Premessa: questa
one shot è
nata perché io e la Ceci (yep, facciamo sempre danni insieme
u.u)
stavamo
“conversando”
riguardo la pelle stupenda che ha Noel, dall’aspetto
così delicato… woah *^*
E niente, non
c’è voluto
molto perché lei mi suggerisse:
“Con
una pelle così chiara i lividiiiiiiiiiiiiii… i
lovebites…”
e ciao, siamo partite entrambe.
Spero che Mickey
non sia OOC. In tal caso, abbiate pietà
della mia anima ç___ç
Fine della farneticazione. Bye.
Just
one
look into your eyes,
one
look
and I’m crying
Era appena
tornato dalla
provincia di Zabul, Afghanistan meridionale.
Non era stata la
sveglia
alle cinque del mattino a renderlo un soldato, né la vita
cameratesca in tutte
le sue più o meno crudeli sfaccettature.
Non era stato il
duro
addestramento che, dopo pelle scorticata, lividi e cedimenti, aveva
tornito il
suo corpo nell’acciaio.
E di certo non
era stata la
mimetica sporca di fango. Men che meno il fucile di precisione che
sorreggeva fra
le braccia.
No, solo adesso
Ian era
davvero un soldato, adesso che tornava in patria con il suono
assordante di un
ordigno che esplode per uccidere ancora nelle orecchie. Il fumo gli era
rimasto
negli occhi e in gola, la morte impregnata non nei vestiti, ma sotto di
essi,
addosso e dappertutto. Anche ora a bordo dell’aereo la nuvola
sulfurea, i
detriti e il rombo di un tuono innaturale lo irrigidivano sul sedile.
E in tutto
quell’inferno la
pelle di Mickey, lattea, levigata, gli era mancata. Che provasse ad
opporvisi o
no, gli era mancato tutto di lui, e gli era mancato per così
tanto tempo che
aveva avuto paura di dimenticarne la fisionomia. Nei ricordi si
aggrappava a
quell’incarnato diafano, meraviglioso, che Mickey non gli
aveva mai concesso di
marcare. Nei sogni lo stringeva ancora sotto le dita e gli faceva male,
lo
prendeva a schiaffi, lo odiava mentre lo amava forte. Perché
sì, lo amava, dio
se l’amava, non avrebbe smesso nemmeno se l’avesse
mai voluto sul serio.
Sole, sudore,
vento, polvere:
per duecentosessantaquattro giorni non aveva visto altro. Le facce
degli altri
soldati erano sfiorite pian piano insieme alla sua e lui aveva finto di
non
notarne i mutamenti. Già attorno al terzo mese radersi la
barba aveva
comportato fatica, perché significava incontrare lo
specchio, guardarsi negli
occhi e avere il timore di non riconoscersi più.
Il suo reparto
aveva
rischiato grosso con l’attentato di pochi giorni prima, ma
Ian non aveva mai creduto
di poter lasciare il culo in Afghanistan. Il destino serbava un conto
ancora
aperto con lui, lo sapeva bene; il tempo passato lontano da casa gli
aveva
fatto realizzare sempre più vividamente quanto la sua fosse
stata una fuga e
che non c’è rimedio al dolore se le cause sono
tanto cucite sulla tua persona
che te le porti dietro. Non importa quanti km corri, non importa quanto
veloce,
con quanta rabbia: se il morbo ce l’hai dentro, scappare non
basterà a
prosciugarlo.
Mickey,
presumendo che Ian
stesse facendo lo stesso, durante quei duecentosessantaquattro giorni
aveva tentato
di raschiare via dal suo cuore malandato tutti i sentimenti che lo
facevano
star male, fallendo. La sua vita era sempre stata
un’accozzaglia di fottuti
problemi impilati uno sopra l’altro, ci mancava solo
l’ardente emicrania
dettata dal rimpianto. Perché si supponeva che uno come lui non avrebbe mai dovuto
amare un ragazzo, tantomeno uno
che non aveva capito i suoi silenzi e aveva deciso di andarsene. Non
che gliene
facesse una colpa, dopo il modo in cui l’aveva trattato. Fra
l’altro, cosa
significava “uno come lui”?
