi fra le corde vocali. «…ma non riesco
a fare altrettanto col rapporto… marito/moglie.»
arrossì imbarazzato scuotendo la testa: se avesse avuto la facoltà di vedersi
dal di fuori avrebbe trovato ilare il disagio dentro al quale stavano
annaspando. Ancor di più avrebbe riso dell’inettitudine di cui si stava
servendo per spiegare al figlio il suo pensiero.
«Oh…» commentò Taemin dispiaciuto.
«…probabilmente mi sono espresso male. In fin dei conti io non so neanche cosa
significhi amare una donna. L’unico amore che conosco è quello che provo per
voi, padre.»
Certo era che così non migliorava lo
stato delle cose, benedetto cielo!
Dovette aggrapparsi strenuamente al
buon senso per non prendere alla lettera quelle parole.
«Posso sapere… sì, insomma, perché hai
cominciato a vedermi sotto questa luce? Quella del marito?»
Taemin nascose il volto dietro a un
plico di fogli accatastati in malo modo.
«Voi… mi state ponendo in una
situazione a dir poco imbarazzante, lo sapete vero?»
Oh, assolutamente. Eccome se lo
sapeva.
«Non ti giudicherò né riderò, lo
prometto.»
Lo vide indugiare, soppesare il significato
di ogni parola con cura. Quindi si fece forza e, raccolto tutto il coraggio che
aveva in corpo, si confidò.
«È difficile da spiegare…» chiuse gli
occhi eludendo la sua presenza. «…è che ci sono dei giorni in cui mi sveglio
desiderando avervi accanto come quando vi addormentavate sul mio cuscino dopo
avermi letto una fiaba. Oppure… sì, invidio certe attenzioni che rivolgete alla
marchesa in pubblico: quando le prendete la mano ad esempio. O ancora quando…
quando la abbracciate ed indossate gli stessi indumenti[18]. Dite…
dite che desiderare queste attenzioni da parte vostra sia sbagliato?»
Jonghyun non sapeva dare una risposta
a quella domanda. Lo realizzò nel momento in cui si vide prendere la mano del
figlio e stringerla forte.
Perché lo stava facendo?
«Non credo ci sia nulla di… sbagliato, Taemin. Anzi: ammetto di
essere felice di sapere che mi vuoi così bene.»
«Siete sincero? Quindi dormirete con
me la notte? E mi terrete la mano quando passeggeremo per le strade di Kyoto?»
Il sorriso si fece pesante,
innaturale, a tratti doloroso.
«Io… penso sia impossibile, non in
pubblico perlomeno…» e specchiandosi nei suoi occhi addolorati, si affrettò ad
aggiungere: «…però… se lo desideri, possiamo farlo… nel privato. Va bene?»
No, non andava affatto bene. Che
diavolo stava facendo? Da dove gli uscivano certe proposte infelici?
Il ragazzo sorrise riconoscente
illuminandosi di gioia. In quel momento, le loro mani bruciavano d’amore
sincero, innocente.
Jonghyun seppe che avrebbero potuto
rimanere in quella posizione per ore se l’arrivo di Kibum, di ritorno dalle sue
eroiche imprese, non li avesse costretti a separarsi. Allo stesso modo, Taemin
capì che quel compromesso li avrebbe cacciati in guai di cui ora non riusciva a
vedere neppure l’ombra.
Quella fu la prima volta in cui si
riscoprì felice di aver trascurato i suoi doveri. Ciononostante chiese scusa a
Platone studiando i Dialoghi fino a notte tarda.
# Kyoto, 18th July 1925
Drops’ Present (4)
La
signora Takehiko era la donna della porta accanto con la quale sapevi di non
poter sfuggire venti minuti di conversazione uscendo di casa la mattina per
andare al lavoro. La sua predisposizione al pettegolezzo era conosciuta e
temuta in tutte le prefetture di Fu:
la fama che si era costruita svincolava le opinioni personali scadendo
nell’insofferenza, quel genere di intolleranza che, a prescindere
dall’argomento affrontato, faceva di lei una vecchietta odiosa. La situazione
era poi inciampata nell’inammissibile quando il figlio si era trasferito a
Weimar[19] per studiare presso la prestigiosa Accademia di belle
Arti del Bauhaus. Ah, che i cieli la
perdonassero! Vivere dei successi della prole era diventata un’abitudine oziosa
che ripeteva di giorno in giorno quale che fosse il malcapitato tiratole in
sorte. Per sua fortuna, oltre a essere una ciarliera instancabile, era anche
una delle migliori sarte dell’intero Paese: se non era implosa nell’anonimato
nel giro di poco lo doveva unicamente alle sue doti, racchiuse in due mani
scheletriche apparentemente incapaci di sorreggere un talento tanto grande.
Woohee
aveva conosciuto Yuzuru Takehiko una fredda notte di novembre a teatro. I
commenti pungenti delle due sull’esibizione dell’onna-gata si erano incontrati fra i tanti favorevoli intrecciandosi
in una conoscenza proficua: la marchesa si era appropriata indebitamente della
disponibilità dell’ingenua vecchietta turlupinandola di complimenti vuoti; la
sarta, dal canto suo, memore della ricchezza della famiglia Takahiro, aveva
accettato ogni incarico rifilatole pattuendo prezzi vertiginosamente alti
rispetto alla norma. Si era così venuta a creare un’amicizia retta sui
profitti: nel momento in cui questi venivano a mancare, si perdeva il senso e
la voglia di intrattenere una relazione. E per quanto agli occhi dei più la
cosa avesse dell’ipocrita, questa si protraeva senza screzi e litigi da ben
dodici anni.
Quel
pomeriggio, Yuzuru si presentò a casa dei Takahiro con un ritardo di cinque
minuti. Era un’altra delle sue abitudini quella di farsi desiderare senza però
irritare il cliente. La faceva sentire importante, in un certo senso
indispensabile, e si compiaceva quando capitava che la richiamassero la volta
dopo, e quella dopo ancora: ingigantiva il suo ego di dimensioni già
spropositate.
Venne
accolta come di consueto dalla signora Rangiku, di cui conosceva vita, morte e
miracoli. Non che avesse un’esistenza interessante: lei e sua figlia lavoravano
presso i Takahiro da quando il marito, un soldato, era venuto a mancare sul
campo di battaglia sette anni prima[20]. L’unico fatto che aveva in
parte sollecitato la sua curiosità era stata la lealtà incondizionata che
dimostravano per il padrone, Saito, e in particolare per il figliastro, Shusei.
La ragazza, poi, sembrava essere perdutamente innamorata del rampollo
illegittimo, cosa che non aveva stupito Yuzuru neanche un poco. Da stimatrice
del bello quale era e si professava, le era stato impossibile non riconoscere
la perfezione di cui era pregno ogni tratto, gesto o discorso del giovane.
Entrando
negli alloggi della marchesa, si ritrovò innanzi il sorriso ampolloso di
Woohee, che accomodata su una seggiola – probabilmente un souvenir londinese –
sventolava un meraviglioso suehiro
ravvivando la chioma intrappolata in un’acconciatura fatiscente. Grovigli di
fili neri si attorcigliavano in un tsubushi
shimada saldato dai denti di un pettine placcato d’oro e con un fiore
d’ibisco sul dorso. Un oggetto di indubbia bellezza che marcava la grazia e la
finezza estetica di cui la donna si vantava per mari e monti.
A
Yuzuru piaceva la marchesa, la bruschezza cruda con cui si approcciava al
prossimo, priva di fronzoli atti a ingentilirne il carattere d’acciaio. Una
grande donna che, a differenza di molte altre, lottava per non venire
sopraffatta dal pugno di ferro del marito.
«Che
gioia rincontrarvi dopo tanto tempo, signora Takehiko! L’ultima volta in cui ho
avuto il piacere di avvalermi dei vostri servigi risale all’Hinamatsuri!»
Non
percepì nulla nella sua voce che potesse farle pensare il contrario.
Sorrise
compiaciuta evitando lo sguardo inquisitore di Saito, seduto dietro alla scrivania
ed intento a monitorare l’atteggiamento del figliastro.
A
pensarci bene era strano: il marchese non rivolgeva mai attenzioni, vere o
false che fossero, alla moglie. Yuzuru aveva impiegato anni per convincersene,
e la indisponeva il silenzio ermetico contro cui aveva sbattuto il naso più
volte. Ovviamente aveva provato a indagare e a raccogliere informazioni, ma
nessuno fra i domestici aveva osato sbilanciarsi in dichiarazioni che avrebbero
potuto ledere al delicato equilibrio su cui si puntellava l’armonia familiare. C’era
un muro frapposto tra il signor Saito e il mondo, irto di asperità di ogni tipo
che rendevano impraticabile la scalata: l’unico a cui era permesso entrare nei
suoi pensieri – seppur parzialmente, perché le occhiate fuggiasche e dubbiose
del figlio lasciavano a intendere il suo disagio – era, per l’appunto, Shusei.
Tutto
ciò rinvigoriva la curiosità di Yuzuru: più gli ostacoli crescevano, più i
misteri si infittivano, più la sua fame di pettegolezzi chiedeva risposte.
Erano trascorsi anni dacché aveva posato gli occhi sul mistero che regolava gli
affetti tra i membri della famiglia Takahiro. C’era il figlio Satoshi, il meno
interessante, che viveva all’ombra del fratello maggiore. Poi c’era la marchesa
Natsume, anch’essa estranea alle dinamiche e ai fatti, tagliata fuori con
sgarbo dal marito. E qui le cose cominciavano a farsi piccanti: ecco il
marchese, del quale però era impossibile carpire i pensieri, indi per cui da
scartare ai fini della sua “ricerca”. Si approdava così all’unico appiglio
rimastole, Shusei, il bellissimo ragazzo che aveva strappato le simpatie di
tutti dentro e fuori il casato, comprese quelle del padre. Se voleva giungere a
capo della faccenda, il figliastro rappresentava indubbiamente la chiave per
farlo.
Ma
come?
«Il
piacere è reciproco, signora. Vi trovo in forma smagliante, davvero. Non ho mai
visto un hadajuban tanto bello quanto
quello che indossate. » cinguettò posando la borsa a terra e rivolgendole un
inchino: meglio rimandare le indagini a dopo, ora aveva altro di cui occuparsi.
Perché tutto si poteva dire di lei tranne che fosse una sarta inefficiente.
«Oh,
voi sì che avete buon gusto! Quando l’ho visto mi sono detta che doveva essere
mio a tutti i costi. Sapeste quanto mi è costato!»
«Lo
credo bene: persino uno stupido saprebbe riconoscere la qualità innegabile del
cotone con cui è stato fatto.» estrasse il cofanetto degli aghi e degli spilli.
Infine prese il metro, stipato in un taschino interno del bauletto. «Ma veniamo
a noi: dal tono della vostra chiamata ho percepito una certa urgenza nelle
vostre parole…»
«E
avete percepito bene: mio figlio Shusei oggi compie vent’anni, e stasera
terremo un gran ricevimento per celebrarlo come si conviene.»
«Me
ne rallegro.» rispose colpita: e così il piccolo Shusei era diventato un uomo
alla fine. Chi l’avrebbe mai detto che quel giorno sarebbe arrivato tanto
presto?
Posò
lo sguardo sul frac abbandonato sulla scrivania, analizzando meravigliata le lunghissime
code di rondine penzolare a lato.
«Lasciatemi
indovinare: il motivo per cui avete chiesto di me risiede nello splendido
completo alle vostre spalle.»
«La
vostra perspicacia vi rende onore.» Woohee prese la giacca per i risvolti di
seta aprendola completamente. «Ebbene sì: questo frac è di mio marito, e
gradirei ne riadattaste le misure su Shusei. Come potete ben vedere, mio figlio
è molto più alto del marchese. La cosa sconcertante è che non ha ancora smesso
di crescere! Dove vorrà mai arrivare questo benedetto ragazzo?, mi chiedo. Solo
gli dei lo sanno.»
Qualcosa
nel sorriso esageratamente allegro della donna freddò il suo entusiasmo.
Oltretutto…
«Scusate
se mi permetto, ma…» cominciò dubbiosa. «…non sarebbe stato conveniente
comprare un completo nuovo al ragazzo? Riciclarne uno del padre per
un’occasione tanto importante non-»
«È
stato Shusei a proporlo. Non pensate avrei guardato ai sen per prendergliene uno!»
Il
tono brusco e il silenzio dimesso del figlio la persuasero a lasciar cadere
ogni perplessità, più per paura di incombere in un litigio che per fiducia.
«In
questo caso non rimane che metterci al lavoro! Vieni qua ragazzo, fatti
guardare un po’…»
Taemin
obbedì portandosi al centro della stanza. Le sorrise timidamente porgendole il
vestito, quindi ciondolò sul posto impacciato mentre Yuzuru faceva scorrere il metro
da sarta sulle sue gambe. Annotò i primi dati sul taccuino: mai avrebbe creduto
sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe invidiato le gambe di un giovinotto!
La rincuorò sapere che quella condizione era comune a molte altre donne.
«Avete
un corpo invidiabile, signorino. Quanto siete alto di preciso?» chiese stupita.
Lui
si grattò le orecchie imbarazzato, il sorriso condensato nella più genuina
delle gratificazioni.
«Io…
un metro e settantanove credo…» sussurrò chinando lo sguardo.
Dall’altro
capo della sala, il marchese consertò le braccia raddolcito.
Il
gesto non sfuggì all’occhio vigile della sarta.
«Vi
rende fiero sapere che avete un figlio tanto alto, marchese?» chiese pregando
il ragazzo di indossare la giacca, così da poter cominciare la sua opera.
Non
ricevette una risposta tempestiva, anzi: dovette attendere che il marchese si
fosse avvicinato, poi affiancato al giovane, prima di udirlo parlare di nuovo.
«Sono
altri i motivi che mi rendono orgoglioso di lui.»
Poco
ma sicuro: chi non avrebbe desiderato avere un figlio come lui? I signori
Takahiro dovevano sentirsi molto fortunati ad annoverare un vanto tanto
splendente fra i loro tesori.
La
timidezza in cui sprofondò Taemin strappò un sorriso a tutti, meno che a
Woohee.
«Non
dite cose che potrebbero venir fraintese, padre! Non mi merito parole tanto
buone!»
Quanta
umiltà, quanta modestia!
Yuzuru
osservò sconcertata il profilo del giovane, gli occhi saturi d’amore e rispetto
puntati come spilli in quelli del signor Saito: erano pochi i ragazzi che di
quei tempi mostravano tanta deferenza verso i genitori. Ah, se solo il suo
Mizutani[21] fosse stato un po’ più simile al marchesino! Avrebbe
avuto di ché vantarsi del suo comportamento anziché dover lodare quello dei
figli altrui! Avrebbe potuto mentire, certo, ma non l’avrebbe gratificata:
dopotutto si definiva una persona sincera, quindi perché infangare il proprio
essere per costruire una bugia che nel giro di poco si sarebbe sciolta come
sale sulla lingua?
«Ahhh…
» sospirò l’uomo addolorato. «…che mi spreco a fare in complimenti se poi tu li
rifiuti?»
«È
perché sono uno più ingiusto dell’altro!»
«Seriamente,
Shusei: vuoi litigare col sottoscritto perché ho detto di essere orgoglioso di
te?»
«Macché
litigare! Desidero solo aprirvi gli occhi e dimostrarvi che siete esagerato nel
dare giudizi alle persone!»
«Io
non credo…» si intromise Yuzuru: il tessuto liscio e profumato della marsina
scivolò sulle sue dita raggrinzite. «… che siano complimenti il problema,
marchese. È il fatto che siete voi a
porgerli che imbarazza vostro figlio. Dopotutto non ha avuto di che ridire sui
miei riguardo alla sua statura, o sbaglio?»
Un
rumore improvviso perforò il clima di quiete.
Il
cadere incessante dei pennini si protrasse legandosi allo scalpicciare iracondo
della marchesa. Contemporaneamente, il silenzio irrequieto di Shusei, tradito
dal concatenarsi delle dita in pose innaturali, e la sorpresa di Saito
precipitarono sui tatami gravidi di
vergogna.
Yuzuru
si stupì enormemente: cosa poteva aver mai detto di tanto forte da innescare
quelle reazioni? Che avesse toccato un tasto dolente? Magari legato al
celeberrimo mistero citato pocanzi?
Quel
pensiero la elettrizzò.
«Ritengo
sia necessario che tu vada a cambiarti, Shusei…»
il nome del figlio echeggiò funesto sulle labbra di Woohee, un ordine malcelato
in un sorriso che di spontaneo aveva ben poco. «…immagino che la signora
Takehiko abbia bisogno di apportare delle modifiche anche ai pantaloni, o
sbaglio?»
«No,
avete ragione…» si affrettò a rispondere intimorita al pari del marchesino.
Il
ragazzo obbedì celere: preso il completo e rivolto un leggero inchino,
accompagnato da uno “scusate” pressoché impercettibile, si dileguò dietro la
porta che conduceva forse alla sua camera.
Yuzuru
non ebbe il tempo materiale di elaborare un pensiero concreto: Taemin rientrò
vestito di tutto punto chiedendo perdono per l’assenza, a suo dire, prolungata.
Due minuti o giù di lì. C’erano uomini che scialacquavano ore innanzi allo
specchio perché vanesi: lui no. Era tornato sfoggiando un’eleganza straordinaria,
la camicia perfettamente abbottonata, il colletto diplomatico rialzato, le
derby allacciate in un fiocco né troppo stretto né troppo allentato.
«Vado
bene così?» chiese sfilando al centro della stanza, il passo aggraziato e
silenzioso.
Dire
che andava bene sarebbe stato riduttivo.
«Io…
assolutamente.» incespicò riappropriandosi di ago e filo. «Ora state fermo.
Vediamo cosa posso aggiustare...»
Ben
poco, a volerla dire tutta.
Fare
miracoli non rientrava nelle sue competenze: allungare dei calzoni… cielo,
sarebbe stato più facile appropriarsi dell’ultima stramberia lanciata sul
mercato dalla Hayakawa Denki Kogyo[22]!
Avrebbe potuto guadagnare due, tre centimetri scucendo i risvolti, certo, ma
non sarebbero bastati. Le gambe del signorino erano approssimativamente dieci
centimetri più lunghe di quelle del padre, oltre che più snelle. Una cintura
era d’obbligo. Forse la cosa migliore da fare per nascondergli le caviglie nude
era obbligarlo a indossare delle calze nere, in pendant col frac. Sì, non era
un’idea malvagia. Fortunatamente la giacca del completo richiedeva poche e
velocissime modifiche: un punto sulle spalle cadenti e un rammendo sul taschino
scucito.
Sospirò
demoralizzata quando, prese le mani del giovane, si accorse che le maniche
della camicia erano troppo corte.
La
marchesa Natsume stava mettendo a dura prova la sua pazienza quel giorno…
«Ragazzo
mio, siete proprio sicuro di voler indossare questo frac stasera?» domandò
sfinita contando i trentasette spilli appuntati solo sulla giacca.
Lui
annuì guardandosi bene dall’evitare lo sguardo impietoso della madre.
«Oh,
sì. Io… ci tengo davvero.» rispose forzando un tono allegro: nel mentre, il
signor Saito continuava studiare la scena chiuso a riccio in un silenzio
villano.
Yuzuru
avrebbe venduto tutte le sue creazioni per conoscere uno dei mille pensieri che
stavano viaggiando come treni nella sua testa. Uno solo. Le sarebbe bastato.
«Come
desiderate.» disse infine tastando il tessuto morbido della camicia. «Sapete, è
consuetudine indossare un farfallino bianco col frac. Tuttavia io vi
consiglierei la cravatta: è inidonea, ma almeno catalizzerà l’attenzione dei
presenti occultando le pecche dell’abito. Ne avete qualcuna? Giusto per vedere
l’effetto…»
All’udire
quelle parole, il volto di Woohee si illuminò di una gioia indescrivibile.
«Certo
che ne abbiamo, e tante! Mio marito sarà felicissimo di prestarvene qualcuna,
vero?» non attese neanche una risposta: richiamò la servitù ostentando
un’allegria a dir poco sospetta. «Signora Rangiku, può portarci una decina di
cravatte del marchese? Scegliete pure quelle che aggradano i vostri gusti.»
La
domestica indugiò sul posto, palesemente stordita.
Stava
succedendo qualcosa di importante: Yuzuru se ne convinse quando l’uomo si mosse
per fermare la donna. Peccato che quella avesse già abbandonato la stanza
intimorita dallo sguardo austero della padrona. E i toni con cui si rivolse
alla moglie non fecero che confermare i suoi sospetti.
«Mi
sembrava di essere stato chiaro a tal proposito: quelle cravatte non devono essere toccate per nessun
motivo, meno che mai per uno così futile!»
«Suvvia,
non indisponetevi marito mio! Voi non le indossate mai: ignorarne l’utilità nel
momento del bisogno sarebbe stupido, no?»
«Ibuki,
non costringermi a ribattere. Esigo che i miei ordini vengano rispettati sia
dai domestici che da te.»
«Ordini?»
un tremolio letale uccise la determinazione e la forza di cui si era armata
pocanzi. «Perdonate la mia insistenza, ma credo stiate esagerando.»
«Affatto.
E comunque, che lo stia facendo o meno, non sta a te stabilirlo.»
«Sono
cravatte, marito mio, cravatte! Da
come ne parlate pare quasi siano un cadavere
che state cercando di nascondere! Non avete motivo di arrabbiarvi per una
simile sciocchezza, o sbaglio?»
La
situazione aveva dell’inverosimile, il che appagò oltre l’inimmaginabile l’animo
di Yuzuru. Vide Saito perdere il controllo: la maschera di imposizioni che era solito
portare, quasi fosse un organo indispensabile per vivere, si screpolò in
un’infinità di cocci taglienti. Il desiderio languido impresso nelle sue iridi
era molto più di quanto non avesse mai osato sperare in quelle notti dove,
colta dalla noia, guardava il cielo scoprendolo arido di indizi.
Che
giornata squisita!
«Il
vostro silenzio mi dà il diritto di credere che vi siete finalmente arreso alla
ragione, me ne rallegro.» Woohee sorrise vittoriosa, le guance pallide di
insicurezza: era in tutto e per tutto la personificazione del terrore.
Saito
deglutì faticosamente un insulto.
In
quella, la domestica tornò reggendo una decina di cravatte fra le mani callose.
Un accostamento piuttosto antiestetico che fece storcere il naso a Yuzuru.
«Vi
ringrazio signora Rangiku.» esclamò la marchesa.
«Che
meraviglia! Un splendido assortimento, me ne compiaccio!» ribatté affascinata.
«Credevate
forse stessi esagerando quando vi ho detto che mio marito aveva solo il meglio
del meglio?»
«Assolutamente!
Mi fido di voi, lo sapete bene!»
«Ne
sono lieta, e ora… Shusei, caro, fattene mettere una.» Woohee strappò
sgarbatamente le cravatte di mano alla domestica dispiegandole a ventaglio.
«Quale preferisci? Io personalmente trovo che questa – ne indicò una nera
catrame a righe grigie – sia molto bella. Non sei d’accordo?»
Lo
sguardo preoccupato del figlio viaggiò dall’accessorio al padre: la rabbia
dell’uomo era palpabile, addensata in una smorfia più che mai nauseata. A
vederlo chiunque si sarebbe chiesto se stesse bene o male.
«Oh,
che dire allora di questa? E di quest’altra?»
La
marchesa aveva perso completamente il lume della ragione.
Yuzuru
la guardò inebetita mentre si appropinquava al ragazzo, brandendo minacciosa la
cravatta che aveva decretato essere la più bella. Ciò che però la incuriosì
oltre ogni dire fu il pallore spettrale del signor Saito, contrapposto al
rossore intenso di cui erano prede le guance di Taemin. E quando Woohee fece
scorrere un lembo di stoffa sul collo madido del ragazzo, biscia dalle spire
velenose, il danno accadde: Jonghyun scattò. Balzò letteralmente incontro alla
moglie, le mani protese in sua direzione.
Voleva
picchiarla. No, anzi: a giudicare dall’espressione mirava proprio a
distruggerla.
Yuzuru
indietreggiò, il tallone colpì lo spigolo del tavolino. Un male atroce.
Il
bisogno impellente di scappare e invocare aiuto venne meno nel momento in cui avvenne
l’incredibile: il figlio si portò dinanzi alla madre ed accolse al suo posto lo
schiaffo sonoro di Saito.
Sciaff. Il rumore saettò da un capo all’altro
della stanza penetrando nelle vene della donna; giù, scalfendo le ossa fragili,
porose, squarciando i capillari, i tendini, ogni cosa. Chi però doveva star
soffrendo più di tutti era il marchese: impietrito dai risvolti, osservava con
occhi fuori dalle orbite il ragazzo, o meglio, il livido abbozzato sul suo
zigomo ed i capelli d’ebano cascati sulla fronte.
«I-io…
n-no-» cominciò, la voce scossa dai singulti. Yuzuru si sorprese nel scorgere
il primo ed effettivo lato umano in lui dopo anni di conoscenza. «T-Tae… Min…
io non volev-»
«Shhh…
va tutto bene, padre, non preoccupatevi...» il ragazzo fece l’ennesimo sorriso,
la cravatta nera ancora miracolosamente in equilibrio sul collo. Un sorriso di
una dolcezza disarmante, di una piacevolezza unica, di un amore… immenso.
Troppo immenso.
Un
dubbio si insinuò nella testa della sarta, s’insabbiò sotto la pelle con
rapidità istantanea, fulminea.
Possibile che…?
Taemin
prese il volto del padre tra le mani alzandolo all’altezza del proprio: calcò
coi pollici le sue guance, e dove le dita si spostavano dei petali rosati
fiorivano cacciando il bianco sudicio.
Jonghyun
era completamente soggiogato dal suo candore, una gentilezza davanti alla quale
era infattibile non commuoversi. Immobile, stregato, le labbra aperse dallo
stupore, un velo acquoso intrappolato nelle ciglia lunghissime.
Semplicemente
innamorato.
Alle
sue spalle, la marchesa assisteva impotente senza muoversi di un millimetro:
livida di rabbia, non combatteva neanche per affossare l’umiliazione dentro di
sé, spurgata in calde lacrime di dolore e irritazione. La fronte, costellata da
un intrico incoglibile di rughe, vide l’evolversi della gelosia in vera e
propria pazzia.
I
suoi tentativi di sporcare il
bastardo[23] erano falliti miseramente.
«Calmatevi
padre, non è successo nulla di grave. Vedete?» Taemin prese una mano dell’uomo
e la intrecciò nella propria, quindi passò entrambe sul livido tiepido impresso
sulla sua guancia. Poi afferrò la cravatta nera, incastrata tra i bottoni della
giacca, e volse lo sguardo triste a sua madre.
Deglutì,
ma non per questo esitò: dimentico - o almeno così avrebbe voluto – di Jonghyun,
annodò la vipera al collo stringendo forte. E sorrise in cerca di approvazione
a Woohee. E lo fece anche col padre, accarezzando la cravatta per dimostrargli
che non era niente più di una semplice, innocente, asettica cravatta.
«Toglitela,
per favore…» supplicò il marchese.
«Vi
prego, non lasciatevi abbattere in questo modo. Almeno guardatemi e ditemi come
sto!»
«Come stai? Come puoi chiedermi di
esprimere un parere su quella… quella…»
«Cravatta,
padre, cravatta.»
«TOGLITELA!!!»
L’urlo
si diffuse a macchia d’olio richiamando tutti e venti i domestici all’ordine. Non
solo: atterrì a tal punto il figlio che, eseguito l’ordine impartitogli, fuggì
amareggiato per nascondere il proprio dispiacere agli occhi dell’uomo.
La
porta sbatté violentemente, gli shoji
vibrarono per qualche secondo. La giornata remunerativa di Yuzuru si chiuse
così: un pugno di yen in tasca e la mente ingombrata dalla schiena di Shusei
farsi sempre più distante sul finire del corridoio della tenuta Takahiro.
Ma poi… chi diavolo è
Taemin?, si chiese
pensando al modo in cui Saito aveva chiamato il figlio pocanzi.
E
le cravatte? E quelle reazioni spropositate?
Altri
grattacapi, altre irritazioni.
Oh
beh, se non altro ora avrebbe avuto qualcosa con cui intrattenersi nei momenti
di calma piatta e vuoto totale: chissà che magari il marchesino non avrebbe
acconsentito a unirsi a lei per una chiacchierata davanti a un tè un giorno.
Shusei… cosa sai sul
conto del marchese?
# Kyoto, 8th
February 1922
Dust’s Memories (V)
Non avrebbe saputo dire cosa lo avesse
spinto a entrare. Aveva accolto quel richiamo tramutatosi in ordine a braccia
aperte, un bisogno impellente che aveva cominciato a rosicchiargli le pareti
dello stomaco poco a poco. Si era lasciato guidare inerme, non la più piccola incertezza
aveva scalfito la determinazione di cui si era debitamente armato. Il rumore
dei suoi passi gli era sembrato estraneo, forse sbagliato, come un crepitio di
foglie secche in un giorno d’estate. E facendo scorrere la porta della camera del
padre, il cuore era esploso in un susseguirsi di percussioni violente, alcune
delle quali dolorose, colpi di okawa
che avevano scandito quegli attimi di brividi appesi alla paura di essere
scoperto.
Gli alloggi di Jonghyun erano
apparentemente vuoti. Ed era naturale che così dovessero essere. Chiunque,
entrandovi, avrebbe trovato normale la mancanza di personalità che si respirava
nell’aria, e si sarebbe stupito invece di scorgere un solo oggetto proprio lì,
dove la luce inciampava fra gli incunei dei tatami
disegnando ombre lunghe e sottili simili a cicatrici mai rimarginate sotto il futon. Eppure sempre quel chiunque avrebbe
potuto percepire un che di ridondante, due mani gelide afferrarlo e comprimerlo
in un succedaneo di solitudine e rancore. Perché quella stanza, quel bozzolo di
cocci rotti, era sì trasparente, ma allo stesso tempo tagliente e pregna di
dolore. Era ricolma della presenza di Jonghyun, e trasudava una tristezza
compatta che respingeva fisicamente l’intrusione degli estranei ferendoli senza
pietà.
Una prigione di vetro, ecco cos’era.
Una foresta di aghi invisibili che penetravano nelle carni, un escamotage “gentile”
per far capire a chi che fosse che non era il benvenuto. Nessuno, specie Taemin.
Temporeggiò sull’atrio, i capelli
incollati in una patacca di grovigli nodosi dal sudore. Arrivato sin lì fu
inevitabile chiedersi cosa sperava di trovare o fare. Forse erano state le
parole della marchesa ad aver acceso in lui la miccia della curiosità,
un’allusione scarna ai segreti sepolti in quella stanza. L’immancabile divieto
poi di recarvici gli aveva fornito la spinta necessaria per provare ciò che stava
rimandando da tempo: scoprire qualcosa di concreto su Jonghyun.
La sua non era curiosità fine a se
stessa, quel volersi impicciare negli affari altrui per compensare la mancanza
di attrattive nella propria vita: il suo era un bisogno fisiologico, qualcosa
che sperava lo avrebbe avvicinato al padre, che tanto faceva e tanto amore gli
dava senza mai chiedere nulla in cambio. E Taemin stava cominciando a sentire
il peso gravoso di quel bilancio ingiusto, rappreso in sensi di colpa che
infierivano sul suo umore portandolo da picchi di gioia a voragini di
frustrazione.
Da qualche tempo si era accorto di
dipendere dall’umore di Jonghyun: se lui era felice, bene, allora anche lui lo
era, e quando invece tornava a casa sfiancato dalle ore di lavoro, troppe a suo
dire, si sentiva stanco, i muscoli contriti dalla fiacca. Per non parlare poi
di quei momenti in cui si lasciava prendere dalla rabbia: Taemin era costretto
a rintanarsi o in camera o in un angolo sperduto del giardino per non azzannare
qualcuno. Allo stesso modo quando era soddisfatto, ah, apriti cielo: salvare il
mondo non lo avrebbe reso più fiero. Sì, insomma… avrebbe voluto essere la
causa della sua felicità come Jonghyun era il motivo della sua.
Non si chiedeva neanche da dove
venisse quel desiderio: era lì è basta, si era evoluto da semplice ammirazione
a vera e propria venerazione, un sentimento che aveva paura di chiamare col
nome appropriato perché lo terrorizzava l’idea di provare quel genere d’affetto
nei confronti di un uomo. E non di un uomo qualunque, ma di suo padre. Perché
Taemin sapeva, ma non accettava. Tergiversava muovendosi a tastoni nel buio,
senza neanche sapere chi fosse davvero quell’uomo e quali fossero i fantasmi
che banchettavano con la sua anima. Perché la scusa dell’essere giovane non si
reggeva più in piedi, aveva perso di credibilità quando un sogno erotico su di lui
lo aveva svegliato nel cuore della notte due giorni fa insudiciandogli le gambe.
Ma le cose sarebbero cambiate.
Finalmente, dopo sedici anni di attesa – perché il tempo gli aveva fatto capire
di essere nato e cresciuto solo per arrivare lì, in quella stanza che lo stava
respingendo – avrebbe guardato suo padre negli occhi dando un volto alla sua
sofferenza e un nome al suo amore.
Già… ma da dove cominciare? Cosa stava
cercando? Non lo sapeva, e questo certamente non giocava a suo favore. Che poi
i sensi di colpa lo avessero paralizzato impedendogli di muoversi come avrebbe
voluto era solo un plus. L’unica possibilità era l’oshiire, l’unico oggetto, fatta eccezione per la scrivania e il futon, che potesse contenere qualcosa di
promiscuo. Che poi, promiscuo… chi glielo garantiva che le sue supposizioni non
fossero campate per aria? Che non fossero altro che la fantasia stupida di un ragazzino stupido che stava facendo qualcosa di
incredibilmente stupido per
avvicinarsi al padre?
Non ci pensò, e scacciati quei
pensieri si avvicinò. Le mani gli tremarono appena mentre scorreva i fusuma e il profumo della naftalina misto
a legno lo colpiva in faccia.
Farsi atterrire dai rimorsi non
rientrava certamente nei suoi piani, quindi proseguì. Una schiera di completi
ed abiti celebrativi sfilò aggraziata su una sbarra di metallo, tessuti
pregiati di ricchezza inestimabile che sfumavano dalle tonalità più scure e
tendenti all’antracite a quelle più pallide, di un bianco sporco. Scorse
addirittura un abito blu Prussia relegato fra un trench beige e un tight marrone,
un pugno in un occhio che spezzava l’armonia della scala cromatica.
Sorrise intenerito: scoprire che anche
a Jonghyun sfuggivano sottigliezze tanto insulse lo rincuorò un poco, giusto il
tempo necessario per concedersi un’ultima distrazione prima di notare un guizzo
rosso ardere tra un cassetto e l’altro. Una pezza di stoffa minuscola,
incollata all’intercapedine fra i due tiretti. Qualcosa che lasciava pensare
fosse stato messo lì apposta per catalizzare l’attenzione. Uno specchietto per
le allodole, forse… o forse no.
Taemin deglutì scoprendosi la gola
arida, un avanzo di terra secca che pregava una lacrima per dissetarsi in un
giorno d’agosto. E aprendo il cassetto, seppe si aver trovato ciò che andava
cercando, un qualcosa che avrebbe troncato il passato fatto d’innocenza e
dolcezza che suo padre aveva forgiato con gesti e parole affettuose.
Strabuzzò gli occhi basito: decine di
cravatte dei più disparati colori giacevano a un palmo dal suo naso, un covo di
vermi putrefatti annichiliti in un groviglio di nuance. Dell’ordine proverbiale
del marchese non c’era traccia, ognuna gozzovigliava a spese dell’altra in uno
strenuo tentativo di mettersi in mostra, forse di darsi più importanza. E il
risultato non mutava: tutte perdevano, soccombevano in una miscela di segreti
che presto sarebbero venuti alla luce.
Tese una mano titubante, un fremito
gli pizzicò le dita quando saggiò la consistenza morbida dei tessuti. Ma quante
erano? Una, due, tre, quattro, otto, sedici, trentadue, sessantaquattro… novantasette. Novantasette cravatte
che non ricardava d’avergli mai visto addosso in tutti quegli anni. No, anzi, a
voler essere pignoli, non ricordava di averle mai viste e basta. Ed era…
strano, sì, nonché sbagliato: perché indossare sempre e solo la cravatta verde, che portava al collo
persino mentre dormiva (beh, questo forse no, anche se non ci avrebbe messo la
mano sul fuoco), quando avrebbe potuto variare e indossarne altre più consone?
Una volta ci aveva accostato un completo rosso mattone… un abbinamento terrificante,
come aveva avuto l’accortezza di fargli notare Kibum, che in fatto di moda ne
sapeva una più del diavolo.
Cosa rappresentavano?
«Sapevo che ti avrei trovato qui…»
Taemin balzò all’indietro, il cuore gli
si incastrò fra le costole. La cravatta rossa che aveva attirato la sua
attenzione volteggiò ai suoi piedi lentamente, come se l’aria le stesse
opponendo resistenza, improvvisamente densa e collosa.
Non era pronto per controbattere
l’ennesima lavata di capo dai toni pretenziosi ed altisonanti di sua madre, non
aveva la forza necessaria per mietere gli insulti. Ed alzando lo sguardo sulla
figura avvolta in un accecante kimono scarlatto, combatté strenuamente per
impedire alle lacrime di tradire la sua angoscia.
Quel che accadde poi, se lo sarebbe ricordato
fino alla morte.
Woohee
sorrise.
«Dimmi, ragazzo: cosa sei venuto a
fare negli alloggi di tuo padre? Credevi forse che i divieti che ti ho posto a
pranzo fossero dei consigli?»
La voce mielosa della donna stridette,
una lama d’odio rigò l’aria.
Rispondere col silenzio non era la più
brillante delle cose da fare, ma come si diceva in giro “la paura gioca brutti scherzi a chi si fa cogliere impreparato”. E
lui era molto più che semplicemente impreparato.
Era paralizzato.
Woohee gli si avvicinò radiosa, la
promessa di una punizione riflessa sui tatami
calpestati. Quando gli fu accanto, sporse la testa studiando tediata
l’accozzaglia di colori marcire dentro al cassetto. Quindi sospirò.
«Non trovi siano bellissime?»
Un rivolo di sudore freddo gli bagnò il
collo.
«C-come?»
«Queste cravatte…» Woohee ne afferrò
un paio con delicatezza, quasi stesse maneggiando un bijou di vetro
fragilissimo. «…sono infinitamente più eleganti dell’altra. Tu che di dici?»
«I-io… non sapr-»
«Eppure tuo padre indossa solo quella.» non lo lasciò rispondere.
Taemin intuì che la discussione si era trasformata in un monologo, ma non se ne
dispiacque: parlare con la marchesa era più pericoloso che incorrere nelle ire
dei giapponesi. «Ci fosse una volta in cui ascolta quello che gli dico. No. Lui
persevera, e la faccenda sta cominciando a farsi semplicemente ridicola. Lui è ridicolo quando partecipiamo alle
feste mondane o ai ricevimenti. Ho creduto di morire quando il signor Hashimoto
si è presentato stamane e ha guardato il completo che aveva scelto per
accoglierlo.»
«Io… non penso ci sia nulla di cui
preoccuparsi: vostro marito è un uomo assennato. Oltretutto il signor Hashimoto
è venuto per concludere degli affari di lavoro, dubito abbia prestato
particolare attenzione a certi dettagli. A proposito, è ancora qui?»
Il sorriso di Woohee vacillò
lievissimamente.
«Sì… è ancora qui…» rispose ravvivando i capelli, che quel giorno aveva deciso
di lasciare sciolti sulle spalle. «Il tuo amore è encomiabile, Taemin. È
ammirevole il modo in cui difendi a spada tratta un uomo che, a conti fatti,
per te non è altri che un estraneo.»
«Un… estraneo?»
«Numi del cielo, non te lo sarai mica
scordato? Tu provieni dal casato Lee, ragazzo, il mio casato, e Jonghyun non è il tuo vero padre.»
«Non l’ho dimenticato...»
«A vederti sembrerebbe il contrario.»
Tacque per un po’, forse per dare maggiore enfasi alle sue parole. Poi riprese.
«Mi chiedo se riusciresti a guardarlo con gli stessi occhi sapendo cosa sono e
rappresentano queste cravatte. Oh, la tua venerazione è cieca, ma-»
«Di che state parlando?»
Quella domanda decretò l’inizio della
fine.
Taemin non sapeva cosa stesse
chiedendo e perché lo irritasse a tal punto il fatto che la marchesa fosse a
conoscenza di qualcosa che lui, invece, ignorava, ma seppe di essere caduto
nella tana del leone quando Woohee lo guardò sfoggiando un ghigno compiaciuto.
«Ti sei mai chiesto da dove provengono
i soldi che ci permettono di condurre la vita che conduciamo? Forse
dall’eredità del signor Takahiro? O dal nostro titolo nobiliare? Sciocchezze.»
«Io… suppongo siano il frutto del
lavoro di vostro marito, no?»
«Assolutamente.» la donna annuì. «Tuo
padre ha stipulato la bellezza di novantasette contratti con industrie di fama
mondiale che gli hanno fruttato un sacco di introiti. Novantasette... beh,
immagino tu le abbia contate, no? In questo cassetto ci sono novantasette cravatte, racimolate nel corso
di diciotto, lunghissimi anni. Non ti sembra una coincidenza bizzarra?»
Che lo fosse non v’era alcun dubbio. E
per la prima volta da quando quella storia era cominciata, il desiderio di
fuggire a gambe levate lo assalì maligno. Fortunatamente sua madre ebbe il buon
cuore - da tradursi con “malignità” - di interpretare il suo silenzio come un
invito a proseguire, quindi non si fece scrupoli nel protrarre quella
conversazione amarissima.
«Devi sapere che queste cravatte sono
doni dei novantasette uomini che hanno avuto il piacere di concludere affari con lui.»
«Oh... sono dei presenti? Gentile da
parte loro.»
«Gentile dici?» ridacchiò lei. «L’innocenza
ti condurrà alla gogna, Taemin. Credi che a questo mondo le persone facciano
del bene per bontà disinteressata? Il mondo del lavoro è più subdolo di quanto
tu possa immaginare. Esistono delle regole che determinano quanto e come è allettante
una proposta. Evidentemente tuo padre ha saputo offrire qualcosa di più
lusinghiero rispetto ai suoi concorrenti, qualcosa che ha compiaciuto i clienti
più dei profitti banali che avrebbero tratto chiudendo affari con una firma su
un pezzo di carta. Queste cravatte sono il mezzo tramite il quale gli
acquirenti hanno ringraziato il
marchese per… i servizi offerti, sì.»
...servizi? Che genere di… servizi?
«Temo di non comprendere…» ammise
impacciato.
«Non mi sorprende. So che è difficile:
evidentemente la mia inettitudine nel tessere parole ti ha impedito di carpire
appieno il senso della nostra chiacchierata.»
«Non sia mai! Vi sbagliate, non è
colpa vostra, bensì mia e de-»
«Forse…» lo interruppe nuovamente la
donna. «…se lo vedessi capiresti all’istante.»
Quindi gli sorrise facendogli l’occhiolino e, indicata l’uscita, si incamminò
verso i corridoi che conducevano allo studio di Jonghyun. «Seguimi.»
Taemin non se lo fece ripetere due
volte, sebbene la faccenda puzzasse di ripicca: la gentilezza di sua madre era
estranea ai modi e ai precedenti con cui gli si era rivolta in passato.
Impiegarono approssimativamente un
minuto per giungere a destinazione, sessanta interminabili secondi duranti i
quali Taemin finì col convincersi di essere caduto preda del rancore di Woohee.
Quali che fossero, però, i motivi che la spingevano ad agire in quel modo, non
gli importavano. A dividerlo dalla verità c’era solo un muro, e preoccuparsi
dei piani machiavellici di sua madre era decisamente da codardi. Per questo non
si fece scrupoli a oltrepassarla e a scorrere la porta quel poco che bastava
per dare una sbirciatina, ovviamente senza farsi scoprire da suo padre.
Jonghyun aveva chiesto innumerevoli volte di non essere disturbato quando si
trovava nel suo studio, specie in quelle occasioni in cui lavorava coi suoi
colleghi. Aveva sempre pensato fosse perché era un tipo abituato a dividere la
vita privata dal mondo degli affari. Perché altrimenti avrebbe espresso una
volontà tanto perentoria?
«Guarda attentamente, Taemin. Questo è l’uomo che ami…» così dicendo,
Woohee lo afferrò per le spalle e gli spinse energicamente la testa contro lo
stipite.
E Taemin, finalmente, guardò: gemiti soffusi e animaleschi impregnavano
l’aria, sfumando in incitamenti grotteschi di cui riuscì a cogliere il senso
solo dopo aver focalizzato appieno il groviglio di braccia e gambe stipato
contro la scrivania. Riconobbe suo padre, flesso a novanta gradi, dare le
spalle a quello che doveva essere il signor Hashimoto, che infieriva sul suo
corpo pronunciando epiteti scurrili. Entrambi nudi, l’uno appagato, l’altro
rassegnato. Il volto di Jonghyun era una maschera impassibile crepata da tracce
di rabbia: ancorato agli spigoli della scrivania, subiva in silenzio le spinte
furiose di Hashimoto, il corpo madido di sudore. Dietro di lui, Hashimoto ridacchiava
soddisfatto, accarezzando la pelle del marchese scossa da singulti nauseati. Le
mani salivano e scendevano, di tanto in tanto indugiavano sulla cravatta viola
che stringeva il collo di Jonghyun, e alla quale si era aggrappato per non
perdere l’equilibrio. Poi tornava a spostarsi, e le dita si incastravano
magicamente lì, la zona del corpo di suo padre sulla quale Taemin aveva
fantasticato ogni notte nelle ultime quattro settimane: in altre circostanze
sarebbe avvampato di vergogna nel constatare che la realtà era di gran lunga
migliore dei suoi sogni erotici, e che i muscoli di Jonghyun, le gambe, le
spalle massicce, il busto scolpito nel marmo erano di una perfezione invidiabile.
Peccato solo che la situazione fosse lontana dagli scenari idillici ed
innocenti che avevano sempre fatto da sfondo alle sue elucubrazioni.
Taemin sgranò gli occhi esterrefatto
cominciando a tremare. Tremava così forte che una gamba sfuggì al suo controllo
calciando la porta. Un rumore flebile, qualcosa che non riuscì nemmeno a
sentire, e che purtroppo per lui Jonghyun udì distintamente. E quando alzò il
capo volgendogli uno sguardo dapprima languido, poi confuso, infine sconvolto,
seppe di aver fatto lo sbaglio più grande di tutta la sua vita.
Si fronteggiarono per secondi, forse
minuti, ignorando il gongolare di Woohee e i grugniti di Hashimoto, che stretto
alla schiena di Jonghyun continuava a spingere più forte dentro di lui. Una
lacrima solcò il volto del ragazzo, mentre suo padre lo guardava furioso
incitandogli di andarsene, in silenzio, per non irretire il cliente.
Che umiliazione! Quindi ognuna delle
novantasette cravatte… rappresentava novantasette incontri di quel genere? Era
quello l’uomo rispettabile che aveva adorato alla stregua di un dio per tutti
quegli anni?
Non riuscì più a sopportarlo:
svincolatosi dalla presa ferrea di sua madre, corse lontano, fuori casa,
addentrandosi nei meandri dimenticati del giardino. Nessuno sarebbe venuto a
cercarlo, nessuno avrebbe chiesto di lui.
Quel giorno e per il giorno a seguire,
Taemin sarebbe rimasto accovacciato dietro a cespugli di rose selvatiche a
ridosso delle mura, piangendo il crollo di un mito.
Perché i suoi credo finivano
puntualmente con l’infrangersi contro il volere di sua madre?
# Kyoto, 18th July 1925
Drops’ Present (5)
«Non
posso crederci! Davvero nostro padre vi ha fatto quello?»
Lo
sguardò triste di Taemin abbracciò gli orni malinconici dell’orizzonte:
pennellate sconsolate di rosso mortificavano il ribollire vivace degli sbuffi
dorati filtrati dagli ultimi raggi di sole. Il fumo di una vecchia locomotiva
si arrampicava di nuvola in nuvola su, in alto nel cielo, disegnando nuovi
cirri bombati dai riccioli ribelli. Le montagne annegavano sopraffatte dall'impeto
massiccio di quella visione.
Taemin
si lasciò trasportare dalla mestizia che scavava nel suo umore come i cavalloni
dell’oceano combattono per sopraffarsi l’un l’altro. Ma erano attimi: il
momento dopo il buonsenso appiattiva quei rantolii infelici nella cieca
cognizione che, per quanto doloroso, non era successo nulla di grave.
Sbuffò
annoiato, farlo fu quasi penoso: il respiro si rapprese tra i suoi capelli
disegnando volute tondeggianti nei radi ciuffi che ricadevano sulla sua fronte.
«Non
è come sembra, Satoshi. È stato un incidente.»
«Incidente?
Quel livido? Volete farmi passare per un idiota? Odio dovervi contraddire, ma
sappiate che deve ancora nascere il furbastro capace di mettermi nel sacco. E
volendo rimarcare la questione, quel qualcuno non siete certamente voi!»
«Satoshi…»
«Io
vorrei proprio sapere cosa passa per la testa di quell’uomo! La festa in vostro
onore avrà inizio fra meno di due ore, contate bene, due ore, e voi sembrate uno yankee
sfuggito a una volgarissima rissa di strada! Avrò bisogno
dell’intercessione divina per coprirvi quell’aborto antiestetico!»
Taemin
sorrise commosso: il fare materno di Kibum aveva l’incredibile capacità di
diluire l’impasto secco di dolore dovuto alla mancanza di un posto per lui nel
cuore di Woohee. Era un male che tempo addietro aveva lasciato ferite profonde
sulla sua pelle, piaghe mai completamente rimarginate che sanguinavano ogni
qualvolta aveva modo di tastare l’odio che la marchesa serbava nei suoi
confronti.
Taemin
viveva nella speranza di essere accettato un giorno o l’altro. E se non proprio
accettato, perlomeno ignorato. Che Kibum fosse il suo preferito non gli
importava, dopotutto era naturale avere delle preferenze. Tutti le avevano. Ciò
che non poteva in alcun modo patire era la scortesia con cui la donna
rispondeva alle sue buone intenzioni. Si impegnava anima e corpo per non urtare
il suo amor proprio, e il trattamento che riceveva era peggiore di quello che
si dava ai cani. Eppure gli sarebbe bastato poco: una parola, un gesto, un “sì”
anziché l’ormai abituale “no”. Quanti soli sarebbero dovuti sorgere e morire
prima di veder arrivare quel momento? Quanto, invece, avrebbe dovuto soffrire
ancora per non essere più succube della sua gelosia ingiustificata?