Uno come
lui cosa? “Mi piace farmi
scopare nel
culo” era all’inizio; “Mi piace farmi
scopare da Ian Gallagher” era diventato
poi; “Mi piace farmi scopare da Ian Gallagher e
sarà l’unico a farlo perché lo
amo” era esploso alla fine, soltanto nella sua testa. Se solo
l’avesse detto!
Erano parole, nient’altro che strutture fonetiche intrecciate
dall’aria che
passa per le corde vocali e scivola fuori dalle labbra. Aveva avuto
paura di
esse, le aveva tenute nascoste, aveva permesso ad un “ti
amo” non detto di
distruggere la sua unica furtiva gioia. Se ne era pentito
l’attimo dopo, non
appena Ian aveva messo piede fuori da casa sua, ma tutto gli era
apparso
talmente irreale che si era sentito paralizzato, fermo davanti ad un
muro di
mattoni imbrattati di sogni infranti. Ed aveva assistito, inerme e in
lacrime,
alla fine di uno stranissimo dolceamaro delirio sfociato in un incubo.
Mickey passava
giorni e
notti a odiare se stesso in silenzio, quel Milkovich che nessuno
vedeva, che
nessuno percepiva. Solo Mandy aveva il permesso di aprire qualche
spiraglio nel
suo dolore, mentre Lip Gallagher lo riteneva un cazzone completamente
responsabile
della partenza di suo fratello. Mickey era cosciente che la bugia
“Non è andato
via per me” non potesse funzionare in alcun modo, quindi
lasciava che Lip
sputasse le sue sentenze, aveva ragione. Il fatto era che non
s’era mai sognato
che un giorno nella sua vita sarebbe diventato tanto importante per una
persona
e che l’avrebbe ferita a tal punto da farle voltare le spalle
e rifugiarsi
nella guerra, la guerra vera.
Fra
l’altro, suo figlio
aveva visto la luce da pochi giorni e Mickey si domandava che razza di
padre
degenere potesse essere per lui. Era uno gnometto col viso arricciato,
tutto
sommato carino, ma strillava un sacco e dormiva solo quando voleva lui:
l’inferno nell’inferno che era casa Milkovich, un
bambino nervosissimo. Lui e
Svetlana imprecavano quando venivano svegliati all’una, alle
due e alle tre di
notte, lei in russo.
Mickey non ce la
faceva
proprio ad odiare quel neonato, ma non lo voleva, non l’aveva
mai voluto. Il
suo organismo lo rigettava, lo teneva in braccio e pensava di
chiedergli scusa per
essere suo padre, lo guardava e non lo sentiva neanche carne della sua
carne.
Provava pena per il piccolo che si agitava nella culla, ma anche e
soprattutto
la provava per se stesso, perché era costretto a vivere
sotto lo sguardo
arcigno di Terry che ormai seguiva ogni suo respiro. La presenza del
vecchio era
subdola e soffocante, come una mano serrata attorno alla sua gola anche
quando
non era in giro. Quale altro padre bieco e senza cuore barricherebbe il
proprio
figlio nella desolante infelicità per sempre? Nemmeno quella
testa di cazzo di
Frank Gallagher si era mostrato così meschino da condannare
un figlio alla
prigionia.
In nessun modo,
comunque,
Mickey ne veniva a capo. E quando camminava verso casa con la busta dei
pannolini in una mano e la birra nell’altra continuava a
chiedersi: “Ma che
cazzo sto facendo?”.
Pregava, non
dio, che a dio
non ci credeva, pregava e basta. Pregava che quell’agonia
abbandonasse il suo
corpo, che cedesse almeno il passo all’apatia.
Perché se fosse andato avanti
così, fra obblighi che non aveva mai voluto dettati da
“un fottuto pezzo di
carta” e la lontananza dell’unica persona sulla
faccia della Terra che l’avesse
mai reso veramente felice, avrebbe finito col dimenticare come si
respirava. E
se non sei capace di far entrare aria nei polmoni, muori asfissiato.
Mickey non
voleva assolutamente morire prima di dire a Ian una cosa davvero
importante.
Una cosa o anche due.
Ian aveva
chiesto a Lip di
non rivelare agli altri quando sarebbe tornato. Non voleva
l’accoglienza in
pompa magna all’aeroporto, voleva strisciare silenziosamente
in quella che era
sempre stata la sua incasinatissima casa e vedere lo sgomento farsi
strada sui
volti dei suoi fratelli e sorelle. Abbracciò il riccio e
salì in macchina con
lui. Nonostante la distanza che li aveva tenuti separati per lungo
tempo e
nonostante avessero milioni di cose da dirsi, il silenzio regnava
nell’abitacolo. Cosa si era spezzato? Ian si sentiva vecchio,
consumato, troppo
stanco per tenere vivo un sorriso pochi istanti in più.