«Siamo
alle solite, non mi state ascoltando.»
Scosse
la testa violentemente e la sagoma annidata tra i ricordi d’infanzia di sua
madre scoppiò come una bolla di sapone. La rimpiazzò il volto arcigno di Kibum
che, preso un panno bianco e della terra, puntava in sua direzione più che mai
risoluto. A fare cosa, solo i Kami lo
sapevano.
«Che
vorresti fare con quegli affari?» chiese a metà fra il dubbioso e il divertito.
«Salvarvi
la reputazione, che altro? Non oso immaginare cosa potrebbe dire di voi la
figlia del conte Hinamori: mai conosciuta una ragazzina tanto impertinente!
Froda chiunque narrando di bislaccherie che non stanno né in cielo né in terra.
Lasciate fare: so quel che dico.»
«Non
ne dubito, ma per quanto apprezzi il tuo interesse, dovresti sapere che il
pensiero della gente non mi tange in alcun modo.»
«Beh,
tange me. Ora smettetela di muovervi che vi rimetto a nuovo. Poi vi cambiate e
magari mi narrate cos’è successo, se avete caro il mio umore.»
Non
che Taemin non si fidasse di lui. Probabilmente parlarne con qualcuno gli avrebbe
fatto bene. Ma come poteva raccontargli di Woohee, della donna che adorava e
per la quale si sarebbe amputato un braccio senza battere ciglio? E Jonghyun, da
cui bramava di sentirsi dire che era all’altezza delle sue aspettative? In fin
dei conti, vivevano entrambi imprigionati nell’attesa: lui per Woohee, suo
fratello per loro padre. Era una croce che li accumunava.
No,
Kibum doveva continuare a vivere nel suo mondo, cibandosi della certezza che la
marchesa fosse sì severa, ma al contempo capace d’amore. Che diritto aveva di
distruggere i suoi pilastri?
Nessuno.
Avendo tastato sulla propria pelle un’esperienza tanto violenta, era suo
desiderio precluderla a una delle poche persone alle quali teneva e che, in
qualche modo, lo ricambiava. Gelosie a parte, chiaro.
«È
stato un incidente. Una scena tragicomica, assistendovi avresti riso un sacco.
La signora Takehiko l’ha trovata uno siparietto delizioso!» mentì, e per una
volta riuscì a credersi convincente.
Kibum
setacciò in lungo e in largo il suo sorriso, poi ricordò improvvisamente che
avevano altro a cui pensare.
«Ve
la concedo, ma non illudetevi: non finisce qui. Ora avvicinatevi per favore.»
Taemin
obbedì porgendogli il volto: le dita fredde ed esili di Kibum si incollarono
alle sue guance. Un tocco gentile.
«Avete
dei lineamenti molto delicati, fratello. Siete più bello di innumerevoli
fanciulle che conosco…»
«Lo
devo prendere come un complimento?» scherzò.
«Certamente.
Non sono solito dispensare meriti, siatene onorato.»
«Lo
sono infatti, anche se penso tu esageri…»
«Piantatela
di essere tanto umile! Tacciate la stupidità quando lo fate.»
«Non
si tratta di essere umili, Satoshi. La mia è spassionata…»
«Obiettività?»
Kibum gli schiaffò il fazzoletto imbrattato di terra sul livido. Bruciò un po’,
sia per i sensi di colpa che per il dolore effettivo, quasi che le sue doti
fossero delle mancanze e non qualcosa di cui andare fiero. «Non fatemi ridere!
Arriverà mai il giorno in cui guardandovi in uno specchio ammetterete di essere
un bel ragazzo? Anzi…» si morse le labbra fino a tingerle di bianco. «…con oggi
voi siete un uomo a tutti gli effetti.»
«Mi
auguro sinceramente di no…»
«E
fate male! Sono convinto che se vi amaste di più anche nostra madre sarebbe
meno dura nei vostri confronti.»
Parole
dette così, belle favole alle quali avrebbe potuto crederci da bambino. Peccato
che certe perle arrivassero puntualmente in ritardo di qualche anno…
Chiuse
gli occhi arreso: perché tutti gli attribuivano meriti che non aveva? Per farlo
sentire più in colpa di quanto già non fosse?
«Prima
di finire dovreste indossare il completo. Desiderate che vada a chiamare una
domestica per aiutarvi?»
Scosse
la testa.
«No…
voglio fare da solo.»
«Mi
correggo. Non siete stupido: siete ridicolo, il che è peggio.» Kibum roteò gli
occhi enfaticamente. «Basta, io mi arrendo, un muro mi darebbe più gioie.
Almeno fate in fretta, così posso riprendere da dove ho interrotto. E per
l’amor della decenza, evitate di spalmarvi la camicia in faccia quando la
indosserete!»
«Farò
l’impossibile per non deluderti…»
«Ah,
certo. Non fatemi rispondere che non voglio dire cose che non penso.
Sbrigatevi, su!»
Taemin
sorrise slacciandosi l’obi e
dischiudendo lo yutaka. Si scoprì le
spalle bianche e il petto asciutto, quindi affrettò i tempi per non prendere
freddo. Non che lo sguardo indagatorio di Kibum rendesse le cose più facili:
avere gli occhi del fratello attaccati alle sue nudità non era propriamente
quel che si diceva piacevole. E lui era famoso per non apprezzare certi
interessamenti. Al contrario, Kibum aveva tutta l’aria di godere di quello
spettacolo inconsueto: era da secoli che Taemin non si mostrava a lui. Si era
convinto fosse perché non s’era mai presentata l’occasione giusta.
«Vi
creo imbarazzo?» chiese improvvisamente leggendogli nel pensiero. Tipico di
Kibum.
«Perché
dovresti?»
«Sembra
siate preda di una crisi epilettica. Tremate come una foglia.»
«È
assolutamente involontario.»
«Ci
mancherebbe, altrimenti a quest’ora sarei offeso. Siete così magro che posso
contare tutte le vostre costole, sapete?»
«Satoshi!»
lo ammonì risentendosene un poco.
«La
verità fa male?»
Sospirò
demoralizzato. La cintura dentro ai passanti gli stringeva i fianchi in maniera
ridicola: anziché cingerglieli ne accentuava la snellezza, non potendo niente
contro la totale mancanza di muscoli a cui aggrapparsi. Navigava dentro quella
stoffa ruvida che gli graffiava le cosce: minuscole bollicine sfiguravano la
morbidezza delle gambe in un collage di tremoli frenetici.
Quanto
si odiava in quei momenti di ineluttabile debolezza!
«Smettila
di guardarmi così, Satoshi: mi fai sentire un verme.»
«Così
come?» cinguettò calando lo sguardo sul basso ventre, laddove i primi e radi
peli pubici scurivano il pallore spettrale della sua pelle. La visione si
impresse a fuoco nei suoi occhi, ora senz’ombra di dubbio divertiti.
«Così!»
ribadì indossando rapidamente anche la camicia: i bottoni traballarono appena,
attaccati instabilmente alla stoffa traslucida da ritagli di fili bianchi.
«Piuttosto, direi che ora puoi ricominciare a divertirti, no? Ho finito. Fai di
me un pietoso saltimbanco.»
«Sempre
meglio pietoso saltimbanco che povero disgraziato. E se vi scoccia tanto il mio
aiuto basta dirlo: dopotutto non sono io quello che si coprirà di ridicolo
stasera presentandosi alla festa con un livido nero sotto l’occhio.»
Taemin
batté il tallone contro la mobilia. Non forte, chiaro, giusto quel poco
necessario per cucirsi addosso un’autorità che non gli apparteneva neanche nei
sogni.
«A
volte i tuoi modi da prima donna mi fanno saltare letteralmente i nervi,
prendine atto.»
«Oh,
sapete fratello? Voi dovete proprio, ma proprio andare al diavolo. Venite qui
prima che cambi idea.»
Quella
fu forse la prima volta in cui vinse contro Kibum. Una sciocchezza dello
spessore di uno stelo, o di un petalo, eppure a lui parve una vittoria degna di
rispetto. Adorava quei battibecchi infantili, scalfivano la convinzione che si
era costruito quando due anni prima aveva capito di essere una minaccia per la
felicità di Satoshi: li rendeva fratelli a tutti gli effetti. Due normalissimi
ragazzi spogliati di ogni pressione dovuta alla gravità del titolo nobiliare, o
peggio del loro nome. Due bambini testardi ai quali era concesso dimenticarsi
l’astio e la gelosia di Satoshi e ridere spontaneamente.
Chiedeva
troppo quando pregava affinché quella brezza serena non si chetasse dopo una
risata un po’ più forte?
Si
punzecchiarono amorevolmente per chissà quanto. Taemin aveva perso la
cognizione del tempo e, detto in tutta sincerità, non gli importava affatto
recuperarla: Kibum era tornato il suo adorato Kibum di tredici, quattordici
anni, alieno alle congetture della marchesa e spassoso nel suo ostentare
intolleranza. Ma Taemin sapeva che tutto ciò che aveva un inizio aveva anche
una fine. Non si stupì quindi quando gli scherzi e le battute glissarono nella
formalità e nel bisogno di conferme. Ma se ne dispiacque, quello sì: perché
crescendo quegli spifferi di serenità si erano fatti sempre più sporadici fino
a quasi scomparire nei ricordi. E lui non voleva vivere di memorie, incastrato
in un passato doloroso nel suo essere finito ed infinitamente più felice del
presente.
«C’è
una cosa che vorrei chiedervi da secoli, fratello. Posso?»
Annuì
affondando la punta del naso nel trucco.
«Lo
stai già facendo. Prosegui.»
Kibum
si mordicchiò le guance arricciando le labbra in un dubbio apparentemente
frustrante.
«Ricordate
niente della vostra vecchia famiglia? E vostro padre, quello vero: assomigliava
al nostro? Per questo gli volete tanto bene?»
L’ultimo
raggio di sole della giornata morì sulle guance cave di Taemin.
Lee
Jinki. Un nome a cui aveva cercato di attribuire un volto rattoppando immagini
e vaneggi della sua infanzia, qualcosa che Jonghyun aveva modellato in una
caricatura di se stesso senza volerlo. No, era una bugia: era stato Taemin a
permetterlo, e non c’era giorno in cui non si chiedesse perché. Di tanto in
tanto qualcosa affiorava: un abbraccio, un bacio sulla fronte, un rimprovero.
Ricordi che duravano troppo poco per lasciargli qualcosa di importante.
Jonghyun
si era imposto prepotentemente sul cadavere di Jinki, smembrando e ricostruendo
ogni trascorso a suo diletto. In conclusione, suo padre, quello vero, era
snaturato in una figura marginale, un dettaglio superfluo la cui esistenza non
incideva sulla sua vita come invece avrebbe dovuto.
Ora
c’era Jonghyun. Tutto il resto era una cornice sbiadita che non gli rendeva
grazia.
«Niente
di più di quanto non ci sia stato detto. I loro nomi, la data in cui sono
morti... vorrei bastasse per sentirmeli più vicini quando andiamo a rendere
loro omaggio al cimitero.»
«Tutto
qui? Siete sicuro che non ci sia altro?»
«Beh…
qualcosina, piccole sciocchezze. Non so neanche se risalgano al periodo in cui
vivevo ancora con loro o già ai tempi in cui sono stato adottato.»
«Del
tipo?»
«Uhmmm…»
volse lo sguardo al soffitto fingendo di pensarci. «Credo che mio padre
sorridesse spesso. Doveva essere una persona genuina. Leggeva molti libri sotto
il ciliegio che avevamo in giardino.»
«Penso
lo stiate confondendo col marchese: fino a qualche anno fa, nostro padre
trascorreva le ore seduto sulle radici degli alberi in fiore a leggere haiku.»
«Oh…»
mugugnò amareggiato. «Eppure è strano: se mi concentro riesco ancora a sentire
le note di un flauto e ad apprezzare la ruvidezza delle pagine di quei tomi.
Nostro padre non sa suonare alcun strumento se non il pianoforte, vero?»
«Vero.»
Kibum si pasticciò le labbra di saliva succhiando avidamente. «Ma chi può
dirlo? Può darsi che anche il signor Jinki fosse un assiduo lettore di poesie
giapponesi, no?»
Altamente
improbabile. Stando a quanto aveva studiato sui libri e alle parole del loro
insegnante, i coreani disprezzavano i giapponesi, quindi ogni tradizione e
rimando alla loro cultura. E come biasimarli? Lee Jinki non doveva essere stato
tanto diverso. Appurato ciò, rimaneva una sola possibilità: quello che stava
cercando di spacciare per suo padre altri non era che la raffigurazione idealizzata
di Jonghyun trasposta a un fantasma.
Quel
pensiero lo atterrì.
«Chissà…»
rispose vendendo un inganno. «Ma sai?, non m’importa. Non cercare significati
occulti ed orridi in quello che sto per dire, ma…» trasse un sospiro generoso
incamerando quanto più coraggio possibile. Poi si sciolse. «…non sono affatto
dispiaciuto per come si sono evolute le cose. Ora sono qui con te, la marchesa
e il marchese. Non voglio rimpiangere qualcosa di cui non ho memoria basandomi
su paralleli che non hanno ragione di esistere. Che scopo ha comparare la
famiglia con cui sono cresciuto con una di cui non ricordo nulla o quasi? Forse
avrebbe potuto andare meglio, forse no, chi può dirlo? Trovo sia stupido
aggrapparsi a un’illusione quando sono già felice ora avendo te e i nostri
genitori a fianco.»
Kibum
rise divertito.
«Addirittura
la marchesa? Siete un pessimo bugiardo, però…» gli prese una mano stringendola
forte in segno di gratitudine. «…sono felice di sapere che, anche se non al
pari di nostro padre, anch’io sono importante per voi.»
«Perché
dici così? Io voglio bene a entrambi.»
«Non
lo metto in dubbio, ma siate sincero: voi non amate nessuno tanto quanto il
marchese, no?»
Avrebbe
mentito negandolo. Non che fosse una novità, ormai mentire era diventata una sorta
di routine. Tediosa, sì, della peggior specie, ma pur sempre una routine.
Macinò
attentamente la matassa di pensieri che gli passava per la testa: era vero, lui
era innamorato di Jonghyun, non aveva mai avuto l’indecenza di negarlo. A se
stesso perlomeno.
Anche
chiedersi come avesse fatto a superare lo sconforto dovuto allo scoprire che
razza di persona fosse suo padre era diventato un passatempo, un modo come un
altro per illudersi di provare un amore cieco ed incondizionato per lui. Kibum
non avrebbe reagito allo stesso modo vedendolo piegato sulla scrivania, nudo e
alla mercé di un altro uomo. Nessuno lo avrebbe fatto. Meno che lui. Ecco
perché in qualche modo si credeva unico: il suo affetto germogliava rigoglioso
sopravvivendo alle intemperie, ai scalpicci, all’impossibile. Anzi, tutta
quella faccenda, quel sapore marcio che caracollava sulla sua lingua malgrado
fossero trascorsi parecchi anni, era la prova lampante che non importava quanto
fango avrebbe dovuto ingerire: lui lo avrebbe fatto se per continuare a stare
accanto a Jonghyun nei limiti concessi dalla gelosia della marchesa.
Ora
e per sempre.
«Non
è che il vostro legame col marchese è dovuto al fatto che conoscete qualcosa
sul suo conto di cui io, invece, sono all’oscuro?»
Deglutì
adagio un’angoscia storpia.
«E
cosa dovrei sapere? Sei tu quello che sa vita, morte e miracoli di tutto e
tutti, non io.» ridacchiò.
Kibum
annuì sovrappensiero mentre appoggiava terra e fazzoletto sul mobile: il
risultato finale era semplicemente eccezionale. Suo fratello era più bello
delle bambole che avevano visto sfilare nel corso dell’ultimo Hinamatsuri. La pelle brillava fieramente
sotto il tremolio delicato delle candele, argentea e priva di imperfezioni.
Persino i capelli avevano un fascino particolare, quel genere di bellezza che
si confaceva più alle rose selvatiche che agli uomini.
Volle
credergli. Credere all’affetto di Shusei. Pensare che, per una volta, poteva
permettersi il lusso di dar credito alle parole di qualcuno che non fosse sua
madre.
«Va
bene, ho capito.» rispose arrangiando le labbra in un sorriso affettuoso. «Mi fido di voi fratello.»
Pessima scelta, Kibum.
Davvero.
Taemin
ricambiò il sorriso, un sorriso che prometteva dolori.
# Kyoto, 10th
February 1922
Dust’s Memories (VI)
Che quella fosse stata una pessima
idea, Taemin l’aveva capito quando l’odore acidulo del legno misto a foglie di tè
gli aveva perforato i polmoni respirando.
Zia ShinHo era rimasta immutata in
tutti quegli anni: le forcine nere, le labbra carnose, le sopracciglia
particolarmente arcuate. Per accertarsi di non essere incappato in un delirio,
Taemin si era portato le mani al volto tastandone le fattezze: no, quella non
era la faccia di un bambino. Gli zigomi ossuti e le guance smunte erano stati
svuotati della loro pienezza infantile, gli occhi si erano assottigliati e le
ciglia allungate. Anche la pelle aveva perso di morbidezza, seppur vincendo la
condanna della crescita e della virilità in maniera più che soddisfacente. E il
pavimento era effettivamente troppo lontano visto da lassù.
No, non era un ragazzino. Erano
davvero passate sette lunghe primavere dall’ultima volta in cui si erano visti.
«Sei cresciuto molto, nipote. Non ci
aspettavamo una tua visita.»
Non aveva l’aria di sgradire la cosa,
non completamente perlomeno: zia ShinHo era più tollerante rispetto al fratello,
ed era riuscita a perdonargli lo spiacevole trascorso dello Shunbun no Hi.
Seungho no, e mai l’avrebbe fatto.
Taemin evitava di scivolare in
considerazioni spiacevoli ripensando all’accaduto, pur sapendo che il suo
risentimento aveva tutte le ragioni lecite e non per protrarsi nel tempo.
In fin dei conti, se lo meritava.
«Mi spiace per essere venuto senza
preavviso, zia.» disse appoggiando le braccia stanche sul tavolino: i talloni
dolevano scossi dai guaiti dei nervi addormentati. «Spero di non disturbare…»
«Un preavviso sarebbe stato benaccetto,
ma non preoccuparti: oggi mio marito non è al lavoro e non sono previste
mansioni straordinarie.»
«Buono a sapersi. Come sta zio
Byakuma?»
«Litiga un giorno sì e l’altro pure
con gli americani, dice che vincere la Guerra ha triplicato l’ego mostruoso
degli imprenditori statunitensi. Ma suppongo stia bene: fino a quando riuscirà
a recarsi al Kyabarei non ci sarà
nulla di cui angustiarsi.»
«Ne sono felice.»
«Chiede spesso di te e Kibum, si
rammarica di non avere tempo per venire a trovarvi: sai, vi è molto
affezionato. Oltretutto il volere della marchesa non rende le cose più facili…»
Taemin annuì: Woohee mal digeriva la
famiglia di Jonghyun, forse perché il confronto con l’aristocrazia la
spaventava. Sebbene avesse ereditato a tutti gli effetti il titolo di marchesa,
il baratro che calcava la differenza tra lei e il sangue blu era fonte
inesauribile di angosce e fastidi. Come se non bastasse, non tollerava la vista
di ShinHo, che malgrado il suo essere donna era stata capace di imporsi sul
volere del padre e di sposare l’uomo dei suoi sogni. Certo, anche lei era la
moglie dell’uomo che amava, ma tra scegliere e capitare in sorte c’era una
differenza abissale, una questione di tempistica ed ordine cronologico dei
fatti.
ShinHo si era innamorata e poi
sposata; Woohee si era sposata e poi innamorata.
«Fatti guardare un po’, ragazzo: non
stare col capo chino.»
Obbedì, onde evitare scortesie
tediose.
«Guardandoti è pressoché impossibile
credere che tu sia il nipote di quella donna.» gli disse ShinHo studiando
l’increspatura tenue e all’insù dei suoi occhi, le minuscole rughe
d’apprensione nate dal disagio di sentirsi osservato. «Quanti anni hai adesso?
Quattordici? Quindici?»
«A dire il vero vado per i diciotto.
Li compio a luglio.»
L’odore acre del tabacco intrufolatosi
tutt’un tratto nella stanza inasprì la dolcezza disegnata sulle sue labbra.
Il signor Byakuma fumava un sacco, i
medici gliel’avevano imposto per guarire dalla raucedine e dai problemi di
balbuzie. Nessuno aveva visto dei miglioramenti concreti nel suo modo di parlare,
anzi: la voce gli si era arrocchita e la tosse s’era fatta una presenza quasi
amica tanto era diventata presente nella sua vita. Diceva che in qualche modo
riusciva a calmarlo, anche se ShinHo si ostinava a ripetergli il contrario: era
dipendente da quel farmaco[24], e l’idea che non giovasse affatto
alla sua salute si era rafforzata a seguito di numerosi trascorsi che le
avevano dato ragione. Tuttavia, perché ovviamente doveva esserci un “ma”, la
sua opinione si era rivelata solida quanto la schiuma se affiancata alle
direttive dei medici, che si supponeva fossero pagati per conoscere quel che
dicevano e prendere tra le mani le vite dei loro pazienti. Così sopportava,
aveva ritirato le sue diagnosi senza però lasciarle soffocare nel cumulo
cinereo di fumo rappreso in ogni anfratto della casa.
«Vi sentite bene?»
«Certo, scusami.» si accarezzò i
capelli intrecciandoli tra le dita. «Ma veniamo a noi: cos’è che ti porta qui?
È successo qualcosa con tuo padre?»
«Come fate a sapere che il nodo della
questione è il marchese?»
«Suvvia ragazzo, mi hai preso per una
stupida? Se avessi avuto qualsiasi altro problema ora saresti da lui a parlarne
e non di certo qui. Tu adori mio fratello, e che tu ci creda o meno anche mio
fratello ha un occhio… no, ma che dico?, li ha entrambi di riguardo per te.»
Non gli era nuova quella solfa: doveva
averla già sentita da qualche parte chissà quando, come e perché.
«Comunque sì, avete ragione. Vorrei
chiedervi… di lui.»
«Chiedere?»
«Io… non so se ne siete a conoscenza,
è una faccenda strettamente personale, mi mancano le parole per esprimermi come
vorrei e-»
«Con calma, Taemin. Fai un bel respiro
e raccontami cos’è successo.»
«È difficile…»
«E tu fai in modo che non lo sia:
dubito tu abbia fatto tutta questa strada di nascosto da tua madre per tornare
a casa con un pugno di mosche, no? Avanti figliolo.»
Un’esortazione più che incoraggiante,
chiedere di più sarebbe stato villano.
Cominciare fu faticoso. Taemin lo
realizzò l’attimo in cui aprendo bocca riuscì a emettere un rantolio sconnesso
e privo di significato. Ma come biasimarlo? Stava per parlare di sesso con sua zia, più precisamente di sesso
connesso a suo padre. Probabilità e calcolo combinatorio non erano mai stati il
suo forte, come il professor Yamaguchi aveva il buon cuore di ricordargli di
lezione in lezione di matematica, forse per render grazia a Kibum: quanti
poteva averne di fare una figura decorosa?
Meno di zero.
Ricominciò dopo aver contato fino a
dieci. Le parole gli scavarono la gola, ruvide di apprensione, paura, vergogna.
Nessuna parve essere così intelligente, inciamparono sgraziatamente l’una
sull’altra distruggendo la sintassi e il periodare del discorso. Goffe.
Poi qualcosa cambiò. Come e quando fu
difficile stabilirlo. Fu naturale come dormire, piacevole quanto immergere una
mano bruciata nelle acque gelide di un lago. Una parola tirò l’altra, e l’altra
un’altra ancora, e così via. Sorprendentemente il tempo si dilatò,
comprimendosi poi in un secondo quando realizzò di aver finito e di averci
messo davvero poco. Ma la vera sorpresa fu realizzare che sua zia non lo aveva
interrotto neanche una volta, ascoltando il suo delirio con calma invidiabile.
Ci poteva essere una sola spiegazione:
ShinHo sapeva già tutto.
La vide chinare lo sguardo sui ricami
arzigogolati del centrino appoggiato sul tavolo, ispezionare la trama e la linearità
del disegno. C’era un che di poetico nei suoi movimenti, un tratteggio preciso
che conferiva loro un’armonia sublime. Non erano espansivi né tantomeno
ripetitivi. Se avesse dovuto descriverli con una sola parola li avrebbe definiti
haiku: poche e sensibili righe in
grado di arpionare l’animo del lettore e di scuoterlo emotivamente. Allo stesso
modo, il muoversi mellifluo e delicato della donna vinceva l’ammirazione
dell’interlocutore senza sforzo. Il polso piegato, i polpastrelli agli angoli
della bocca, il sali-scendi delle palpebre… come facesse a esprimere tanto con
così poco era un mistero.
«Voi… sapevate?» chiese infine
forzandola mentalmente a guardarlo: aveva letto in qualche libro che la
capacità di muovere persone ed oggetti con la mente di chiamava “telecinesi”.
Sebbene la ritenesse una stupidaggine avulsa da ogni fatto concreto, avrebbe
mentito asserendo di non esserne attratto. «Un momento… non solo voi, anche
vostro fratello, mia madre… lo sapevate tutti.»
concretizzò vedendosi per la prima volta per l’imbecille che era: la verità era
stata sotto il suo naso per anni ed anni, e lui che aveva fatto? Aveva guardato
altrove, abbracciando il presupposto secondo il quale un figlio non doveva
ficcanasare negli affari degli adulti, a maggior ragione se questi erano i suoi
genitori. Era la totale illogicità della vicenda a spingerlo a proseguire: il
comportamento dei fratelli Kim non aveva presupposti per dare un senso e un
motivo all’immoralità di Jonghyun. Era come il suono nato dalle mani di uomo
che per la prima volta pigiava i tasti di un pianoforte: causticità stridente,
confusionaria. Un susseguirsi di sbagli che non avrebbe visto nascere niente di
buono.
Anche in questo caso era tutta una
questione di tempistica ed ordine cronologico: per suonare “Für Elise”
bisognava esordire con un Mi Diesis e non con un Mi, altrimenti l’aggancio col
Si sarebbe sfigurato in una stonatura.
«Sapevamo.» ammise infine guardandolo
di nuovo, dopo aver appurato che l’abbozzo concentrico di pizzi postole innanzi
era geometricamente perfetto. «Personalmente speravo di evitare questa
chiacchierata, è spiacevole per me tanto quanto lo è per te. Se non te ne ho
parlato, come tra l’altro ha fatto tuo zio su mia richiesta, è stato per
risparmiarti questa pena tremenda. Kibum lo sa? Cielo, non oso immaginare il
tuo stato d’animo.»
Non osava farlo perché si sentiva in
colpa o per spassionato pietismo?
Non era sicuro di volerlo sapere.
«No, Kibum è all’oscuro di tutto.»
rispose atono.
«E tu come l’hai scoperto?»
«È un po’ lungo da spiegare, ma
sostanzialmente si è trattato di un caso.» forzato da Woohee, certo, ma non era
una bugia poi così lontana dalla verità.
«Mi sorprende: Jonghyun presta molta
attenzione ai suoi affari e soprattutto a come occultarli.» sospirò amareggiata
bevendo un sorso di shirozake. «In
ogni caso, la tua presenza qui ora mi è finalmente chiara: sei venuto per
investigare su tuo padre, vero?»
«Qualcosa del genere…» ammise.
Era indubbiamente esagerato chiamare
“panico” il tremolio impercettibile che scuoteva il suo corpo.
ShinHo riempì una seconda volta il
bicchiere di liquore e ripeté l’operazione una terza per farsi forza. Quindi cominciò
a raccontare, dopo avergli anticipato i tempi e la prolissità della storia.
La sensazione di star scoprendo
qualcosa di clamoroso suggerì a Taemin che la zia gli avrebbe perdonato una
postura più rilassata. Poggiato il sedere a terra e distese le gambe, si
assicurò di avere testa e predisposizione necessarie per imprimersi ogni parola
sulla pelle.
Voleva assorbire persino i respiri.
«Anzitutto, desidero tu sappia che tuo
padre non avrebbe mai inaugurato una tradizione del genere: quella di vendersi
ai clienti per assicurarsi la riuscita di un contratto è una maledizione
lasciatagli in eredità da nostro padre, nonché tuo nonno, il patriarca
Takahiro.»
«Nonno Seichiro?» chiese incredulo.
ShinHo annuì.
«Forse ti è già stato detto, ma devi
sapere che la bellezza del signor Takahiro era conosciuta ed apprezzata in
tutta la Corea e, prima che i rapporti tra le due nazioni deteriorassero, persino
in Giappone. Tuo nonno ha acquisito la nazionalità nipponica a trent’anni per
questioni prettamente economiche e, perché no?, di comodità. Viaggiava da un
paese all’altro due o tre volte al mese, ed era frustrante per lui, oltre che
seccante, litigare con la burocrazia straniera a proposito dei viaggi e dei
diritti che erano concessi solo ai nativi del luogo, specie se si considera che
era più il tempo che trascorreva nel Sol Levante che quello in cui poteva
tornare a casa dalla moglie e crescere i figli. Si può dire quindi che io e i
miei fratelli fossimo già in parte giapponesi sin dalla nascita.»
«E dunque? Qual è il nesso che lega le
due cose?»
«Calma, Taemin. La fretta è cattiva
consigliera. Ti avevo avvisato che sarebbe stato un racconto piuttosto
lungo.»
Taemin si morse le labbra pentendosi per
non essere stato capace di tenere a freno la lingua.
Che maleducato…
«Scusatemi, sono stato impertinente.
Proseguite, vi prego.»
«Dunque, dov’ero rimasta… ah, giusto.»
ShinHo fece scorrere il braccio lungo il fianco. «All’epoca la nostra famiglia
versava in condizioni precarie: eravamo aristocratici, sì, ma il titolo era la
sola cosa di cui potessimo fregiarci. Eravamo decaduti per via
dell’inettitudine del tuo trisavolo, nonché padre di tuo nonno, un uomo
assolutamente incapace di destreggiarsi sul mercato e di andare incontro alle
esigenze dei clienti. La sua visione nazionalista e protezionistica del mondo
delle finanze gli impediva di abbracciare nuove ideologie di confronto e
crescita che invece erano state adottate dai concorrenti. Nostro padre fu
costretto a lasciare gli studi per affiancarlo al lavoro e cercare di salvare
il salvabile, il tutto a soli diciassette anni.»
«Così giovane?»
«Non devi stupirti: anche Jonghyun ha
cominciato la sua carriera pressappoco a quell’età.» gli spiegò addolorata. «E
com’è logico pensare, l’inesperienza dell’allora giovane Seichiro non portò alcun
miglioramento tangibile, anzi: non portò proprio a niente. Tuo nonno era quel
tipo d’uomo poco incline ad accettare i fallimenti, non li trovava di alcuna
utilità per crescere ed imparare. Voleva tutto e subito, e quando “tutto e
subito” gli veniva negato cadeva in depressione. Ma non demordeva, vinceva lo
sconforto e riprovava. Viaggiava, incontrava sempre più persone, cercava di
vendere un’immagine di sé affidabile. E col tempo qualcosa effettivamente
cambiò: nacque la leggenda di un ragazzino dalla bellezza incantevole, questo
bimbo con le labbra ancora sporche di latte materno, figlio di un fallito che
stava trascinando la famiglia nell’umiliazione. Non si sa chi cominciò a
parlare di tuo nonno e a chi, come si possono fare solo congetture su come la
sua fama sia passata e cresciuta di persona in persona per meriti che non aveva
e doni di cui invece abbondava: il volto femmineo, la corporatura slanciata e
asciutta, la pelle bianca. In breve, divenne famoso e ricercato un po’ ovunque:
tutti volevano vedere coi propri occhi questo fenomeno da baraccone, più per
sfatare le credenze riguardo la sua innegabile bellezza ed umiliarlo che per
mero interesse agli affari. E fu proprio perché armati della convinzione di non
poter trarre nulla da un bambino che crollarono, rimanendo stregati dal suo fascino.»
Quelle che dovevano essere delle
premesse, a Taemin parvero delle conclusioni servite su piatto magrissimo:
indovinarne i risvolti fu insoddisfacente, farlo gli corrose la voglia di
intervenire costringendolo al mutismo.
«Penso tu abbia già capito come
prosegue la storia. Sì, tuo nonno cominciò a concedere prestazioni sessuali per
chiudere contratti. Non so dirti se sia stata un’iniziativa sua o una presa di
posizione imposta dai clienti: è più probabile la seconda, ma poco lede al
risultato finale. Ben presto, la voce trapelò all’orecchio delle sfere alte e
tutti, chi più chi meno, cominciarono a stipulare corrispondenze con le nostre
aziende. Inizialmente i profitti che riuscimmo a ricavare furono
insignificanti, e questo fu chiaro a noi tanto quanto alle altre industrie:
tante minuscole gocce, due monetine lasciate sulla scrivania dopo aver
infierito sul corpo di tuo nonno, un’umiliazione che suo padre piangeva in
silenzio, impotente: realizzare che la famiglia viveva, di stenti, certo, ma
pur sempre viveva, sulle spalle di un ventenne e sul suo vendersi per una
parcella miserissima, era un’onta tanto grande che lo condusse al suicidio.
Credo amasse troppo il figlio per sopportare la vista di cosa la sua incapacità
nel destreggiarsi nel mondo delle finanze aveva causato.»
Taemin trasalì inorridito.
«Sui…suicidio?» balbettò.
ShinHo sospirò volgendo lo sguardo
altrove, oltre l’intrico di rami d’acero che ghermiva la fievole luce
pomeridiana di un qualsiasi giorno di febbraio. Il freddo invernale era una
cornice squisitamente perfetta per un racconto tanto agghiacciante.
«A detta di tuo nonno, fu la sola cosa
buona che quell’uomo fece in tutta la vita. Seichiro odiava la debolezza di suo
padre, quella moralità da quattro spicci che gli impediva di conseguire i suoi
piani.»
«Piani??
Suo padre si era suicidato e lui pensava al lavoro?»
«Era un uomo molto ambizioso: lo
infastidiva ogni manifestazione di debolezza. Anche se inesperto, seppe sempre
cosa fare e come sfruttare a tempo debito le sue mancanze, e riuscire a creare
un circolo privato dove le sue prestazioni fossero argomento principale di
discussione fra i pilastri dell’industria coreana e giapponese fu indubbiamente
l’impresa di cui andò più fiero. Quando ciò accadde, la trappola era già scattata:
il corpo di Seichiro Takahiro era diventato l’unica valvola di sfogo e
intrattenimento per uomini ricchi dall’animo povero, un balocco preziosissimo
che mai e per nessuna ragione sarebbe dovuto venire a mancare. La dipendenza è
una brutta bestia, Taemin, specie quando questa è causata da un uomo che balla
sulle debolezze altrui rendendoti suo schiavo. E i profitti, ovviamente,
presero a lievitare, moltiplicarsi… quintuplicarsi.»
«È… è orribile.»
«Trovi orribile voler riabilitare il
nome della propria famiglia? O sono i mezzi a disgustarti? Figliolo, non essere
ingenuo: Seichiro era sì ambizioso, ma amava sua moglie e suoi figli come
qualsiasi uomo ama i propri cari. Avrebbe fatto l’impossibile per renderli
felici e garantire loro una vita decorosa, esattamente come Jonghyun sta
facendo ora con noi.»
Il mondo perse ogni ragione di
esistere.
Ciò che accadde poi, Taemin lo visse
con le lacrime agli occhi: suo padre, il suo adorato Jonghyun, si stava
immolando per la famiglia, quindi per lui.
Certo, adesso i Takahiro erano ricchi, e nessuno avrebbe avuto l’ardore di
negarlo. Ma non bastava, no: se avesse smesso avrebbero perso tutto cadendo in
disgrazia. Quello dello svendersi era un cerchio infinito, e non era difficile
intuire che il successore di Jonghyun avrebbe dovuto subire le stesse pene.
Quindi Kibum.
«No… non è possibile…» mormorò
portandosi le mani tra i capelli, gli occhi sgranati: si stava cibando
indebitamente del sacrificio della persona alla quale teneva più della sua
stessa vita, lo aveva lasciato solo ad affrontare un peso del genere senza mai…
già, senza mai cosa? Ringraziarlo?
Cielo, che cosa squallida! E scusarsi? Non ne aveva il diritto, non dopo
quindici anni spesi nell’ignoranza.
«Siamo tutti colpevoli, ragazzo,
parassiti che sopravvivono grazie al sacrificio prima di Seichiro, ora di
Jonghyun. Ma tuo padre è diverso: lui non ha avuto scelta, è stato costretto a
seguire le orme di tuo nonno ed ha già nominato il suo successore: non tu, non
Kibum. Un estraneo. Tiene più alla vostra felicità che all’onore, e vi troverà
sicuramente qualcosa di più dignitoso da fare in futuro. E i soldi non vi
mancheranno. Ora non so a chi lascerà l’eredità, i possedimenti terrieri e le
azioni delle aziende minori: ciò che è certo è che vivrete nella bambagia fino
alla fine dei vostri giorni. Jonghyun non permetterà a niente e nessuno di
infliggervi il dolore che lo sta uccidendo. Non puoi neanche immaginare quanto
sia grande l’amore che nutre per te e tuo fratello, Taemin.»
Poteva bastare.
Che ci fossero altre cose che
meritavano la sua attenzione, Taemin lo sapeva bene. Ad esempio perché Jonghyun
collezionasse le cravatte degli amanti, una fitta al cuore che ShinHo provò a
giustificare spacciandola per una punizione. Forse quell’atto di masochismo
gratuito si era evoluto in un fetish che lo aiutava ad andare avanti e
ricordarsi quanto nobile fosse la sua battaglia. Ovviamente i clienti non se ne
curavano, esaudivano i suoi capricci e, anzi, gradivano fantasticare su eventuali
incontri dove lo avrebbero visto indossare le cravatte che gli avevano donato.
Era probabile che avessero cominciato a vederlo una loro proprietà, e Taemin ne
soffriva immensamente. C’era poi la questione legata alla cravatta verde,
l’unica a differenziarsi e di cui ne reggesse effettivamente il peso, un
mistero a cui neanche ShinHo seppe dare una risposta, quindi una chiave di
lettura. Avrebbe potuto aspettare: erano altre, ora, le priorità su cui
focalizzarsi.
No, quella storia doveva finire. In un
modo o nell’altro avrebbe salvato Jonghyun.
Come aveva potuto… sì, insomma, avere
paura di suo padre? Dell’uomo che gli aveva dato un tetto, una figura di
riferimento, una speranza per il futuro e soprattutto tanto, troppo, amore?
«Stai bene figliolo? Non hai un bel
colorito. Devo chiedere ai domestici di portarti un dolcetto? Dello wagashi?»
Taemin si alzò. Erano trascorsi due
giorni dacché aveva visto Jonghyun l’ultima volta. E gli mancava. Da morire.
Come uno spartito vergine attende di venire sporcato di china arrangiata in
note, un pianoforte morto che resuscita quando qualcuno ne sfiora i tasti, o
semplicemente un figlio che non sa cosa fare senza la guida e la protezione del
padre.
«Stai andando da qualche parte?»
«Sì…» rispose sorridendo. «…dal mio
fantastico papà.»
# Kyoto, 18th July 1925
Drops’ Present (6)
A
sette anni, Taemin aveva imparato che il termine “coraggio” aveva più
significati del numero di forme e colori visti attraverso un caleidoscopio.
Avere
il coraggio di accettare la morte e di lasciare andare i defunti; avere il
coraggio di capire che sostanzialmente la vita era una battaglia per la
sopravvivenza, dove molte volte perdere era una scelta obbligata; avere il
coraggio di riconoscere come nemici una madre e un fratello, a conti fatti,
affettuoso; ma anche avere il coraggio di essere sinceri con se stessi, il che
implicava sofferenze non comuni quando, incontrando lo sguardo della persona
amata, indietreggiavi mosso dalla consapevolezza che mai e poi mai ti sarebbe
appartenuta.
A
vent’anni, Taemin si reputava sostanzialmente un codardo. Non che lo fosse,
perlomeno non nelle misure che chiunque gli avrebbe attribuito conoscendo ciò
che stava attraversando. Ma crescere era inevitabile, così come cambiare
prospettive e punti di vista. E crescere comportava nuove tipologie di
confronto, sfide sempre più difficili da vincere, e una cognizione del mondo
che gli occhi di un bambino non hanno impressa sulla retina.
Infine
c’era la logica trasversale, il suggello di una catena di pensieri ed episodi
crudeli nella loro semplicità. Le favole, ad esempio. Da bambino imparavi a riconoscerle
dalle formule d’apertura e chiusura: “c’era una volta” e “e vissero per sempre
felici e contenti”.
Per
come vedeva le cose, l’amore era una virgola fiabesca estrapolata dal periodare
amaro della vita, ma non era quello il punto, no. Il punto era che nella vita
di tutti i giorni le cose andavano a ritroso. Anche in amore. Si cominciava con
“e vissero per sempre felici e contenti”, quei primi momenti trasfigurati
dall’amarsi reciproco nel tripudio dei cliché smielati – rose, baci su baci,
carezze, “ti amo” sussurrati all’orecchio, mani intrecciate, l’atto del
cercarsi o del sentire la mancanza l’uno dell’altra –, per poi finire a “c’era
una volta”. Perché le fiabe erano fatte per morire, per questo crescendo si
smetteva di crederci.
Taemin
provava a consolarsi così, convincendosi che una possibile relazione con
Jonghyun sarebbe esplosa un giorno nell’ordinario, trasformandosi da virgola e
respiro tra un periodo e l’altro a punto secco. Ci provava, davvero. Che poi i
risultati fossero disastrosi, quello era un altro paio di maniche.
Il
vorticare di considerazioni senza capo né coda venne interrotto da una serie di
battiti poderosi contro lo stipite della porta. Si impegnò per distogliere lo
sguardo dal giardino, ora avvolto dall’incombere della notte: ombre bislunghe
frastagliavano le sponde del lago, ombre che portavano fetore di tempesta e
scandivano il poco tempo rimastogli prima dell’inizio del ricevimento.
Di
lì a poco avrebbe cominciato a piovere. Non sapeva decidere se la cosa lo
allietasse o meno.
«È
aperto.» disse svogliato, per nulla entusiasta all’idea di subire un nuovo
terzo grado di Kibum. E chi altri avrebbe potuto essere? Glielo aveva anche
anticipato che sarebbe tornato per assicurarsi che avesse fatto tutto come dio
comandava.
“Mi
sento fondamentalmente una balia, ecco cosa. Vi giuro, fratello, se dovessi
morire di crisi nevrotiche per colpa vostra, tornerò dal di là per portarvi il
di là di qua.”, lo aveva minacciato brandendo un paio di mocassini in una mano,
delle derby nell’altra e delle scarpe verniciate… non avrebbe saputo bene dire
dove.
Kibum
non smetteva mai di sorprenderlo.
«Quel
completo dona più a te che a me, lo sai?»
La
voce che gli perforò i timpani consumò l’impasto melmoso di tranquillità che
aveva faticosamente incollato alle proprie viscere. Un pezzo di sagacia, un
ritaglio di spavalderia, un brandello di egoismo… il collage volò via
lasciandolo nudo. Non riconobbe Kibum nel susseguirsi di passi sempre più vicini,
l’irruenza con cui si palesava catturando l’attenzione dei presenti.
Quello
era Jonghyun.
La
sua presenza lì, Taemin la trovò inspiegabilmente inopportuna. Neanche se la
ricordava l’ultima volta, se mai c’era stata una prima, in cui aveva ritenuto suo
padre inopportuno.
Si
disse che era per l’inconveniente di poche ore prima, quello avuto con la
sarta. Ma saperne le cause non lo aiutò a dissipare il desiderio di cacciarlo,
onde cadere in discussioni sommarie che lo avrebbero fatto immancabilmente
patire.
«Cosa
vi porta qui?»
Avrebbe
voluto essere più cordiale. Più disponibile. Ma non gli uscì un granché bene. E
ovviamente Jonghyun, che tutto poteva dirsi tranne che stupido, lo notò.
«Sei
arrabbiato con me per l’incidente di pocanzi?»
No,
non arrabbiato. Deluso forse. O offeso. O entrambe.
«E
come potrei? Non vedo ragioni per cui dovrei esserlo.» sospirò sconsolato.
«E
fai male.»
«Vi
prego, gradirei evitare di parlarne. Se mi conoscete come professate, saprete
meglio di me che mi è impossibile recarvi rancore.»
Jonghyun
non rispose, portandosi con poche e larghe falcate al suo fianco.
Taemin
sorrise inconsapevolmente avvertendo le loro spalle sfiorarsi. Lo trovò un
contatto intimo, e non poté fare a meno di chiedersi se anche il cuore di
Jonghyun avvertisse il palpitare frizzante dei loro muscoli.
Non
si allontanarono.
«Perché?»
si sentì chiedere dopo qualche secondo di silenzio.
«Perché
cosa?»
«Il
tuo affetto, Taemin, io non riesco proprio a capirlo. Al di là del fatto che
sono tuo padre, ci sono delle volte in cui mi chiedo perché tu mi sia tanto
fedele pur sapendo che razza di persona io sia. Non delle migliori, eh?»
«Vi
siete già risposto.» incrociò le braccia al petto indignato: odiava sentire
Jonghyun parlare di sé in quel modo, ostentando la totale incapacità di
autogiudicarsi con criterio. «Siete mio padre.»
Suonò
quasi come un insulto. Alle sue orecchie perlomeno. O una condanna.
L’impedimento che marcava il confine del rapporto “padre-figlio” con quello
“uomo-uomo”.
«Kibum
non si comporta come te, e non sa niente dei miei affari di lavoro…»
«A
suo modo vi vuole bene, se è questo che vi angoscia.»
«Non
lo metto in dubbio.» gli rispose Jonghyun distogliendo lo sguardo dal panorama
per intrecciarlo al suo. Taemin si sentì avvampare. «Sai… confesso che,
guardando l’uomo che sei diventato, mi sento indegno di sentirmi chiamare
“padre” da te.»
«E
perché mai, di grazia? Se non fosse per voi, a quest’ora io-»
«Di
tanto in tanto mi soffermo a guardarti mentre pratichi il kyudo.» lo interruppe. Stava cominciando ad abituarsi a quel vizio:
tutti si sentivano in dovere di troncare a metà i suoi interventi. Tutto
sommato, però, gli stava bene. «Riesci in qualsiasi cosa tu faccia. È lodevole
il modo in cui ti applichi per emergere. In quei momenti, mi conforta sapere
che qualche desiderio di rivalsa ce l’hai anche tu.»
…desiderio
di rivalsa? Lui?
«È
così che mi vedete?» chiese sorpreso.
«Mi
sono forse sbagliato?» fece Jonghyun a sua volta stupito.
Vuotare
il sacco non avrebbe migliorato la situazione, ne era consapevole. Ma non
riuscì a trattenersi dal correggerlo.
La
mente cedette il passo ai sentimenti.
«Io
mi applico unicamente per soddisfare voi e rendervi fiero. Che poi il kyudo mi piaccia, si tratta solo di una
fortuita coincidenza.»
Il
volto di Jonghyun si contrasse in un surrogato prima di sorpresa, poi di
imbarazzo.
Avrebbe
mentito dicendo che quella reazione era la contropartita equa per bilanciare
l’offesa subita, che Taemin sentiva ancora bruciare sullo zigomo e
dissotterrare asperità che credeva appianate. Tipo il conto aperto col destino,
che certo non si era fatto scrupoli nel darlo in affidamento all’uomo di cui,
guarda caso, si era innamorato. O con lo stesso Jonghyun, per avergli rifiutato
una mano amica, un aiuto, una spalla su cui piangere. Qualcuno insomma che si
prendesse cura di lui allo stesso modo in cui lui si faceva carico dei problemi
altrui.
Taemin
trovava curioso il fatto che la qualità che più di tutte amava di lui fosse al
contempo la più disprezzabile. Ammirava la forza con cui affrontava i problemi,
avrebbe voluto emularla; allo stesso tempo la odiava perché gli impediva di
raggiungerlo e dirgli “non importa quello che provo per voi, mi sono rassegnato
tempo addietro all’unilateralità del mio sentimento. Ma vi prego, vi imploro:
non cacciatemi per pudore, non tenetemi lontano. Lasciate che vi aiuti senza
debiti o doppi fini. Fatemi essere, per una volta, un figlio e niente più,
perché io non ricordo un solo giorno in cui voi siete stato la ragione per cui
vivo e niente meno”.
Solo
i cieli sapevano quanto fosse ridicolmente falsa quell’affermazione.
La
vita era ridicola. Era naturale che guardandosi indietro tutto sembrasse
ugualmente ridicolo. I suoi trascorsi, i tentativi fasulli di arginare
quell’amore dirompente, come si fosse sforzato senza convinzione di credere
che, crescendo, ogni cosa avrebbe trovato il suo posto in un mondo retto dal
disordine e dalla predisposizione all’espandersi.
No,
non era tanto la vita a essere ridicola. Almeno lei un minimo di logica nella
sua illogicità ce l’aveva.
Quello
ridicolo, lì, era lui. Nessun altro.
Il
rumore del via vai concitato dei domestici fuori dalla camera di Taemin scandì
gli attimi di agonia ai quali si erano appesi entrambi per evitare un confronto
immediato. Contro ogni aspettativa, suo padre non diede segni di voler prendere
una posizione al riguardo, piuttosto curiosa come cosa. Non era da lui lasciare
libertà d’azione al prossimo. Taemin, invece, che era abituato a lasciarsi
guidare dall’autorità del padre, si trovò per la prima volta nella spiacevole
situazione di dover far capo all’imbarazzo dell’uno e dell’altro senza avere i
mezzi per farlo.
Indugiò
sull’immagine riflessa nei vetri della porta, trovando improvvisamente tristi i
due uomini ivi barricati: erano vicini, indubbiamente, forse più vicini di
quanto gli originali fossero nella realtà, accumunati da un dolore che certo
aveva origini diverse, ma scuoteva entrambi portandoli all’esasperazione.
La
cravatta verde di Jonghyun non riuscì a infondergli calma alcuna.
«Voi
mi disprezzate, vero?» sussurrò a voce così bassa che per un attimo, visto il
silenzio che ricevette di risposta, si convinse di non aver parlato.
Forse
il suo era un monologo interiore o qualcosa del genere. Nelle rappresentazioni
teatrali era un espediente che andava molto di voga tra gli appassionati di
tragedie.
Mosso
da quel credo, continuò.
«Pensate
che io sia un miserabile, o che il mio sia il capriccio di un infante atto a
ricevere più attenzioni di quelle che già non ha.»
Ancora
silenzio.
«È
per questo, no?, che continuate a trattarmi come fossi un bambino.
Fondamentalmente ai vostri occhi sono immaturo. Non mi ritenete affatto un
uomo, non mi avete mai visto e mai mi vedrete tale.»
«Ti
sbagli.» rispose improvvisamente Jonghyun mozzandogli il respiro di netto. «È
perché ti ho sempre visto come un uomo,
malgrado i tentativi per non farlo, che non sono mai riuscito ad amarti come un
figlio.»
Di
nuovo silenzio.
Quella
confessione non aveva niente da invidiare, in quanto a impatto, a un terremoto.
Ed era così che Taemin si sentiva effettivamente, come se le terre si fossero
improvvisamente spaccate in due e lo avessero inghiottito chissà dove.
Annaspò,
gli occhi sgranati e lucidi.
Cosa
significavano quelle parole? Possibile che, dopo sedici anni di aspettative,
tradite puntualmente dallo stesso uomo che ora, sì, proprio in quel momento,
gli stava dando finalmente un cenno,
la fantomatica luce si fosse accesa in fondo a un tunnel fatto di abnegazioni?
Sedici
anni spesi a guardarlo da lontano, sedici anni a lottare per fingersi vicino a
lui, sedici anni per capire che era tutto vano senza però gettare la spugna.
Sedici
anni compressi in secondi da poche, se prese una per una insensate, parole.
«Io…
non capisco, padre.» ed era sincero, benché la speranza agevolasse la nascita
di congetture che sarebbero morte in un niente se solo il volto di Woohee fosse
affiorato tra i suoi ricordi. Ma Woohee era lontana ora, e per quel che lo
riguardava avrebbe continuato a tenerla a distanza finché lui e suo padre non
si sarebbero chiariti definitivamente.
Jonghyun
sorrise al vuoto dandogli una pacca sulla spalla, un gesto che Taemin aveva
sempre considerato “da uomo a uomo”.
Anche
quella era un’esperienza nuova.
«Immagino
sia un luogo comune a tutti i padri che hanno adottato un ragazzino più abile,
dotato e bello del proprio figlio. Vorrei riuscire a credere che il motivo per
cui mi è difficile inquadrarti come tale sia perché sei a tutti gli effetti una
minaccia per Kibum, ma sarebbe una bugia.»
«Continuo
a non capire. Non è che vi stiate impegnando un granché…»
«Ma
non c’è niente da capire, Taemin, al di là del fatto che non è vero che ti
disprezzo o che ti credo un miserabile. Anzi: per quanto ritenga che siano
sbagliate le motivazioni che ti spingono a dare anima e corpo in quel che fai,
sono lusingato dal tuo affetto, davvero.» Jonghyun prese una boccata d’aria
scrollandosi di dosso ogni esitazione. «Se non altro, malgrado sia stato un
pessimo rimpiazzo, sono riuscito a farmi amare da te come fossi una sorta di
padre.»
Quello
doveva essere un incipit di chiusura.
Taemin
non lo accettò. Sedici anni, continuava a ripetersi. Sedici anni per arrivare a
quella conversazione.
L’argine
si ruppe, fu assolutamente involontario, e benché gli fosse poco chiaro cosa
stesse succedendo, quando si vide allungare le mani e stringere le spalle di
Jonghyun capì di non essere disposto a indietreggiare di un solo passo.
Niente
ripensamenti. Stavolta sarebbe andato avanti. Meglio approfittarne di
quell’attimo di spregiudicatezza: ci sarebbe stato tempo dopo per piangersi
addosso e desiderare cancellare tutto in un mare di pianti isterici. Perché
Jonghyun, ormai, era diventato un nome scritto con la punta delle dita sulla
sabbia bagnata dalle onde: tergiversare ora, lo avrebbe fatto scappare. E
lasciarlo andare arrivati sin lì era tutt’altro che facile. Anzi: era
semplicemente impossibile.
«Stavolta
siete voi a sbagliarvi.» disse con voce seria, stringendo con quanta più forza
aveva in corpo le spalle dell’uomo: mai avrebbe creduto di avere il fegato di
fronteggiare apertamente Jonghyun come stava facendo. «Per me voi non siete mai stato solo un padre.»
Non
gli diede il tempo di fraintendere quello che aveva detto, quindi di assistere
alla nascita di un dolore ingiustificato. Proseguì.
«Ricordate
quando mi avete aiutato a studiare Platone e siamo finiti a parlare delle
cinque vie d’applicazione delle virtù confuciane?»
Visibilmente
smarrito, Jonghyun annuì.
«E
ricordate anche come vi avevo inquadrato fra tutti i rapporti?»
«Certo
che lo ricordo. Anche in quell’occasione sei riuscito a mettermi in imbarazzo.
Devi avere un talento innato, non c’è altra spiegazione. Ma perché ne stiamo
parlando?»
«Per
me le cose…» “respira, Taemin, non puoi cedere adesso”. «…sono cambiate.»
«È
comprensibile, sei cresciuto molto da allora. E come mi vedi ora?»
«Prima
di rispondervi, vorrei rigirarvi la stessa domanda.» chiuse gli occhi e
deglutì. Lentamente, percorse coi polpastrelli il profilo di Jonghyun fino a
serrargli il volto tra le mani. «Io… io cosa sono per voi, se è vero che non mi
ritenete vostro figlio?»
Non
era facile prendere in contropiede suo padre. Per questo Taemin si sorprese e
non poco di vederlo impallidire. Un accenno, chiaro, un velo di smarrimento più
che giustificato. Tutti reagivano così vedendosi porre innanzi sfide mai
affrontate. Quell’intraprendenza doveva essere per lui una novità, qualcosa di
scomodo. Perché la verità bruciava, Taemin lo sapeva meglio di chiunque altro.
Quante
lacrime aveva sperperato in una causa che fino a quel giorno gli era sembrata
persa?
Quante
delusioni aveva dovuto digerire specchiandosi negli occhi di Woohee? Dopotutto
Jonghyun era suo marito, e quello era un dato di fatto che nessuno avrebbe
potuto cambiare, men che meno per soddisfare lo sfizio di un ragazzino.
Jonghyun
lo guardò a lungo, letteralmente pietrificato. I ruoli del padre e del figlio
si erano sorprendentemente capovolti, ed era lui ora quello che, alla mercé
dell’altro, annaspava nel tocco cordiale delle dita di un ventenne. Aveva
sempre pensato che Taemin avesse delle belle mani, gentili come poche: sentirle
sul proprio volto avide di risposte lo disorientò più di quanto già non accadesse
semplicemente parlando col proprietario.
«Tu…
sei Taemin. Non esistono altri modi in cui potrei chiamarti. Vai al di là di
tutto.»
«In
che senso?»
«Credo…credo
di non avere una risposta a questo, ragazzo. Sei talmente assoluto che non
esistono aggettivi che possano renderti grazia.»
Taemin
fece per allentare la presa, abbandonare le braccia lungo i fianchi rassegnato,
quando le mani di Jonghyun si posarono sulle sue obbligandolo a prolungare il
contatto.
«No.»
si sentì dire: Jonghyun non gli avrebbe permesso di scappare con la coda tra le
gambe, di assaporare lo sconforto di un nuovo rifiuto. «Non ti lascerò andare finché
non mi avrai detto cosa io, invece, rappresento per te.»
«Voi
non capite…»
«No,
sei tu quello che non capisce quanto tu sia importante per me.»
«Importante?»
chiese dispensando un sorriso abbattuto. «Come si fa a ritenere importante
qualcuno per il quale non sapete neanche cosa provate?»
«Io…»
«Mi
chiedete come vi vedo, cosa rappresentate per me…» proseguì disegnando col
pollice il contorno delle labbra di Jonghyun: le trovò morbide, più morbide di
quelle che aveva saggiato innumerevoli volte nei sogni. «…ho trascorso gli
ultimi anni adorandovi alla stregua di un dio, anteponendo la vostra felicità
alla mia e desiderando essere la cravatta che indossate ogni sacrosanto giorno.
Io… non potete lontanamente immaginare quanto la invidi: ho pensato più e più
volte di strapparvela e bruciarla, urlandovi che non avevate bisogno di lei
quando c’ero io al vostro fianco. Non so se sia sbagliato desiderare essere un
oggetto, ma…» respirò a fondo chiudendo gli occhi: non voleva vedere
l’espressione disgustata di suo padre quando si sarebbe confessato. «…vi amo a
tal punto che preferirei essere una stupida cravatta senza vita, se questo mi
permettesse di alleviare le vostre sofferenze semplicemente standovi accanto.
Perché niente di quello che faccio vi è di alcuna utilità per strapparvi anche
solo un magrissimo sorriso.»
Jonghyun
allontanò improvvisamente le mani dalle sue. Naturale, che altro avrebbe potuto
aspettarsi? Quale padre non avrebbe odiato il proprio figlio, o qualunque cosa
lui fosse per Jonghyun, a fronte di una simile dichiarazione?
Si
impose di non piangere, e si stupì di come le gambe riuscissero a reggere il
peso dello sbaglio appena compiuto. Non si aspettava una risposta, a meno che
lo sbattere di una porta non fosse da interpretarsi come tale. Per questo si
sorprese quando la voce di Jonghyun risuonò tra le pareti della camera, gravida
di imbarazzo.
«Taemin…»
lo chiamò poggiando le dita bollenti sui suoi occhi ancora chiusi. Qualcosa di
caldo gli accarezzò le labbra, una brezza torrida. «Se mi si dovesse chiedere
di scegliere tra questa cravatta e te, non avrei alcun dubbio: tu sei… infinitamente più importante di un
ricordo ormai sigillato dentro alla tomba di mio padre. Questa cravatta mi
tiene legato al passato. Tu, invece, sei il mio presente, un presente al quale
mai e poi mai rinuncerei.»
Taemin
arrossì incredulo. Forse aveva capito male. Forse quel pizzicore umido non era
la premessa di un pianto. Forse ancora stava semplicemente sognando, e i buoni
propositi avevano falsificato la realtà.
O
forse stava accadendo tutto per davvero.
Deglutì
cercando di protrarre le braccia in avanti. Fu solo quando queste sbatterono
contro il petto di Jonghyun che realizzò quanto gli fosse vicino.
Deglutì
ancora, più forte. E percorrendo nuovamente i contorni del suo volto alla
cieca, incappò presto nei capelli, ai quali si aggrappò disperato.
Quindi
ansimò, scosso da tremiti eccitati.
«Mi
avete fatto il più bel regalo di compleanno che potevate farmi, davvero.»
gorgogliò continuando a esplorare il corpo dell’uomo con le mani.
«Non…lasciatemi rovinarlo, vi prego.»
«R-rovinare?
Cosa intendi pe-»
Jonghyun
non oppose resistenza. Anzi, a voler essere sinceri non fece proprio nulla.
Forse pensò di non aver mai baciato nessuno prima, o che quello che lui e
Taemin si stavano scambiando non fosse affatto un bacio, tanto lo sconvolse. Di
sicuro non prese in considerazione l’idea di allontanarsi, tornare sui binari e
biasimarsi mentalmente perché, sì, le labbra che sentiva come tizzoni ardenti calcate
sulle proprie erano quelle del figlio. Fu solo quando avvertì il proprio corpo
cedere, e quello del giovane persistere nel cercare furioso il suo tocco, un
apprezzamento, un cenno qualsiasi insomma, che capì fondamentalmente tre cose.
La
prima: non vedeva nulla di sbagliato o raccapricciante. Niente a che spartire
con le caricature goffe e stemperate di Woohee, no: quello era il bacio che non
aveva mai dato, e che in genere pochi fortunati avevano il privilegio di dare,
non tanto per il gesto quanto per chi c’era dall’altra parte. Il bacio
dell’amore.
La
seconda: quella era la miglior cosa che gli fosse mai capitata, che cancellava
anni e anni di umiliazioni in uno stupidissimo espediente, insignificante se
posto a paragone con ciò che stava provando ora.
La
terza: Taemin non era affatto suo figlio.
E per la prima volta ringraziò gli dei per non averglielo mai fatto vedere sotto
quella luce.
L’attimo
in cui ne prese atto, inciampò goffamente nel tentativo di Taemin di scappare.
Tipico comportamento da adolescente: lanciare il sasso per poi ritirare la
mano. Era semplicemente adorabile la contraddizione su cui si basava e
alimentava il suo essere. Eppure quel gesto codardo, contrapposto alla passione
con cui gli si era letteralmente scagliato addosso, gli sembrò quanto di più virile
avesse mai saggiato sulla propria pelle. In questo caso lingua.
Fu
questione di secondi: l’attimo prima Taemin si divincolava, probabilmente
esterrefatto dalla sagacia con cui si era imposto. Quello dopo soccombeva,
stretto nella spira delle sue braccia, infinitamente più possenti e robuste. In
effetti quella fu la prima volta in cui ebbe l’occasione di tastare
concretamente il corpo del figlio. Lo scoprì più esile di quanto si potesse
credere guardandolo. Non femminile, no: le forme erano indubbiamente quelle di
un uomo. L’inganno stava più che altro nella totale assenza di muscoli che
snelliva le forme esibendo un’ossatura pronunciata. Se l’occasione non fosse
stata quella che era, si sarebbe sicuramente chiesto se mangiava a sufficienza.
Ma avvertire il desiderio del figlio premergli contro la coscia non lasciava
spazio ad altri pensieri.
Lo
strinse più forte e, dopo aver studiato meticolosamente l’ansia disegnata
nell’incurvatura delle sopracciglia del giovane, chiuse gli occhi. Seppe di
star facendo la cosa giusta quando, schiudendo le labbra, accolse finalmente la
lingua di Taemin ricambiando il bacio. Contemporaneamente, Taemin sussultò notando
quell’improvvisa, ma non per questo sgradita, per dio!, svolta. E sorrise,
sorrise come non aveva mai fatto in vent’anni di vita: sorrise contro le labbra
del padre, sorrise quando il dolore precedette la consapevolezza che Jonghyun
gli stava tirando i capelli, sorrise all’uomo che amava e che, miracolo!, a
quanto pareva provava qualcosa di simile nei suoi confronti.
Lui,
Jonghyun stava baciando proprio lui, Takahiro Shusei. No, anzi: Kim Taemin.
Sbagliato ancora.
Lee
Taemin.
Gli
sembrò quasi crudele che per recuperare la suo nome avesse dovuto patire il
bacio dell’amato: era troppo fiabesco per vendere una parvenza logica. Ma come
già detto la vita era illogica, quindi perché stupirsene e dare più peso del
necessario alla faccenda?
«P-padre,
io-»
«Non
voglio più sentire quella parola uscire dalla tua bocca.» lo intimò Jonghyun
tra un bacio e l’altro, la voce roca e spezzata dal concatenarsi di carezze.
Mani
che si cercavano, mani che si incontravano, mani che lottavano per prendere il
possesso le une delle altre. Brividi sulla schiena, il trucco che Kibum aveva
diligentemente applicato sul suo volto ora scemato fino alle guance, le stesse
guance che Jonghyun aveva catturato innumerevoli volte tra i denti.
«Il
mio nome, Taemin. Di’ il mio vero nome.» gli ordinò all’orecchio, un sibilo
appena percettibile.
Arrossì,
ma non per questo scappò. Che motivi aveva di farlo?
«J-Jonghyun.»
balbettò timido.
«Dillo
ancora.»
«Jonghyun.»
«Più
forte!»
«JONGHYU-»
Il
tempismo, alle volte, era più seccante dei capricci di Kibum. I due lo
realizzarono quando udirono la voce di una domestica interromperli da dietro la
porta. Poi tre battiti, per sottolineare l’incombere dell’ingombro che li aveva
costretti a separarsi e a darsi una scrollata veloce agli abiti spiegazzati.
«Avanti.»
fece Jonghyun una volta accertatosi che erano in condizioni non disdicevoli per
ricevere ospiti.
E
a proposito di ospiti…
«Chiedo
scusa.» esordì la signora Rangiku affacciandosi alla stanza con aria
circospetta: possibile che avesse visto qualcosa? Non era un’ipotesi da
escludere, vista la trasparenza degli shoji.
Taemin
chinò il capo imbarazzato volgendo l’attenzione fuori dalla finestra.
«La
signora Woohee mi ha mandata a informarvi che i primi ospiti sono arrivati. Si
tratta di vostro fratello Seungho, sua moglie e il conte Jirobai,
scortato dai figli.»
«Arriviamo.»
rispose Jonghyun: la sua voce era ancora un po’ roca, dettaglio che la donna,
se notò, badò bene a tacere. Infine, così com’era arrivata, se ne andò. E il
silenzio che cadde poi, rotto dall’incedere di passi verso il corridoio –
perché effettivamente non era cortese far attendere gli ospiti – convinse
Taemin che arrivare alla festa senza una cravatta-catalizzatore, specie ora che
l’abito e il trucco lo avevano abbandonato, era una pessima idea.
Scacciò
varie ed eventuali elucubrazioni sfiorando il braccio di suo padre… no, di
Jonghyun, per calmarsi. E quando Jonghyun gli sorrise, impacciato nei modi ma
elegante nel suo ostentarlo, si convinse che avrebbe potuto affrontare qualsiasi
ostacolo.
# Kyoto, 10th February
1922
Dust’s Memories – The last one (VII)
Sbagliare era normale, nessuno avrebbe
detto il contrario. Tutti lo facevano, seppur inconsciamente, sospinti
dall’arroganza atavica che caratterizzava la natura dell’uomo. Sbagliare era
l’unica, seppur sgradita, contaste della vita. Erano pochi, però, quelli che
riconoscevano i propri errori.
Sobbarcarsi la responsabilità di uno
sbaglio richiedeva un eroismo spropositato: era più facile aggirare l’ostacolo,
saltarlo a piè pari e andare avanti, più pratico convivere con la coscienza
sporca e fastidiosamente molesta. Ma se davvero voleva avvicinarsi a Jonghyun,
Taemin sapeva che non avrebbe potuto, e soprattutto dovuto, eludere la sfida
che gli si presentava innanzi.
Trovare suo padre non fu affatto
difficile come invece aveva sperato: seduto sulle sponde del lago, lo intravide
mirare il lento perpetuarsi del tempo scandito dall’incresparsi delle acque e
dagli scoiattoli che saltavano di ramo in ramo per sfuggire al freddo. Era
un’abitudine occasionale quella, e spiacevolmente amara. Col senno di poi,
Taemin aveva capito che abbandonarsi alla brezza lacustre, quale che fosse la
stagione, era uno stratagemma sedativo anteceduto da un incontro d’affari. Ma
coi “poi”, come coi “forse”, non si andava da nessuna parte: “poi” implicava un
passato vergognoso fatto di inettitudine e serafica trascuranza del dolore altrui,
di un uomo che ai suoi occhi, alla luce di quanto scoperto, era l’incarnazione
delle contraddizioni, vigenti e non, di quel mondo. E mai come allora, Taemin ne
era stato attratto.
Jonghyun era il classico uomo che a
prima vista raggelava il sangue, imbalsamato in una spirale di costrizioni e
modi esageratamente rigidi senza fine: scoprirlo vulnerabile, debole, o più
semplicemente umano, era stato
traumaticamente meraviglioso. Paradossalmente parlando, scorgere il seme della
paura, asfissiato nell’intreccio di rovi e di arbusti che abitavano il suo
cuore, gli aveva permesso di elevare l’opinione che aveva di lui a livelli
inimmaginabili, la stessa opinione che per due giorni aveva vacillato tra il
“deplorevole” e l’“immorale”.
Jonghyun era di sicuro la cosa più
perfetta sui cui avesse mai posato lo sguardo.
Inspirò a fondo, e il petto collassò:
spostare il peso quasi insignificante degli arti da una gamba all’altra fu
un’esperienza onirica. Camminava, sì, o forse fluttuava. Questione di
prospettive. Ciò che non cambiava era l’ingrandirsi progressivo della schiena
di Jonghyun. Anche il profumo degli aceri si faceva via via sempre più
pungente. E la fragranza stucchevole dei fiori, mischiata a quella del padre,
ora incredibilmente vicino, gli offuscava la vista. Troppo vicino. Se avesse
teso le braccia, gli avrebbe sfiorato la testa ciondolante.
All’ultimo si ritrasse. Spaurito, si
sedette invece al suo fianco senza proferir verbo, nauseato dal vorticare
incessante della terra sotto i suoi piedi. Nessuno dei due parlò, ma non se ne dispiacque:
si diceva che in certi frangenti il silenzio valesse più di mille parole,
discorsi pomposi che lasciavano il tempo che trovavano e il sapore del vuoto in
bocca. Ecco, quello doveva essere uno di quei famosi momenti.
Rimasero fermi a contemplare l’orizzonte
tetro. L’erba umida e rinsecchita del prato solleticava i loro palmi poggiati
al suolo, le dita protese verso quelle dell’altro. Taemin ci mise un po’ a
realizzarlo, molto di più a capire come esprimere il suo dispiacere senza
guastare la pace che si respirava nell’aria. Guardare altrove lo avrebbe
aiutato a farsi forza, per questo continuò a studiare distrattamente il lago
mentre allungava i polpastrelli e sfiorava finalmente quelli di Jonghyun. Un
tocco gentilissimo, delicato quanto il battito d’ali di una farfalla. Chissà
come avrebbe accolto quel gesto, l’audacia sfrontata che stava dimostrando, si
chiese intrecciando le loro dita e aderendo completamente le mani in una
stretta granitica. Quindi attese, perché ora spettava all’altro muovere le
pedine.
Ma non accadde nulla. Anzi, dire nulla
fu quasi una perifrasi, che marcò il pascolare senza meta delle sue
aspettative.
Taemin rabbrividì, la fronte imperlata
di sudore: scoprire quanto pazientare fosse ostico, specie quando la certezza
di essere lì lì per subire lo scacco matto era più che mai vicina, fu la
punizione che ricevette per aver osato tanto.
Avrebbe accettato qualsiasi cosa: un
insulto, una lavata di capo, delle spiegazioni… persino la richiesta di
andarsene, se questo fosse servito a sanare l’incrinatura abbozzata sul loro
rapporto.
E invece niente. Non ottenne un bel
niente.
Il dubbio di aver sbagliato di nuovo lo assalì rapido saturandogli
le vene.
Stupido, si disse chinando il capo deluso.
Stupido, si ripeté passandosi la
lingua tra i denti.
Incredibilmente stupido. Ecco cos’era.
Stupido.
Fece per alzarsi, e snodare così la
presa: ci aveva provato ed era andata male, inutile insistere. Se non altro,
ora avrebbe potuto mentire a se stesso e crogiolarsi nella bugia di aver fatto
il possibile. In futuro, forse, le cose sarebbero cambiate: dopotutto lui era
Taemin, anzi Shusei, e Shusei era famoso per il suo vivere di speranze.
Si mosse rannicchiando una gamba al
petto per farvi leva e scappare lontano. Fu solo quando si separò concretamente,
quando il calore dell’altro si depennò dalla sua pelle, che ottenne il miracolo
pregato: improvvisamente si sentì afferrare e tirare indietro, precipitare con
un tonfo sordo a terra e un dolore lancinante al fondoschiena poco dopo.
Quella fu sicuramente una delle cadute
più dolorose e contemporaneamente piacevoli di tutta la sua vita.
Si voltò stupito e, se possibile, lo
spettacolo traumatico snodatosi sul volto dell’uomo ampliò ulteriormente il suo
smarrimento.
Jonghyun stava piangendo. Lacrime
bollenti sgorgavano dai suoi occhi, che notò essere gonfi, pregni di disagio e
umiliazione.
«S-scusa.» singhiozzò senza però
guardarlo. «Se puoi farlo, perdonami.»
Taemin non rispose, esterrefatto dalla
situazione. C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quel capovolgimento di
ruoli: perché Jonghyun si stava scusando? Possibile che si vergognasse dei
sacrifici che stava compiendo per la sua famiglia? Cielo, era inconcepibile!
Era lui quello che aveva frainteso il suo amore e, ben più grave, gli aveva
voltato le spalle. Lui, che tanto aveva sempre detto di amarlo. Lui, che la
sera attendeva ancora le sue visite e la lettura di un libro di fiabe come un
bambino.
Lui, maledizione, lui! Non Jonghyun.
Lentamente, poggiò la fronte sulla sua
schiena, che scoprì avviluppata nell’ormai familiare nodo di preoccupazioni funeste
dovuto all’accettarsi per l’essere sporco e corrotto che era. E fu proprio
mentre respirava il profumo della giacca che aveva deciso di indossare, che
realizzò di non aver bisogno di ulteriori specificazioni. Non ci sarebbero
state appendici a guastare l’entità del suo sentimento, che certo non era
filiale, fraterno, passionale, morboso, inconcludente o quant’altro. Quando
capivi di avere davanti la persona per cui saresti morto se solo fosse stata
lei a chiedertelo, anche per capriccio, amare diventava qualcosa di sacro,
estraneo a ridondanti specificazioni.
Amare era troppo assoluto per essere
ridotto a una serie di aggettivi: nessuno avrebbe reso la metà di quanto
valesse davvero.
Cominciò a piangere a sua volta,
stretto a Jonghyun, in silenzio per non disturbarlo. E sincronizzando il ritmo
dei loro singhiozzi, abbracciò quella nuova realtà scacciando eventuali ed irritanti
paure dal cuore.
Quel giorno, capì di essere innamorato
di suo padre. Non perdutamente, né in parte.
Semplicemente innamorato.
«Grazie.» sussurrò piano, che assieme
alla parola “scusa” era la cosa peggiore che si potesse dire all’amato.
# Kyoto, 18th July 1925
Drops’ Present (7)
Vedendola
lì, avvolta in un sontuoso abito dorato, cucitole addosso come una seconda
pelle, Taemin si chiese quanti anni avesse precisamente Woohee. Avrebbe dovuto
saperlo, vero, allo stesso modo in cui avrebbe dovuto sentirsi bugiardo per quanto
gli importava davvero. Fu più che altro un’indiscrezione, stuzzicata dal
cicalare allegro delle signore ora accomodate al tavolo accanto al pianoforte
bianco.
L’ala
est della tenuta Takahiro incappava nell’Inghilterra di Dickens, un Paese
vanesio cosparso di ricchezze e gremito di fame. Taemin non esprimeva giudizi
al riguardo, conscio che l’allestimento era stato architettato dalla madre.
Woohee adorava l’ipocrisia inglese, l’apparenza che vinceva la sostanza:
rispecchiava un po’ la sua condizione, e lui più di tutti avrebbe dovuto
capirla. Ma Taemin non era avido, e l’olezzo putrido di sporcizia mischiato
alle spugne profumate che Woohee nascondeva sotto le ascelle, tra i seni e
sotto il corpetto[25], lo nauseava.
Era
il contesto a essere esecrabile. Nobili seduti alla sua destra che si
atteggiavano a gran amici di cui non sapeva, se non per sentito dire, che il
nome. Risate e racconti di una giovinezza sfiorita che suonava distante com’era
lontana a un bambino l’idea di morte. Tintinnio di bicchieri traboccanti di
sake, danze pittoresche al centro della sala, gonne lunghissime e collane di
perle grandi quanto noci.
Quella
era la sua festa, o almeno così gli era stato detto: allora perché si sentiva
un imbucato? Non che fosse una novità: il timore di non essere mai all’altezza
della posizione che ricopriva aveva fatto di lui un abbietto, un codardo
incapace di rispondere alle domande se non con cenni del capo o monosillabici
“sì” e “no”. Il resto non gli competeva, era un coacervo di responsabilità che
imbruttivano i lineamenti di sua madre e logoravano il quieto esistere di
Kibum.
Woohee
era giovane, al contrario di molte donne presenti, ma sentendola parlare si
sarebbe detto che aveva masticato almeno altre tre vite prima di passare a
quella attuale. I boccoli soffici che delimitavano il confine tra il volto e il
collo brillavano dell’intemperanza fanciullesca, simili a ingranaggi bloccati
di una macchina del tempo.
Tutto
di lei, materialmente parlando, vendeva l’idea di una signora d’alta classe: bastava
un accenno al suo passato, però, per sgretolare la copertura, e pescare un
risentimento infantile e una gelosia senza pari nei confronti di tante, troppe
cose. Taemin compreso.
«E
allora il signor Yamaguchi si è offerto di scortarmi sino in riva al fiume per
assistere ai fuochi, il tutto davanti a mio marito. Avreste dovuto vedere la
sua espressione, giuro! Se non fossi intervenuta chissà dove sarebbe ora quel povero
uomo!» pigolò soddisfatta alla cerchia di nobildonne riunitasi al suo
capezzale.
Taemin
sospirò affogando i dispiaceri nel bicchiere: il talento di Woohee nel comporre
pietosi melodrammi di vicende che non aveva vissuto, ingigantiti o cambiati
radicalmente nella maggior parte dei casi, le dava l’illusione di abitare una
vita parallela a quella in cui era spiacevolmente incastrata. Nel suo mondo di
fantasie erranti, lei e Jonghyun si amavano con affetto sincero, non c’era
nessun Shusei a rubarle l’attenzione del marito e loro figlio Kibum eccelleva
nello studio così come nelle discipline sportive. Forse vivevano tutti e tre in Corea, e l’occupazione giapponese altro
non era se non la favola crudele che si narrava ai bambini per vietare loro
qualcosa di pericoloso. Ah, già, come dimenticarsene? Sicuramente era una
marchesa di nome e di fatto, proveniente da una famiglia anche più abbiente di
quella del marito. I soldi compensavano il divario che correva fra il suo
essere donna e l’essere uomo di Jonghyun, tutti la stimavano ed apprezzavano. Rideva
di quei disgraziati che acquisivano titoli gratuitamente accorpandosi a famiglie
più ricche, non li invitava ai suoi ricevimenti e si faceva baciare la mano
dall’Imperatore in persona. Beh, questo forse era eccessivo, ma tutto sommato
Taemin era convinto di aver tracciato un quadro piuttosto accurato dei suoi
desideri.
Fu
allora che non riuscì più a evitarlo, mentre i sensi di colpa lo stanavano
addentando un pezzo del suo falso disinteresse.
Aveva
baciato Jonghyun, dio!, lo stesso Jonghyun che, imbottigliato nella calca di
ospiti, si sincerava di tanto in tanto di come se la stesse passando,
lanciandogli occhiate a cui puntualmente abboccava.
Per
una volta, il pensiero di essere innamorato di suo padre fu quasi confortante
se posto a paragone col fatto che era innamorato del marito di sua madre.
*
Non
avrebbe saputo quantificare le ore – erano
ore? – trascorse dall’inizio del ricevimento. A volte il tempo scorreva, e
doveva fare attenzione a non perdere il filo del mutare improvviso dei discorsi
dei signori; altre inciampava, ruzzolava negli attimi di noia, dedicati
all’arte del rimpinzarsi lo stomaco, congelando il muoversi della pendola
affissa alla parete. A destabilizzare i conti c’era poi una serie di fattori tediosi
che Taemin adattò in una specie di elenco numerato.
In
primo luogo, le persone: per una che se ne andava, regalandogli la speranza
fugace di una fine che probabilmente era ancora lontana, due ne arrivavano.
Quel
trabocchetto matematico lo innervosiva più che sentirsi lo sguardo di Jonghyun
incollato alla nuca: ovunque si voltasse, suo padre era presente e, al diavolo!,
lo seguiva pure. Niente di lascivo o eccessivamente spinto, no. Perlopiù calcolava
la distanza che intercorreva tra lui e il resto degli invitati, misurando il
suo limite di tolleranza quando un giovane più audace degli altri gli si
avvicinava per stringere amicizia.
Taemin
odiava i rapporti nati e basati sui profitti economici, e quello era uno dei
due motivi per cui non aveva neanche un amico. L’altro era Woohee, che sapeva
non guardare di buon occhio chiunque lo trovasse più interessante di lei o suo
figlio.
In
secondo luogo, giusto per ripetersi, c’era Jonghyun. Taemin sapeva che la
resistenza non rientrava nel novero scarno di doti che Madre Natura si era
divertita a dargli in sorte, tutte inutili per aiutarlo a destreggiare la
tensione. Si era sempre detto, però, convinto di aver imparato come rapportarsi
col padre, che quando c’era di mezzo Jonghyun non andava tanto malaccio quanto
faceva abitualmente.
No.
Era anche peggio.
Si
sforzava davvero per non cercarlo, azzardando addirittura una o due interazioni
coi presenti. Intavolare una discussione era fuori dalla sua portata, quindi si
limitava ad ascoltare, o meglio, a fingere di farlo quando lo/a sconosciuto/a
si prendeva una pausa tra un “quindi al Nagasaki
ho incontrato…-” e il “ammiro vostro padre, vorrei assomigliargli un poco.”
– e chi non lo avrebbe voluto? –. A quello fortunatamente ci pensava Kibum: suo
fratello era l’affabilità fatta persona, sapeva intrattenere e farsi
intrattenere anche quando lo spirito dell’interlocutore peccava d’inventiva.
“Non
è difficile, dovete solo dire loro quello che vogliono sentirsi dire.” gli
aveva detto. “Il resto vien da sé”.
In
terzo luogo, la rimpatriata familiare.
Rivedere
zia ShinHo, suo marito e l’immancabile sigaretta attaccata alle sue labbra fu
quasi divertente ed assolutamente piacevole. Al contrario, fronteggiare
Seungho, la moglie e la figlia si rivelò un’impresa titanica.
Zio
Seungho si era trasformato in una persona completamente diversa dai ricordi che
aveva di lui: lo scorrere del tempo gli aveva strappato parte dei capelli
lasciandosi dietro una vasta stempiatura e un’alopecia appena accennata. Si
erano salutati, un inchino veloce e indolore, prima di separarsi e prendere due
strade discordi. Ciononostante lo sguardo di Seungho, un po’ come quello di
Jonghyun, aveva continuato a vagare nella sua direzione per tutta la serata.
Non
ce la faceva più.
«Posso
farvi notare che vi state coprendo di ridicolo?»
Kibum
lo raggiunse porgendogli l’ennesimo calice.
Lo
rifiutò, forte della convinzione che qualsiasi cosa vi fosse all’interno non
avrebbe portato a niente di buono.
«Perché
mi chiedi il permesso di parlare se poi lo fai ugualmente?»
«Mera
formalità.»
Lo
vide bere, quindi appoggiarsi alla parete di schiena e guardare il crocevia di
persone sfilargli innanzi.
Rimasero
in quella posizione per un po’, tagliati fuori dall’agglomerato di lustri e
ricchezza che sovraffollava la stanza. Taemin non risentì della cosa, che anzi
trovò rassicurante: assistere dall’esterno al brulicare della giungla nobiliare
era un po’ come respirare l’aria di campagna dopo aver vissuto un’intera vita
in città. Refrigerante.
«È
strano, vero?» gli disse Kibum arrangiando le labbra in un ghigno.
«Cosa
di preciso?»
«Queste
persone… molte di loro non sanno nemmeno chi siete, eppure sono venute a
porgervi gli auguri.»
«A
quanto pare...»
«Pensate
mai a quanto siano insulse le nostre vite? Non trovate squallido il modo in cui
lottiamo per comprare il rispetto di chi è più potente di noi?»
«Intendi
nostro padre?»
«Già.»
Il
chiacchiericcio delle donne si trasformò in una risata sincrona: probabilmente
Woohee aveva appena snocciolato l’ennesimo aneddoto legato al suo essere
ammirata da praticamente tutta la prefettura.
Risate
vuote, risate false, risate tristi.
Uno
spettacolo pietoso.
«Più
cresco, più mi convinco che il mondo ruoti intorno a nostro padre.» proseguì
Kibum con voce atona. «Avete sentito di quel tale, quell’europeo, e della sua
interessantissima teoria sui sogni?»
Taemin
scosse la testa, sebbene l’argomento non gli fosse nuovo. Yamaguchi aveva
accennato qualcosa di un certo Freud parlandone in toni tutt’altro che
ammirati.
Come
lo aveva definito? Un depravato forse?
«Freud?»
«Precisamente.»
«Ebbene?»
«Ebbene
io penso, a discapito del credo comune, che costui sia un genio.»
«Addirittura?
È raro sentirti spendere apprezzamenti gratuiti su qualcuno. Posso sapere la
ragione?»
«Presto
detto.» Kibum roteò il calice tra le dita soffocando uno sbadiglio annoiato
nelle pieghe della manica. «Nell’ultimo mese mi è capitato di fare lo stesso
sogno non meno di dieci, undici volte. Avete mai sperimentato un’esperienza del
genere?»
Taemin
ebbe la decenza di scuotere la testa.
Se
gli era capitato? Jonghyun monopolizzava le sue notti da… non se lo ricordava
neanche. Era diventato una presenza assillante mentre dormiva più di quanto non
lo fosse quando era sveglio.
«Siete
fortunato.»
«Andiamo,
Satoshi, penso tu stia esagerando. Sono solo sogni e-»
«Sognarvi
ogni sacrosanto giorno è tutt’altro che piacevole, fratello, viste poi le
circostanze e l’ambientazione.»
«…me?
Tu sogni… me?» chiese sorpreso.
Kibum
incespicò arrossendo un poco.
«Non
fatevi strane idee: niente di romantico, anche se devo ammettere che io per
primo non saprei come interpretare la cosa. Freud dice che i sogni sono la
rielaborazione di ciò che pensiamo durante la giornata. Se così fosse dovrei
prendere in considerazione l’idea di sottopormi al giudizio di qualche dottore[26]
per due motivi fondamentalmente: primo, sarei talmente pazzo da pensare a cose
che non so di pensare; secondo, sarei un sorta di maniaco che vuole giacere col
fratello, visto che a quanto pare gli uomini agiscono in base ai loro istinti
sessuali.»
«Aspetta. No, aspetta,
credo di non afferrato il punto…» Taemin respirò a fondo chiudendo gli occhi, lievemente, eufemisticamente parlando,
scombussolato. «Che intendi per… per… oh, dai,
non fare il finto pudico, so che hai capito! Non farmi ripetere una cosa tanto
imbarazzante!» balbettò – o strillò? –.
«Ma
siete sordo? Vi ho appena spiegato che non so che chiave di lettura dare a
quest’incubo! E sì, giacere in quel senso,
quanti altri ne conoscete?»
«…oh.»
“Oh”,
aveva detto. “Oh” era stato tutto quello che era riuscito a dire.
Avrebbe
dovuto autocompiacersi per la reattività con cui aveva partorito un pensiero
tanto profondo, seriamente.
«In…
in…» farfugliò confuso. «Questo sogno…»
«Ah,
non sprecatevi: le vostre capacità oratorie lasciano parecchio a desiderare.»
lo zittì Kibum risparmiandogli l’ingrato compito di elemosinare delucidazioni.
Gliene fu immensamente grato. «In realtà è piuttosto bizzarro. In questo sogno
voi siete una bellissima ragazza… non che adesso non lo siate, eh, ci
mancherebbe! Solo che-»
«Cosa
sarei io?»
«Oh,
per l’amore del cielo: bellissimo! Che altro dovreste essere? Una ragazza
forse?»
«…ah.»
Di
bene in meglio. Il cambio vocale da “o” ad “a” gli fece credere di aver fatto dei
progressi. O quantomeno cercò di convincersene.
«Comunque…»
Kibum si schiarì la voce con un colpo di tosse. «In questo sogno voi siete una
donna e appartenete a una famiglia poverissima. Avete presente quei tuguri
squallidi dove vive la gente comune? Non saprei come definirli…»
«Case,
Satoshi. Case.»
«Quel
che sono. Dunque, voi siete una miserabile, e un giorno, passeggiando per le
strade della città, vi vedo in compagnia di un uomo evidentemente ricco. Alto,
di bell’aspetto, giovane, un bel sorriso. In pratica il principe azzurro delle
fiabe.»
Taemin
si limitò ad annuire.
«Fin
qui tutto bene, se non fosse che, quando incrociamo lo sguardo, voi scoppiate a
piangere. Per ogni lacrima che versate, il vostro cavaliere si rimpicciolisce
fino a diventare delle dimensioni di un fagiolo. Io ovviamente mi preoccupo e
cerco di venirvi incontro. Sfortunatamente nel farlo calpesto l’uomo. Allora
voi cominciate a piangere più forte, accusandomi di avervi strappato il marito,
di essere un assassino, di odiarmi.»
«Un…
fagiolo.»
«Se
non la smettete di interrompermi giuro che me ne vado facendovi fare la figura
dell’asociale.»
«Scusa,
scusa. Vai avanti.»
«Allora…
beh, mi conoscete, no? Sono un galantuomo, e se c’è una cosa che non sopporto è
vedere il volto di una fanciulla sofferente, tanto più se è bella. Quindi mi
offro di essere vostro marito per compensare la perdita che avete subito. Voi
mi guardate e, credetemi, testuali parole, dite “non so che farmene di un uomo
che non sa pelar patate”. Al che io vi faccio notare che non ho alcun bisogno
di saperlo fare, dato che posso pagare qualcuno ed affibbiargli l’ingrato
compito. Dopodiché voi ribattete qualcosa non dissimile da “non mi concederò
mai a qualcuno di così frivolo”. Io mi arrabbio, vi bacio a tradimento e-»
«Tu mi baci??»
«Credo
che alcuni invitati dall’altro capo della sala non abbiano carpito appieno il nocciolo
della discussione, fratello. Urlate più forte in futuro. E sì, vi bacio. E in
tutta onesta, non offendetevi, ma non siete neanche questo granché.»
Taemin
avvampò esterrefatto.
«Io…
non sono sicuro di voler sapere altro.» confessò a metà fra l’incredulo e
l’orripilato.
«Ah,
state tranquillo, manca poco. In pratica voi mi schiaffeggiate davanti a un
pubblico di occhio e croce cento persone, io provo ad afferrarvi e trascinarvi
con me e voi, per protesta, vi liquefate in una pozzanghera. Finito.»
«E…quindi?»
«Cosa
quindi?»
«A
che conclusione sei giunto? Hai parlato di Freud prima…»
«Giusto.
Che costui è matto da legare.»
«Ma
prima hai detto che era un genio!»
«Per
come la vedo io, “genio” e “follia” sono due modi diversi di chiamare la stessa
cosa, qualunque essa sia. Non so neanche perché ve ne ho parlato: suppongo per
tenervi compagnia e strapparvi un sorriso. Se non altro, non potrete
rinfacciarmi di essere stato un pessimo fratello e di avervi abbandonato a un
ricevimento che, a giudicare dalla vostra espressione, non state affatto
gradendo.»
Avrebbe
dovuto aspettarselo, o quantomeno capirlo.
Era
in momenti come quelli che si chiedeva quando e perché avesse cominciato a
temere Kibum. Non che i presupposti per farlo non ci fossero, ma erano davvero
così spaventosi da portarlo a negarne i pregi?
Kibum
era il ragazzino che a dieci anni scappava strillando tra le sue braccia perché
aveva visto un millepiedi in giardino.
Kibum
gli regalava un risveglio col sorriso senza neanche rendersene conto.
Kibum
batteva nel suo cuore come Jonghyun.
Kibum
era semplicemente Kibum.
«Eccolo
qui, il festeggiato! È tutta la sera che spero di riuscire a porgervi i miei
auguri!»
I
due si voltarono contemporaneamente specchiandosi negli occhi vispi di un
ometto paffuto, tuba in mano e bastone da passeggio nell’altra. Un paio di
baffi incolti catturò l’attenzione di Taemin, non abbastanza però da distrarlo
e permettergli così di non vedere l’uomo al suo fianco.
Jonghyun.
Si
sentì mancare.
«C-conte
Hinamori, che piacere rivederla.» esordì guardando suo padre: gli stava
sorridendo. Pregò tutti gli dei in cielo che nessuno, soprattutto Kibum, lo
notasse. «Come state?»
*
La
calura estiva si attaccò alla sua pelle non appena si affacciò al giardino,
quella notte costellato di impronte di persone sprofondate nel ciottolato
grigiastro. L’aria era così umida da impedirgli di sentire la pioggia scivolare
sul collo ed insinuarsi sotto la camicia abbottonata sino al colletto. Fu il
peso della giacca a innescare in lui quella consapevolezza, seguita da una ritirata
strategica sotto la tettoia. E richiudendosi gli shoji alle spalle, Taemin capì che in fondo non gli sarebbe
dispiaciuto gustare un altro po’ il refrigero pluviale.
«Va
meglio?»
Non
rispose subito. Ciondolò un “sì” con la testa lottando disperatamente per non
guardare Jonghyun, memore di come ritrovarselo vicino quel tardo pomeriggio
avesse fatto degenerare le cose. Non che non lo avesse gradito: era più la
paura a costringerlo a stargli lontano, il terrore di scoprire che i baci e le
carezze di poche ore prima erano stati solo una fantasia. Che poi non
significassero niente per lui, beh, quello non era importante: sarebbe stato
felice di essere un giocattolo nelle sue mani, con cui divertirsi quando e come
avrebbe ritenuto più opportuno. Per sfogarsi, per piangere, per trovare un
conforto. Perché Jonghyun a conti fatti gli voleva bene, e questo lo sapeva:
sarebbe stato stupido negarlo. Ciò che non sapeva era se i suoi “ti voglio
bene” fossero indirizzati a un ragazzino o a un amante.
Forse
erano stati quei pensieri a farlo svenire alla festa. Oh, come scordarsi poi
del conte?
Quella
sera, Taemin aveva scoperto che v’erano uomini al mondo la cui predisposizione
ai giri di parole e alle chiacchiere futili equiparava, se non batteva, quella
delle donne. Era indubbiamente il caso del signor Hinamori, dei suoi vaniloqui
sulla figlia e su quanto li avrebbe visti bene assieme. Jonghyun aveva
continuato a sorridere durante tutta la conversazione e no, i suoi non erano
stati sorrisi di circostanza, falsi o nervosi: aveva riso col conte
spiegandogli che suo figlio non era interessato a prender moglie, ma che
bisognava comprenderlo, dopotutto aveva appena compiuto vent’anni. Cambiare
idea era facile a quell’età, i ragazzi erano incredibilmente volubili. Avrebbero
riconsiderato l’offerta insieme un giorno perché, obiettivamente parlando, la contessina
era davvero una splendida fanciulla.
Taemin
aveva tanto, ma tanto desiderato morire: c’era andato vicino svenendo.
«Faremmo
bene a tornare indietro. Gli invitati saranno preoccupati…» biascicò azzardando
un passo verso l’uscita; l’aria che si respirava in quegli alloggi era avariata.
«Possiamo
concederci ancora qualche minuto.» rispose Jonghyun appropinquandosi alle porte
scorrevoli chiuse pocanzi. «Ti va di tenermi compagnia?»
A
domande del genere non esistevano risposte bilaterali. Si trattava di scegliere
tra “sì” e “sì”. Fortunatamente le prospettive erano meno spiacevoli che
rincontrare la cerchia di aristocratici in sala, ora probabilmente intenta ad
affilare gli artigli da impiantargli nel collo. Paura a parte, logicamente.
Annuì
avvicinandoglisi senza avere la benché minima idea di cosa aspettarsi. E forse…
no, anzi, senza il forse, era meglio così. Qualcosa gli suggeriva che sarebbe
stato utopico sostenere una conversazione civile conoscendone i risvolti.
Un
brivido freddo acuì il terrore.
«Tu
mi stai evitando.» cominciò Jonghyun grattandosi il mento con aria perplessa
quando lo ebbe raggiunto.
«Cosa
ve lo fa credere?»
Per
tutta risposta, allungò una mano in sua direzione facendolo scappare.
«Non
per scendere in proselitismi, ma direi che la tua reazione vale più di mille
parole.»
«Vi
sbagliate. È stato un riflesso, nient’altro.»
«Ma
davvero?»
«Vi
giuro che è la verità, non ho alcun motivo di mentirvi, abbiate fe-»
«Tu
mi ami Taemin?»
La
domanda lo colse totalmente, inevitabilmente impreparato.
La
sfacciataggine di Jonghyun non aveva eguali, era risaputo. Odiava raggirare il
prossimo, la riteneva un’indebita perdita di tempo.
Da
quel punto di vista era parecchio materialista: la pretesa di smaltire
sentimenti per profitti era qualcosa di inconcepibile per la mente di Taemin,
così inconcepibile da negargli la possibilità di studiare la cosa da diverse
angolazioni.
Jonghyun
andava dritto al punto perché indugiare era dannoso per le sue tasche, e perché
in fondo la sua vita era un continuo correre per bruciare tappe della crescita
– lo dimostrava il fatto che avesse cominciato a lavorare a sedici anni –. Bastava
poco, però, una correzione lì, un’altra là, e la stessa frase assumeva un
significato completamente diverso.
Jonghyun
andava dritto al punto perché indugiare era terrificante.
«Dunque?»
incalzò.
Silenzio.
«C’è
un detto in occidente che dice “chi tace acconsente”, sai?»
«Io…
mi dispiace.» si scusò sinceramente pentito.
«Ti
dispiace?»
Taemin
annuì.
Era
incredibile come certi dettagli, sino a quel momento invisibili, saltassero
all’occhio nei frangenti più bizzarri. Le stranezze della mente umana avevano
un che di ammaliante, lo capì quando si accorse che l’unico pensiero coerente,
postume a giri di sake e trivialità sfarzose, uscitogli dalla bocca bruciava di
rimpianto.
Aveva
detto di dispiacersi, e poco ma sicuro Jonghyun doveva aver capito perché.
Tuttavia lo forzava a umiliarsi, vincolandolo a sentimenti putridi che lui per
primo aveva ben chiaro essere inadeguati al ruolo del “figlio”. Quindi pensò, e
tanto anche, a quanto fosse crudele rigirare il coltello nelle ferite altrui.
Non che Jonghyun fosse malvagio. Indelicato sì, ma non malvagio.
«Amarvi
è mostruoso, ne sono perfettamente conscio. Non crediate che non ci sia giorno
in cui me lo ripeto o mi senta male lottando per sedare questo morbo, ma… io…»
già, lui cosa? Che era dispiaciuto lo aveva già detto, anche se ripeterlo altre
cento volte non sarebbe stato sufficiente a farglielo capire. Era il caso di
proseguire? Il gioco valeva davvero la candela? «…mi rimetto al vostro
giudizio. Solo… non odiatemi, e non tenetemi alla larga: non sopporterei la
solitudine ora che finalmente vi ho ritrovato.
Capite cosa voglio dire?»
Jonghyun
e Taemin si erano trovati così tante volte che contarle sarebbe stato più arduo
che porre circoscrizioni all’universo. Eppure, paradossalmente parlando, non si
erano persi neanche per un istante. Il loro rapporto si era evoluto sulla
retorica dell’aggiungere acqua al bicchiere che era già pieno: dapprima zio e
nipote, poi figlio e padre, procedendo amici… cosa fossero ora era un arcano,
ma nessuno dei due avanzava dubbi nel confidare che, anche fossero diventati
amanti, un giorno avrebbero trovato qualcosa l’uno nell’altro che avrebbe
elevato la loro relazione a qualcosa di più profondo.
Trascorsero
così alcuni minuti di aspettative, molte delle quali antisettiche: pendere
dalle labbra di Jonghyun era diventato un vizio troppo rassicurante per
prendere a calci le proprie paure e ricordarsi di avere un orgoglio.
«Aimè,
questo sì che è un bel grattacapo! Avevo la mezza idea di diseredarti, ma come
faccio a farlo se mi supplichi di mantenere le cose come stanno?» scherzò
Jonghyun accarezzandogli la testa, miracolosamente liscia e non increspata come
di consueto. Non gli si addiceva un granché.
«Dis-diseredarmi?» mugghiò sconvolto Taemin aggrappandosi al
suo braccio. «Vi supplico, non fatelo! Io… non posso giurare che smetterò di
amarvi, ma non vi recherò più alcun fastidio, sì! Farò come dite, sarò un
figlio modello, porterò fama al nome della nostra famiglia e vi renderò fier-»
«Non
potrei essere più fiero di te, Taemin, di quanto non lo sia già.» lo zittì, la
mano ancora incollata alla sua nuca. «Temo ci sia stato un grandissimo
equivoco: è vero, non lo nego, vorrei diseredarti…
forse così facendo potremmo scappare dal Giappone e girare il mondo come due
innamorati.»
L’ansia
si sgretolò in un baluginio evanescente di sguardi.
Il
bianco d’alabastro della fronte di Taemin si arricciò nella porpore delle
meraviglie: sterili, le paure grondarono a terra sostituite da una gioia
incalcolabile.
«Ti
porterei in America, a torcerti il collo mentre cerchi di calcolare inutilmente
quanto sia alta la Statua della Libertà. Poi Parigi, la Tour Eiffel. A Roma,
per camminare tra i resti di quel che è stato il centro di ogni cosa. In
Inghilterra, per leggere l’ora sul Big Ben. Infine ci perderemmo in un
villaggio di montagna, non importa in quale continente: ti ci porterei per
farmi amare e per permettermi di amarti senza distrazioni.»
Quella
mattina, Kibum gli aveva detto che loro padre era un inguaribile romantico: non
dargli retta era stata la sciocchezza più stupida che avesse mai fatto.
«Non
piangere, ti ci porto comunque, poco importa se nei panni del figlio o di
quelli dell’amante.» scherzò.
«Non
sto piangendo per questo! E’ perché sono felice!»
«Ah,
ti porgo le mie scuse allora.» così dicendo, gli sorrise tristemente. «Sognare
non costa nulla, vero?»
Taemin
annuì: no, sognare non costava, bensì regalava l’illusione di un futuro che non
avrebbero mai potuto vivere. Sarebbe stato bello partire un domani, fare le
valigie e salutare i ciliegi, loro due e nessun altro. Era davvero un male
essere egoisti nei sogni? Lasciarsi andare alla deriva di terre che avrebbero
potuto accompagnare la loro fuga da quel mondo ipocrita che li stava
soffocando?
Potevano
permettersi quel piccolo lusso?
«A
me va bene così, padre-»
«Jonghyun.»
«Jonghyun.»
si corresse ridendo. «Purché voi continuiate a stare al mio fianco, posso
vivere felice persino in questa casa.» concluse arrossendo senza ritegno.
Fu
allora che qualcosa s’incrinò. Questione di pochi respiri, di abbracciare
appieno il senso di quel che stavano facendo e soprattutto dicendo.
La
felicità impressa negli occhi di Jonghyun si squarciò in un pulviscolo di
tensioni, rabbia, sofferenza.
Taemin
ci mise un po’ a inquadrare la piega che stava prendendo la conversazione,
ancorato agli ultimi, flebili guizzi di serenità che avevano assaporato. Ben
presto, però, la gratitudine sublimò in terrore, condensandosi sulle mani che
Jonghyun, nel frattempo, aveva poggiato sulle sue.
Il
tempo si fermò.
«Taemin…»
la voce gli tremò, in bilico tra lo sconforto e la rassegnazione. «Non
possiamo, lo capisci vero?»
«Non
possiamo…cosa?»
Jonghyun
deglutì accarezzandogli la fronte, gli zigomi, il mento.
Essere
un padre aveva più contro che pro: anteporre la felicità della famiglia alla
propria, non potersi permettere errori, sacrificare tutto per un ragazzo che
non era neanche suo figlio. Dopotutto la differenza fra lui e Taemin non era
tanto l’età, no: Taemin apriva ingenuamente lo scorcio di un domani libero da
ogni sofferenza; Jonghyun era abbastanza responsabile da chiuderlo prima di
ferire qualche innocente.
Taemin
vedeva il principio; lui la fine.
«Sapere
che mi ami è bellissimo… ma non posso nella maniera più categorica provare nei
tuoi confronti dei sentimenti che vadano al di là dell’amore platonico. Io ti
amo, Taemin, non lo nego… ma l’idea di toccarti, spogliarti e amarti in quel senso è qualcosa che aborro con
disgusto: il mio corpo ormai è troppo sporco
per avere il diritto di amare il tuo, e sai benissimo a cosa mi riferisco.»
Taemin
sgranò gli occhi disorientato, la mente sommersa d’incoerenza.
«Voi
non siete affatto corrotto: per quel che vale, per me siete la persona più pura
e gentile dell’intero Giappone.»
«Cosa
ci trovi di puro nel svendere il proprio corpo a perfetti estranei? No, no:
come posso amarti convivendo con questo peso?»
«Ma
a me non importa, ve l’ho già detto! Lo fate perché obbligato, per mantenere la
vostra famiglia, non prendetemi in giro. Se siete sincero e mi amate, perché…
perché negarvi il piacere della mia compagnia? Per me sarebbe un onore, mi rendereste
immensamente felice.»
«No,
Taemin, ti condannerei a un’esistenza miserevole. Un giorno dovrai sposarti, e
sappiamo tutti e due che nel tuo cuore non c’è spazio per due persone: sei
troppo fedele per amarle entrambe.»
«Voi
non amate la marchesa! Chi decreta che io debba sposarmi per amore? Posso
continuare ad amare voi e a vivere al fianco di una donna qualsiasi. Sceglietela,
se vi aggrada, non mi tange: mi preme invece rimanervi accanto finché gli dei
me lo permetteranno!»
«E
credi che mi faccia piacere vivere con una donna per la quale provo solo
disgusto? No… è perché ti amo che desidero la tua felicità: ti sposerai con la
donna che amerai, avrai dei figli che adorerai e forse, quando sarai vecchio,
capirai il senso di ciò che ti sto dicendo ora. È questo che voglio, Taemin:
voglio darti la possibilità di avere una vita piena d’amore.»
«Voi
mi date già tutto l’amore di cui ho bisogno!»
«Ti
sbagli. Tutto ciò che posso darti è questo.»
Accadevano
così le cose più strane, quelle che neanche volendo si poteva prevedere. Cercare
dei segni sarebbe stato inutile: crescere imparando ad associare le persone
agli oggetti non aveva dato a Taemin la libertà di immaginarsi Jonghyun senza
la sua cravatta, quel tocco di verde che gli ravvivava il volto. Fu per questo
che, quando lo vide sfilarsela e mettergliela al collo, il panico lo invase.
«Cosa…
cosa state facendo?»
La
stoffa logora gli pizzicò le clavicole.
Quella
stoffa custodiva tutto ciò in cui credeva ed era Jonghyun.
«Questa
cravatta…» cominciò lui accarezzandola contro il suo petto. «…mi è stata donata
da mio padre quando avevo più o meno la tua età. È stata la prima che ho
ricevuto, l’unica che svincoli dal mio lavoro: tuo nonno sapeva qual era il
destino a cui sarei andato incontro, e ha deciso di tramandarmi qualcosa che
potesse aiutarmi a ricordare che mi sarebbe stato vicino anche nei momenti
difficili, un capo da indossare privo di affanni. Qua dentro vive il suo lascito,
un lascito fatto d’amore che per tutti questi anni ha mitigato le mie sofferenze,
regalandomi la possibilità di guardare il cielo e scoprirlo tempestato di
speranze, un esempio da seguire. Per tutto quello che rappresenta, per il bene
che ho voluto a quell’uomo e per quanto ne voglio ora a te, è mio desiderio saperla
tra le tue mani da qui in avanti: possa esserti di conforto e farti vincere
ogni avversità, ostacolo posto sul tuo cammino.»
Taemin
sprofondò in un mare di terrore. L’eredità di due uomini gravava sul suo
torace: non era pronto per accollarsi un presente di tal fatta, significava
diventare a tutti gli effetti il successore di Jonghyun. Come avrebbe potuto
vivere in pace con se stesso privandolo della sua anima? E Kibum… come avrebbe
reagito Kibum vedendosi strappare ciò che gli spettava di diritto? E Woohee
sarebbe riuscita a odiarlo più di quanto già non facesse?
No…
quella cravatta, per quanto lo emozionasse sapere di essere tanto importante
per Jonghyun, era qualcosa che non gli apparteneva.
«Non
la voglio, riprendetevela.» lottò furiosamente per spogliarsene e restituirla
al suo legittimo proprietario. «Non voglio un feticcio con cui dormire la
notte, né poveri rimpiazzi alla vostra assenza. Io voglio voi.»
«Questa
cravatta sono io, Taemin. Accettala, solo così potremo stare assieme nei limiti
che ci sono concessi.»
«Questi
limiti di cui parlate sono solo una scusa! Non potete baciarmi, ingannarmi con
miraggi di stagioni felici a venire e poi strapparmeli!»
«Ma
io non ti ho ingannato. Ho detto di amarti, vero, e sapere che anche tu mi ami
mi aiuterà a tornare a casa la sera e sentirti parlare di tutto e niente: la
scuola, le ragazze, la famiglia che ti costruirai. È perché so che tu non puoi
fare altrettanto che ti sto donando questa cravatta, qualcosa di concreto e non
astratto come la consapevolezza. Indossala, e noi staremo insieme dentro al tuo
cuore. E aspetta, prega di rincontrami in un’altra vita dove potremo amarci
liberamente.
«Siete
spregevole! No… io…» annaspò tra le lacrime.
«Voglio
farti una domanda, Taemin.» Jonghyun lo abbracciò cullandolo tra le braccia.
Per qualche istante si convinse di essere tornato bambino, e gli piacque:
essere bambini non comportava responsabilità, dava il diritto di agire senza
ponderare eventuali conseguenze. Sarebbe stato bello tornare indietro e
ricostruire tutto da capo: così facendo forse nessuno avrebbe sofferto. Nessuno
sarebbe rimasto coinvolto.
«Saresti
in grado di intraprendere una storia col sottoscritto pur sapendo di star
ferendo tua madre e tuo fratello?»
Poi
bastavano poche parole, quelle giuste al momento giusto, e la ragione riacquistava
il controllo.
Taemin
smise improvvisamente di agitarsi: il castello vanaglorioso a cui si era
assicurato, fragile e dalle fondamenta di sabbia, capitolò nel baratro della
realtà, precipitò giù avvolto nel vorticare di speranze e resti di conchiglie
rotte in fondo al mare. Lì, su un fondale dove stagnavano “chissà” che non
avrebbero mai visto la luce del giorno, le sue aspettative morirono attendendo
di venire coronate.
La
discarica dei sogni.
«Non
ti sto abbandonando… io ci sarò sempre per te, solo non come vorrei.» gli
sussurrò Jonghyun all’orecchio.
Non
rispose.
Taemin
stava annegando nel vuoto.
«Sei
troppo buono per ferire persino Woohee.»
Avrebbe
dovuto leggere dell’ammirazione tra le righe, invece continuò a guardare
apaticamente il nulla specchiato sulle pareti di carta semitrasparente.
«Non
permettere che il tuo amore diventi la nostra condanna.»
Toccò
così l’apoteosi dello svilimento. E illudendosi di aver superato il peggio, si
costrinse a spostare lo sguardo dal niente alla scrivania di Jonghyun,
subissata da documenti di vario tipo, agli zabuton,
perfettamente impilati l’uno sopra l’altro, a Woohee e Kibum, appostati
all’entrata…
…
…
…Woohee e Kibum???
«NO!!»
urlò cacciando Jonghyun lontano, ma ormai era tardi: Kibum e Woohee avevano
visto, sentito e malauguratamente capito
tutto. Il che significava solo una cosa: vicolo chiuso, strada bloccata.
Fine
dei giochi.
Jonghyun
si voltò sorpreso ed impallidì, non tanto per l’espressione collerica di Woohee
quanto per la sterminata delusione impressa negli occhi di Kibum, suo figlio.
Cielo…
che grandissimo sbaglio!
Woohee
digrignò i denti risentita, le unghie impiantate nei palmi sudati. Fu quando
vide la cravatta pendere al collo di Taemin che perse
definitivamente i lumi.
Partì.
Corse. Afferrò il ragazzo. Uno schiaffo sonoro, poi un secondo, e un terzo. I
colpi squarciarono il silenzio sacrale.
Jonghyun
non riuscì a fare niente.
«Tu...»
sibilò colpendo il figliastro di nuovo. Taemin non si difese: se lo meritava.
«…vile cane… come… come hai osato
arrivare a tanto? Se non per me, per tuo fratello! Hai la benché minima idea di
cos’hai fatto??» ancora uno schiaffo: le guance di Taemin pulsavano. «Non mi
sei mai piaciuto, ho sempre pensato fosse stata una pessima idea quella di strapparti
alla morte in Corea! Ciononostante ti ho accolto, cresciuto, dato una casa e da
mangiare… e questo è il tuo
ringraziamento??»
«Woohee,
smettila immediatamente di-»
«TACETE!»
strillò alla volta del marito. Jonghyun obbedì, seppur continuando a tenere gli
occhi incollati al ragazzo, ora inginocchiato davanti alla donna: Woohee lo
torturava tirandogli i capelli all’indietro, fino a sottrargli gli ultimi
residui di contegno e amor proprio. E Taemin piangeva, piangeva così forte che
non sentì il cuore esplodere trafitto da quella visione.
«Contavo
sul fatto che tu fossi non dico intelligente, ma perlomeno assennato, o
abbastanza codardo da non esternare i tuoi sentimenti per il marchese! E invece
mi sbagliavo: sei un ingrato, un mostro!» quindi guardò nuovamente il marito,
sempre tirando i capelli del giovane: alcune ciocche scivolarono sui tatami sporche di rosso. Sangue. «No… il
vero mostro siete voi, marito mio!
Avete risposto alle lusinghe di quest’ignobile creatura! Siete fortunato, però,
perché, malgrado la vostra disistima, io vi amo e sono disposta a lasciar
correre questo episodio. Posso perdonarvi, sono sincera… ma se dovesse
ripetersi una seconda volta, l’intero Giappone saprà che razza di depravato
siete. Non mi farò scrupoli a trascinarvi nel fango, anche se questo dovesse
significare cadere con voi!»
Finalmente,
Woohee lasciò la presa su Taemin. Calde lacrime solcavano il viso della donna,
arso di disprezzo e sconfitta. E accarezzando nuovamente la cravatta verde con
lo sguardo, strinse i pugni fronteggiando l’uomo che amava.
«Voi…
avete scelto questo bastardo come vostro successore. Possiate vivere nel
rimorso e perire nell’afflizione sapendo di aver rovinato il futuro di vostro
figlio, quello vero.»
Pronunciate
le ultime parole, Woohee si voltò e, date le spalle ai due uomini, abbandonò la
stanza. Nel farlo urtò Kibum, che sopraffatto dalla confusione sbatté contro
gli shoji scardinando un’anta. Ciò
non gli impedì di continuare a guardare, e soprattutto udire, i singhiozzi
incontrollati di Shusei: a terra, con la faccia tumefatta di cianotici lividi
che dovevano essere bazzecole se paragonati a quelli inferti all’orgoglio,
Taemin mugugnava qualcosa di insensato. A pochi passi da lui, Jonghyun non si arrischiava
a muovere un solo dito, paralizzato dai sensi di colpa.
«Io…
questo pomeriggio ho detto di fidarmi di voi, fratello.» sussurrò in preda allo
sconforto, all’avvilente consapevolezza di aver violato la parola data alla
marchesa, e per cosa? Per ricevere una pugnalata petto. «No… come posso
chiamarvi fratello dopo quello che
avete fatto? Io… n…non…»
Kibum
ammutolì, incapace di proseguire. Non disse altro, e strappata un’ultima
occhiata spasimata a Shusei, se ne andò seguendo la madre, l’unica persona
all’interno della famiglia a non averlo mai tradito.
«Satoshi,
aspetta! Satoshi! KIBUM!!» Taemin provò a fermarlo, ma i suoi tentativi si
infransero contro una parete silenziosa.
Lo
aveva perso. Aveva perso Kibum per sempre.
«Mio
dio…» esclamò cercando Jonghyun, forse aspettandosi una parola, un “andrà tutto
bene”, che però non arrivò. «Noi… cos’abbiamo fatto? Siamo…-»
Non
finì la frase: di punto in bianco il discorso del padre, quello che fino a
pochi minuti prima si era rifiutato di comprendere, assunse una valenza
coerente, disponendosi a cornice attorno a cosa significasse perseverare nello
sforzo di amarlo.
Amare
Jonghyun implicava scadere nella più ovvia delle antitesi fra dovere e volere.
Amare
Jonghyun avrebbe arrecato disonore e supplizi a Kibum.
Amare
Jonghyun equivaleva a lottare per sopravvivere a Woohee, di cui era succube,
ogni benedetto giorno.
Ma
amare Jonghyun comportava anche qualcosa di assai più terribile: costringere lo
stesso Jonghyun a patire un destino peggiore di quello che stava già vivendo.
Di
colpo, la parola condanna echeggiò
funesta nelle sue orecchie: mai termine fu più appropriato per descrivere
l’amore che nutriva nei suoi confronti.
No…
non avrebbe mai potuto tollerare una cosa del genere. Era troppo debole, troppo
codardo per uscirne vincitore. Una vita spesa a inseguire la più agghiacciante
delle chimere, compiendo sbagli su sbagli che, accumulandosi, avevano portato a
questo.
Sedici
anni di errori non potevano passare il vaglio della coscienza. Sarebbe stato…
ingiusto.
«Me
ne occupo io.» Jonghyun gli si avvicinò e lo aiutò a rialzarsi. Dopodiché gli
asciugò lacrime con dei baci innocenti. «Ti giuro che sistemerò ogni cosa,
fidati di me. Tu prenditi qualche minuto per sistemarti: io nel frattempo
intratterrò gli ospiti in attesa del tuo ritorno. Andrà tutto bene, Taemin, in
un modo o nell’altro. Fatti forza.»
…farsi
forza? Quale forza?
Taemin
vide suo padre rivolgergli un ultimo, flebile sorriso.
“Era
quello che volevi sentirti dire, vero?”
Osservò
le sue gambe muoversi e condurlo lontano, il calore del suo corpo freddarsi in
uno spasimo di paura.
“Perché
è facile scaricare le tue responsabilità su di lui.”
Un
brusio di sottofondo ridestò la sua attenzione: dovevano essere gli invitati.
Chissà come avevano preso la sua assenza…
“Perché
così facendo ti impedirai di soffrire.”
Si
portò una mano al petto, stringendo disperatamente la cravatta verde: faceva
male, dannatamente male. “Me ne occupo io” era solo l’ennesima bugia dietro
alla quale nascondersi immolando il marchese.
«Andrà… tutto… bene.» ripeté tra sé e
sé.
Il fantasma di Jonghyun gli sorrise:
stavolta avrebbe agito per far sì che quella promessa si avverasse davvero.
# Kyoto, 18th July, 1925
Drops’
Present (8)
WALKING ACROSS A PRESENT OF DROPS AND A FUTURE OF TEARS
~ THE FINAL ACT ~
Jonghyun
ci aveva provato senza porsi alcuna aspettativa.
Tortora,
antracite, beige, ciano, china.
Ma
gli ospiti non avevano abboccato.
Ocra,
indaco, nero, cobalto, porpora.
“Dov’è
il marchesino?”
“Ho
saputo che si è sentito male.”
“E
se chiamassimo un dottore?”
Centoventisette
cravatte, centoventisette uomini, centoventotto peccati irredenti.
«Niente
di grave.»
«Un
mancamento dovuto alla calura estiva.»
«Tornerà presto.»
Sfiorò
una a una tutte le cravatte dentro al cassetto, i polpastrelli infreddoliti dal
gelo invernale.
Woohee
e Kibum sfuggivano gli invitati con scuse poco credibili.
Traditi,
seguivano i suoi movimenti con lo sguardo.
Non
si sarebbero avvicinati per aiutarlo. Né ora, né mai.
Quale
avrebbe potuto indossare quel giorno?
Cicalecci
vuoti, risate sibilline, sfarzo ogni dove.
Jonghyun
si sentì improvvisamente soffocare.
Una
qualunque, aveva solo l’imbarazzo della scelta.
Si portò le mani alla gola
graffiandola, la camicia sbottonata: non riusciva a respirare.
Il tempo, intanto, passava. Lento,
inesorabile, crudele.
Alla
fine prese quella antracite.
Cinque
minuti.
Dieci
minuti.
Mezz’ora…
Se
la legò al collo pressandola contro il petto con le mani.
La
stoffa brillò di luce sinistra.
«Signora
Rangiku!» chiamò la domestica dopo essersi districato dalla bolgia.
«Mi
dica signore.»
«Può
recarsi nei miei alloggi e chiamare Shusei? Manca da molto ormai…»
Quanti
anni erano trascorsi? Sette? Otto? Forse nove?
Aveva
perso la cognizione del tempo.
«Certo,
con piacere.»
«La
ringrazio.»
Sinceramente
non gli importava neanche recuperarla.
La
donna si mosse con passi piccoli e leggeri verso l’uscita.
Quando
scomparve, Jonghyun si sentì inspiegabilmente male.
Ma
andava bene così. Si meritava di vivere imprigionato nell’oblio.
Ci
vollero pochi minuti.
I
suoi alloggi non erano distanti dalla sala.
Forse
secondi.
Chiuse
il cassetto con un tonfo secco, riarso di promesse.
Poi,
un urlo. Uno strillo agghiacciante. Parole sconclusionate.
Cadde
il silenzio.
Inevitabilmente,
uno scintillio verde catturò la sua attenzione.
La
donna tornò sui suoi passi correndogli incontro, il volto imperlato di lacrime.
Inciampò,
poi si rialzò. Infine lo raggiunse stringendogli le mani nelle sue.
Il
dolore si fece più acuto.
Cominciò
a piangere mentre scostava le camicie buttate alla rinfusa sopra alla cravatta
verde.
«Mio
signore… il… il signorino… è… è…»
Woohee
e Kibum si scambiarono un’occhiata perplessa, dopodiché si avviarono verso
l’uscita.
Jonghyun
fu più veloce e li precedette abbandonando gli ospiti e la voglia di dar loro
spiegazioni.
La
guardò a lungo senza azzardarsi a toccarla, tenendosene a debita distanza.
Un
passo, due passi, tre passi…
Stava
facendo uno sbaglio, stava andando nella direzione sbagliata: avrebbe dovuto
scappare.
Che
consistenza aveva oggi? E l’odore? Chissà se prudeva ancora come in passato.
Non
la indossava più da anni, ormai, e mai più l’avrebbe indossata.
Si
affacciò ai propri alloggi col cuore in gola: le ante sbatterono contro le
pareti tornando indietro.
E
finalmente lo vide.
Pensandoci
la mattina, si diceva che era curioso il modo in cui era cambiata la sua vita.
Vestire
le cravatte degli amanti era diventata una scelta obbligata per punirsi: mettere
da parte quella verde era diventato un dovere per onorarli.
Per
non sporcare la memoria di suo padre e suo figlio.
Il
corpo di Taemin sospeso nel vuoto, una sedia capovolta ai suoi piedi, la testa
inclinata e le labbra blu.
Jonghyun
cadde in ginocchio, gli occhi puntati in quelli senza vita del ragazzo.
Dell’uomo
che amava.
Perché
lui, nella sua stupidità, respingendo l’amore, aveva ucciso Taemin.
«Oh
santo cielo…» esclamò Woohee avvicinandosi al marito: istintivamente lo
abbracciò sussurrandogli di farsi coraggio.
«FRATELLO!!»
urlò Kibum correndo verso quel che restava del suo Shusei. «FRATELLO DITEMI CHE
SIETE VIVO, VI PREGO!!»
Ma
Shusei non gli rispose. Non lo fece neanche Taemin.
E
seguirlo, morire, sarebbe stato troppo facile.
No:
lui doveva continuare a vivere e a soffrire senza chiedere redenzione alcuna.
Jonghyun
guardò il cappio che Taemin aveva utilizzato per suicidarsi: riconobbe il verde
della sua infanzia, il verde di suo padre, il verde della speranza.
Con
occhi sbarrati, riconobbe la sua cravatta.
L’arma
del delitto.
E
doveva rispettare il sacrificio di Taemin.
«Signore…
ho trovato questo vicino al corpo del ragazzo. È per voi.»
La
signora Rangiku gli porse un bigliettino su cui erano state scritte poche,
veloci parole.
Le
ultime parole di Taemin.
Per
quanto vano fosse stato.
“Rallegratevi,
padre: ora siete finalmente libero da questa condanna.”
***
ABOUT DROPS AND DUST
†
[THE END]
____________________________________________________________
***
GLOSSARIO
A
Amakuchi: Tipo
di sake molto leggero e dolce.
Analecta:
Sono una raccolta di pensieri e di frammenti di dialoghi del pensatore e
filosofo cinese Confucio e dei suoi discepoli. Il titolo cinese significa
letteralmente "discussione sulle parole [di Confucio]". Talvolta,
specialmente nei trattati più datati, l'opera è presentata come "Analecta
di Confucio", sebbene la traduzione analecta sia sbagliata e fuorviante,
poiché i Dialoghi non fanno affatto parte di tale stile letterario. Jonghyun
sbaglia a chiamarli Analecta, ma è uno sbaglio comune che fanno in molti perché
radicato, come accennato sopra, a una traduzione errata del termine “Dialoghi”
effettuata dai suoi avi.
Anchae:
Ala interna delle case coreane (di famiglia abbiente).
B
Bauhaus:
Famosa accademia di design fondata da Walter Gropious nel 1919 (fino al 1933) a
Weimar.
C
Celadon:
Porcellana a tinta uniforme verde-grigio caratteristica della produzione
cinese, soprattutto in epoca Sung (960-1270).
D
Daehan Maeil Sinbo:
Giornale coreano dell’epoca che esiste tuttora (seppur con nome diverso).
Daegeum:
Tipo di fluato coreano.
Dano:
Una delle feste più importanti delle due Coree. In origine, le donne si
lavavano i capelli nell’acqua bollente perché si credeva che questa li rendesse
lucenti.
Detroit Ford Motor Company: Fondata da Henry Ford nel 1903. Per la prima volta,
in America, arriva sul mercato l’automobile con motore a scoppio.
F
Ford Henry:
Fondatore della Detroit, personaggio famosissimo ai suoi tempi (1863-1947).
Ford T:
Modello universale di macchina prodotto dalla Detroit. All’inizio l’azienda
produceva solo questa e in serie, e i costi erano piuttosto alti (diventeranno
più abbordabili in seguito con l’introduzione della catena di montaggio).
Fu (prefettura):
Lo status di Fu venne concesso a Tokyo, Kyoto e Osaka nel 1871 (dopo la seconda
guerra mondiale, a Tokyo verrà assegnata la valenza di metropoli –to– ). La
storia della divisione delle prefetture del Giappone e lunga e complessa,
oltretutto non tange ed influenza il corso della storia. Scusatemi se non vi
riporto tutto (sarebbe inutile, davvero).
Fue:
Particolare tipo di flauto.
Fusuma:
Ante scorrevoli degli armadi a muro (oshiire).
Futon:
Insieme di materasso e trapunta che funge da letto. Viene disteso direttamente
sulle stuoie (tatami) che coprono il pavimento.
G
General Motors:
Azienda rivale della Detroit.
Geta:
Sandali di legno infradito, usati spesso con lo yukata, indossati senza tabi
che producono un rumore molto caratteristico. Quelli alti detti okobo o
pokkuri, laccati neri e molto alti, vengono indossati dalle maiko (apprendiste
geisha); i geta da donne hanno una forma più arrotondata, quelli da uomo sono
squadrati.
George the King:
Giorgio V, nome completo George Frederick Ernest Albert (Londra, 4 giugno 1865
– Sandringham, 20 gennaio 1936), è stato re del Regno Unito e del Reame del
Commonwealth oltreché Imperatore d'India e dello Stato Libero d'Irlanda. È il
nonno della regina Elisabetta.
Go:
Antico gioco di origine cinese che si gioca in due, con pietre bianche e nere,
su una grande scacchiera (goban) e simula essenzialmente una guerra di
conquista.
Gyeongseong:
Vecchio nome della città Seoul.
H
Hadajuban:
In un pezzo unico o in due pezzi, (hadaji = camiciola; susoyoke = gonna a
portafoglio), in cotone bianco, serve ad assorbire il sudore ed impedire che il
nagajuban si sporchi.
Haiku:
È un componimento poetico nato in Giappone, composto da tre versi per
complessive diciassette sillabe.
Hakamana:
È un indumento tradizionale giapponese che somiglia a una larga gonna-pantalone
a pieghe. Originariamente soltanto gli uomini la indossavano, ma oggigiorno
viene portata anche dalle donne. Viene legata alla vita ed è lunga
approssimativamente fino alle caviglie.
Hanbok:
Vestito celebrativo coreano (da usare nelle occasioni importanti).
Haori:
Giacca leggera di seta usata originariamente insieme agli hakama.
Hayakawa Denki Kogyo:
Famosa industria radiofonica.
Hinamatsuri:
Festa delle bambole.
Hirobumi Ito:
Il principe Hirobumi Ito (16 ottobre 1841 – 26 ottobre 1909) è stato un
politico giapponese per quattro volte Primo Ministro del Giappone.
Hitoe:
Sottoveste di media pesantezza, sfoderata, adatta alle stagioni di mezzo.
I
Ikebana:
L'arte giapponese della disposizione dei fiori recisi, anticamente conosciuta
come Kado. La traduzione letterale della parola
Ikebana è "fiori viventi", ma l'arte dei fiori può essere anche
indicata come Kadō, cioè "via dei fiori", intendendo cammino di
elevazione spirituale secondo i principi dello Zen.
K
Kami:
Letteralmente “Dei”.
Kana:
Kana è un termine generico per indicare i due sillabari fonetici giapponesi
hiragana e katakana, come pure l'antico sistema man'yogana. Tutti questi si
svilupparono dagli ideogrammi di origine cinese conosciuti in Giappone con il
nome di kanji (pronuncia cinese "hanzi"), in alternativa o in
aggiunta a questi; la parola kana significa "carattere prestato",
perché derivato dal kanji.
Kannon Sanjusangendo:
Sanjusangendo è il nome con cui è conosciuto un tempio buddista che contiene un
famoso edificio costruito per ospitare mille statue del bodhisattva (=
sostantivo maschile sanscrito che letteralmente significa "Essere (sattva)
'illuminazione' (bodhi)". È un termine proprio del Buddhismo) Kannon
(Avalokiteshvara).
Katsuobushi:
Tonno secco, di grande valore nella cucina giapponese in quanto usato come
ingrediente che si preserva a lungo nel tempo, usato per fare zuppe.
Simboleggia l’augurio per un amore duraturo.
King’s Cross:
La stazione più famosa ferroviaria inglese.
Koi:
Carpa rossa.
Konbu:
Alga usata in cucina. Per la sua capacità di riprodursi velocemente, viene
regalata ai futuri sposi come augurio per una famiglia numerosa.
Korea Hide Company:
Azienda coreana.
Korean Land and Maritime
Transportation Company: Azienda coreana decaduta negli
anni ‘30/’40.
Kyabarei:
Cabaret.
Kyudo:
Antica disciplina giapponese. Si tratta in pratica di tiro con l’arco.
J
Janggi:
Scacchi coreani.
Jongmyo (Santuario):
Edificio dedicato alle commemorazioni dei re e delle regine della Dinastia Chosun. Il santuario si trova a Seoul, in Corea del Sud, ed
è un luogo sacro per il Confucianesimo.
L
Li:
Termine usato da Confucio nel suo scritto “I Dialoghi –Analecta– ” per
riferirsi alle virtù (non ripeto perché già spiegato nel testo).
M
Masatake Terauchi:
(5 febbraio 1852 – Tokyo, 3 novembre 1919) è stato un militare e politico
giapponese. Fu anche ufficiale dell'Esercito Imperiale Giapponese occupando
importanti ruoli politici.
Murasaki-no-Shikibu:
Uno degli scrittori (scrittrici XD) più famosi della storia giapponese. Visse
attorno all’anno Mille.
N
Naga-Noshi:
Conchiglie di mare ampiamente usate in Giappone come simboli di auguri di
felicità.
Nagasaki:
Festa in cui la città di Nagasaki ospita una grandissima comunità cinese, che
riempie le strade del centro di lanterne di carta coloratissime e
luminosissime. Dal 7 al 21 Febbraio.
O
Obi:
Fusciacca che si indossa generalmente sul kimono, ma anche su altri indumenti.
Okawa:
Tamburo di media grandezza, da appoggiare sulla coscia e suonare con la mano.
Okiya:
Edificio in cui vivono le geisha.
Ondol:
Pavimento riscaldato, tipico della cultura coreana e tuttora usato.
Onna-Gata:
Attore maschio che interpreta ruoli femminili.
Oshiire:
Armadi a muro dotati di pannelli scorrevoli simili agli shoji, detti fusuma.
R
Ren:
Termine usato da Confucio nel suo scritto “I Dialoghi –Analecta– ” per
riferirsi alle virtù (non ripeto perché già spiegato nel testo).
S
Sankeien Gardens:
Famosi giardini di Yokohama aperti al pubblico dal 1904. Vi si trovano un sacco
di case del Tè.
Sarangchae:
Ala esterna delle case coreane (di famiglie abbienti).
Senpai:
Un appellativo che si pone davanti al nome di un compagno, amico più anziano
(in Giappone).
Sen:
Centesimo di Yen.
Shirozake:
Tipo di sake dolce (lo bevono in particolare le donne).
Shunbun no Hi:
Il 21 marzo si festeggia in Giappone lo Shunbun no Hi, ovvero l'equinozio di
primavera. In questo giorno le famiglie giapponesi generalmente si recano nei
cimiteri a far visita ai lori cari defunti. Inoltre la famiglia si riunisce per
ricordare insieme i famigliari che sono venuti a mancare.
Shoji:
Porte scorrevoli tipiche giapponesi. In passato erano fatte con carta
semitrasparente passante per supporti di legno. Oggi esistono anche di vetro
opaco.
Suehiro:
Ventaglio pieghevole.
T
Tatami:
Stuoie che coprono tutto il pavimento delle stanze nelle case giapponesi,
cosicché la grandezza di un locale si misura in base al numero di tatami.
Tsubushi shimada:
Acconciatura formata da uno chignon raccolto alla nuca.
W
Wagasa:
L’ombrello tradizionale giapponese a base di bambù e washi (carta giapponese),
è rinomato non solo per la sua delicata bellezza, ma anche per la precisione
del suo meccanismo di apertura/chiusura. I primi ombrelli pieghevoli apparvero
in Giappone intorno al 1550 (prima di allora, l’unica difesa contro la pioggia
erano stati i cappelli di paglia e i mantelli) e sono stati inizialmente
considerati articoli di lusso.
Wagashi: E`
un dolce tradizionale giapponese che viene spesso servito con il tè verde nella
cerimonia del tè.
Y
Yanagi-Daru:
Un regalo in denaro come contributo per l’acquisto del sake.
Yanggu:
Monte che prende il nome dalla contea (omonima) nel quale è situato. La contea
dello Yanggu appartiene alla provincia sudcoreana del Gangwon.
Yankee:
Volgare teppista.
Yomiuri Shinbun:
Giornale giapponese.
Yutaka:
Una vestaglia che si usa quando ci si rilassa in casa o quando si va a una
festa estiva.
Z
Zabuton:
Cuscini per sedersi.
Zaibatsu:
Multinazionale di un’industria bellica.
NOTE
NUMERATE
[1] Spettri:
Riferimento al colore che i paesi orientali indossano alle veglie funebri. La
questione è tuttavia controversa: malgrado abbia trovato numerosi documenti che
attestano che il colore della morte (del dolore…) è in bianco, in diversi Drama
mi è capitato di vedere che i protagonisti vestivano anche di nero. In questo
caso, però, ho deciso di attenermi alla tradizione, ovvero di far indossare il
bianco alle persone. Da qui la definizione “spettro”.
[2] Vestirsi di bianco: Ripetizione
di quanto detto sopra.
[3] Titoli nobiliari:
Mi sono documentata e ho cercato se i titoli validi in America, Francia,
Inghilterra ecc… valessero anche in Oriente. La risposta è… non lo so. O
meglio: nel manga “Sakuragari” (di Yuu Watase), i nobili si distinguono in
Conti, Marchesi, Duchi ecc… proprio come in tutto il resto del mondo. Non
avendo trovato altre testimonianze mi sono liberamente rifatta alla penna (o meglio
pennello) della mangaka (spero sia giusto, in caso contrario mi scuso per il
disagio. Prendetela come una licenza d’autrice XD)
[4] Vivere avvolti nel calore dei
panni di seta (altrui): Antico proverbio coreano.
Significa spartire le ricchezze, soprattutto all’interno della famiglia: quando
il figlio (ad esempio) si trova in una situazione economica più fortunata
rispetto a quella del padre, questo è moralmente obbligato a spartire i soldi
con lui e tutti gli altri. Ciò vale anche per i parenti acquisiti, ovviamente.
[5] Passaporti e fuga dalla Corea:
Essendo la fiction calata in un contesto storico realmente esistito, posso
assicurare che questa pratica non solo era vera, ma anche che fu molto diffusa.
La gente coreana, terrorizzata da quelle giapponese, scappava in Giappone con
passaporti falsi cominciando una nuova vita nel Sol Levante (da giapponesi
chiaramente).
[6] Scacciare la polvere di
quotidianità: In uno dei suoi innumerevoli scritti dedicati al
Giappone, l’architetto Sottsass rimane colpito dall’usanza che i giapponesi
hanno del lasciare le scarpe all’entrata delle case. Vi riporto il pezzetto
preso dall’opera:
“In Giappone, quando uno entra in
casa deve anzitutto togliersi le scarpe, con l’idea di lasciare dietro a se la
polvere della vita quotidiana. Poi, chi è entrato, trova all’ingresso un posto
speciale, dove di solito c’è un vaso con un fiore e sul muro forse scritta una
preghiera o forse una poesia. L’idea è che uno deve sempre ricordare che se
entra nella casa, entra in un luogo che né il potere, né i soldi e neanche gli
antenati rendono sicuro, per lo meno abbastanza sicuro. Uno dovrebbe anche
sempre ricordare che, se entra in casa, né il potere, né il denaro, né gli
antenati rendono sicuro lui, e allora è bene che sappia che si ritrova un po’
nudo con se stesso: ogni volta è costretto a ricominciare tutto da capo”.
La
frase è estrapolata dal testo e successivamente riadattata: non è farina del
mio sacco.
[7] Università Imperiale:
Prima licenza effettiva d’autrice XD
L’Università
Imperiale era l’università più prestigiosa in Giappone ed era situata a Tokyo
(in ADD siamo a Kyoto). Chi la frequentava, aveva l’obbligo di fermarsi a
dormire in una specie di dormitorio dal lunedì al venerdì e poteva così tornare
a casa solo il fine settimana. Oltretutto ci si iscriveva e cercava di entrare
a diciassette anni (e qui Taemin ne ha venti XD). Ho optato per delle soluzioni
alternative perché se Taemin fosse uscito di casa… beh, questa storia non
avrebbe semplicemente potuto esistere XD
[8] Bagni discosti dall’abitazione:
Nel “Libro d’ombra” (di Junichiro Tanizaki), una delle poche testimonianze
scritte dell’architettura degli anni 50’ / 60’ nipponica (e quindi degli anni
antecedenti), è scritto che i bagni delle abitazioni erano apparati, a sé
stanti, staccati dalla casa. Quindi esterni.
[9] Talento musicale:
Lo sapete tutti, ma Taemin sa suonare il pianoforte benissimo (nella realtà
ovviamente). Ho voluto riallacciare questo lato del vero Taemin a quello della
mia fanfiction, tutto qui.
[10] Diventare uomo:
Kibum si riferisce alla maggiore età. In Giappone si diventa maggiorenni a
vent’anni.
[11] Ricevimento:
Per festeggiare l’ingresso nel mondo degli adulti, è consuetudine fare delle
feste dove partecipano tutti i giovani della stessa età del festeggiato (questo
oggi). Avendo ambientato la storia in altri tempi e in un contesto
aristocratico, ho voluto allargare l’invito alla cerchia nobiliare in generale.
[12] Giacere con le geisha per i
vent’anni: Più falso di così non si può. O meglio: c’è chi
l’ha fatto fare ai figli, ma non è assolutamente un’usanza del Paese, bensì un
vezzo della famiglia. Poi mi serviva un modo… diciamo elegante per introdurre
il discorso legato alla sessualità di Taemin.
[13] Postura delle gambe a X:
In Giappone non esiste il suono X, quindi deduco che il difetto avrà un altro
nome. Ho provato a cercarlo ma con scarsi risultati. Perdonatemi se ho lasciato
la versione occidentale.
[14] Memoriali:
In Giappone non ci sono tombe effettive: i defunti vengono cremati e le ceneri
vengono o conservate dai cari o disperse.
[15] Cerimonia del Tè:
Rito Buddhista. La famiglia Takahiro (Kim) viene dalla Corea e all’epoca il
Confucianesimo era una delle filosofie più quotate lì (lo è tuttora).
[16] Postura da seduti:
In Giappone e in Corea (in generale nei paesi orientali), ci si siede sui
talloni, specie quando si è di fronte a qualcuno di importante e altolocato
(anche coi genitori, specie nelle famiglie nobiliari). Si fa per mostrare
rispetto.
[17] Frase del mendicante:
Deliberatamente presa da Schopenhauer e riadattata al testo.
[18] Stessi indumenti: Anche
se la storia è ambientata in Giappone, non scordiamoci che i protagonisti sono
coreani. E suppongo lo sappiano anche i muri che le coppie, in Corea, vestono
con abiti uguali/complementari.
[19] Weimar:
Germania. Nel primo dopo guerra, a partire dal ’19 per una quindicina d’anni,
la Germania prende il nome di Weimar e diventa una Repubblica.
[20] La battaglia di sette anni prima:
Yuzuru si riferisce alla Prima Guerra Mondiale.
[21] Mizutani Takehiko:
Famoso designer Giapponese realmente esistito che ha frequentato il Bauhaus.
Non so che mestiere facesse sua madre, o niente riguardo al padre: essendo
comunque una grande spesa quella di mandare il proprio figlio all’estero per
studi, ho immaginato che Yuzuru potesse fare la sarta (che vi posso assicurare
rende più di quanto non ci si aspetti, specie se si è famosi).
[22] Stramberia lanciata sul mercato
dalla Hayakawa Denki Kogyo: Yuzuru si riferisce al primo
apparecchio radio di produzione nazionale venduto in Giappone proprio nel 1925
(Vedi “Vocabolario” per sapere cos’è la Hayakawa Denki Kogyo).
[23] Bastardo:
Ovviamente in questo contesto il termine “bastardo” ha tutt’altra accezione
rispetto a quella che tutti noi conosciamo. Significa “sangue sporco”, “misto”,
“senza padre”, “illegittimo” […]
[24] Sigarette farmaci:
Inizialmente le sigarette erano viste davvero come farmaci. Lo stesso re
Giorgio, padre di Elisabetta, che soffriva di balbuzie, fumava sotto direttiva dei
medici per curarsi.
[25] Spugnette intrise di profumo:
Usanza bizzarra delle nobildonne inglesi e francesi del ‘700/’800. Non si
lavavano, esatto. Woohee si limita a emularle per amore della cultura europea.
Comunque è vera.
[26] Dottore:
Gli psicologi non esistevano ancora. Freud è stato il primo a introdurre l’idea
di “malattia mentale” e credere che problemi come la pazzia, la schizofrenia
ecc non fossero legati a un malore fisico. Prima d’allora, i problemi mentali
venivano trattati come fossero problemi fisici e curati, per l’appunto, dai
dottori.
FONTI
INTERNET:
www.sakuramagazine.com
www.wikipedia.org
www.corea.it
www.casazen.com
Pagina
Facebook: Le nuvole di Tokyo
LIBRI:
Memorie
di una Geisha (SOLO per il glossario, da cui ho preso alcuni termini. Di Arthur
Golden)
Libro
d’ombra (di Junichiro Tanizaki)
Storia
del design (di Gabriella D’Amato)
---
Note conclusive:
Scusate
la prolissità, ma mi preme specificare alcuni punti che, avendo letto la
storia, non rischio di “spoilerarvi” (come invece avrei fatto scrivendoli a
inizio pagina).
-Nelle
note che avevo scritto all’inizio quando ho spedito la fiction, ho commesso un
errore grossolano: avevo detto che non c’era alcun incesto. OVVIAMENTE non è
così, perché l’incesto c’è. Mi riferivo, con pezzi che mancavano per strada, al
fatto che tra Jonghyun e Taemin non intercorrono legami di sangue “effettivi”,
ma acquisiti. Non so se mi sono spiegata…
-La
famiglia Kim è confuciana, e una delle virtù confuciane è l’amore padre-figlio.
Ho scelto la filosofia confuciana proprio per questo, perché in fin dei conti
la storia ruota attorno al rapporto padre-figlio, oltre che alla battaglia
interiore del dovere/volere.
-Nel
pacchetto dei prompt del concorso Tempio di Artemide ad Efeso c’era il colore verde.
Io ho scelto cravatta, e il fatto che questa sia verde (perché chiaramente la
protagonista è la cravatta verde, sebbene ve ne siano altre cento o giù di lì
all’interno del racconto) è stato un capriccio mio dovuto allo studio dei
colori. Il verde è considerato il colore della speranza, e volevo lanciare un
messaggio di speranza, per l’appunto, nel momento in cui Jonghyun passa la
cravatta a Taemin.
-Mi
scuso per eventuali errori di termini e citazioni delle tradizioni giapponesi e
coreane: purtroppo i siti internet non sono tutti attendibili (spero che quelli
che ho scelto lo siano, ne ho scartati un bel po’ durante le ricerche):
oltretutto il tempo a disposizione dato dal contest non mi ha permesso di
studiare l’ambientazione per più di due settimane (e io avevo una ventina di
esami da dare, divisi in parziali e palle varie).
-Il
titolo della shot: ADD (About Drops and Dust), significa letteralmente “di
stille e polvere” e si rifà alla divisione della storia e salti dal presente al
passato.
-CHIARIMENTO EXTRA: la prostituzione.
Ecco, volevo solo specificare una cosa che evidentemente non ho fatto
capire/descritto all’interno della fiction, per questo mi sono stati esposti
dubbi più che fondati che cercherò di spiegare qui.
Mi
è stato detto che era poco credibile il fatto che Jonghyun fosse costretto a
perpetuare il modus operandi del padre di fare affari. Per come l’avevo
intesa/la intendo io (e forse il corso di marketing mi ha un po’ influenzata),
quando una persona inesperta entra nel mondo degli affari e comincia la sua
attività da zero (o comunque da livelli disastrosi) proponendo qualcosa di
innovativo/piacente/funzionale per raggiungere i suoi obiettivi (mantenere a
galla l’impresa di famiglia), le altre persone cominciano a vederla e a
valutarla solo in funzione di questa sua peculiarità. Nel caso di Jonghyun e di
suo padre, erano due uomini totalmente inetti e incapaci di sbancare il lunario
semplicemente lavorando. Avevano trovato la carta vincente nella prostituzione,
cosa che aveva dato loro una certa fama e soprattutto una ragione di continuare
a esistere all’interno del mondo delle finanze. Se avessero smesso, ok,
avrebbero potuto godere dei soldi che si erano guadagnati, ma è logico pensare
che avrebbero perso l’unica cosa che permetteva loro di continuare a firmare
contratti ed accrescere/salvare le loro proprietà. Questo perché erano semplici
bambole usate a piacimento per fuggire una realtà scomoda con una notte di
fuoco. Ergo, erano inutili.
Facciamo
un paragone: pensiamo alla Apple. Se la Apple smettesse di progettare cellulari
seguendo la sua linea (funzionalità, minimal design,
connessione facile ecc ecc) per puntare a un nuovo
cellulare con meno funzioni e non al passo coi tempi, sarebbe un flop e nessuno
lo comprerebbe. Ora, senza citare principi di marketing che sarebbero troppo
lunghi da riportare, si sappia solo che la mia scelta e quello che ho scritto
avevano un perché di fondo non buttato lì a caso. Tutto qui.
Non
ho riportato i commenti delle giudici non perché non li abbia graditi, sia
chiaro: se volete leggerli, potete benissimo andare a farlo, non ho niente da
nascondere XD il fatto è che dubito abbiate le forze per affrontare anche
quelli dopo questa pappardella di settanta pagine e passa. Comunque davvero: li
ho apprezzati, e mi avete insegnato molto tutte quante.
Ringrazio
chi ha letto, chi ha apprezzato, chi commenterà (se qualcuno ci sarà).
Ringrazio
ancora –perché una volta in più va sempre meglio che una in meno) le ragazze
che hanno indetto il contest: per le bellissime parole del giudizio, per il
banner che è un amore e per la gentilezza.
Alla
prossima (non tanto prossima perché ADD mi ha letteralmente dissanguata e non
credo avrò le forze per scrivere ancora sugli SHINee, non subito perlomeno. Ma
tornerò… boh, credo.).
Shin