Debbie gli
saltò in lacrime
al collo; la donnina che stava diventando lo riempiva
d’orgoglio.
Fiona gli
urlò contro
perché pretendeva una spiegazione mai avuta, poi lo
abbracciò stretto e gli
disse che gli voleva bene. «Spero sia tutto ok. Ci sei
mancato tantissimo.»
Carl, il piccolo
killer che
aveva messo su qualche centimetro, si attaccò alla sua anca
a mo’ di polpo e lo
minacciò di tagliuzzargli tutte le scarpe se non avesse
promesso di non partire
mai più. Nel senso che a piedi scalzi nel gelo
dell’inverno non avrebbe
probabilmente potuto mettere piede fuori di casa.
Liam
sgambettò felice verso
di lui ed esclamò un “Iaaan!” che fece
tappare le orecchie a tutti. Non urlava
mai quello scricciolo, ma per il suo fratellone l’aveva
appena fatto.
Lip, mano sulla
sua spalla,
gli disse che c’era dell’acqua calda per la doccia.
«Finalmente sei tornato,
fratello. Non si stava tanto bene senza di te. Peggio del solito,
sai?»
aggiunse, con la sua consueta aria da filosofo urbano sfatto e
navigato, sussurrandolo
mentre Fiona chiamava Veronica per invitarla lì a
festeggiare. D’obbligo fu
anche una telefonata all’Alibi. «Keeev! Ian
è tornato, porta una cassa di
birra. E trascina qui anche il culo di mio padre, digli che ora
avrà un vero
motivo per sbronzarsi!»
Ian
annuì. Si guardò
attorno, toccò le mura. Saggiò la consistenza
dell’intonaco sotto i
polpastrelli, annusò l’odore di famiglia al quale
le sue narici si erano
disabituate, si lasciò abbagliare dalle macchie di colore di
cui era composto
quel mondo. Ma era ancora il suo? Salì al piano di sopra e
solo sotto la doccia
realizzò quanto la propria gioia da ritorno fosse
incompleta, carica d’ansie.
Cercò di lavarsi di dosso ognuno dei duecentosessantaquattro
giorni trascorsi
nell’esercito, ma avrebbe dovuto saperlo che
l’acqua non fa miracoli. Era ormai
un soldato, un soldato col cuore a pezzi alle porte del Natale.
Sperava che
davvero una
birra o due l’avrebbero tirato su. Certo, era felice di
essere con loro, era
felice di essere vivo e sano come un pesce, era felice di essere
l’eroe del
quartiere. Era felice ma allo stesso tempo non gliene fregava un cazzo.
Un
puzzle ricomposto è perfettamente inutile se viene a mancare
il tassello
centrale.
Il suo tassello
centrale
era a pochi isolati da lì. E gli sembrava ancora tanto,
troppo, infinitamente
distante da lui. Aveva paura che se avesse allungato la mano per
afferrarlo e
rimetterlo al suo giusto posto, avrebbe incontrato solo il morso di un
cane
rabbioso.
Mandy
rientrò in casa
sbattendo la porta. «Merda, sta’ attenta. Il
bambino si è appena addorm-»
soffiò Mickey, nervoso, col fagotto fra le braccia.
«Da’
qua.» sbuffò lei,
appropriandosi del piccolo. «Ian è
tornato.» mormorò, gettando un’occhiata
alla
cucina per accertarsi che non ci fosse Terry.
«Che
cazzo…?» Mickey provò
un forte senso di vertigine. Tre parole gli avevano tolto
l’equilibrio. «Mi
prendi per il culo?» boccheggiò, lacerato da una
gioia che temeva di
assaporare. Non voleva illudersi. Ma Ian? Davvero? Gli veniva da
piangere.
«L’ho
incontrato adesso,
dico sul serio. Devi andare a parlargli!» aggiunse lei,
concitata, spingendolo
verso la porta.
«C-che
cosa dovrei dirgli?»
balbettò Mickey, infilandosi il cappotto col cuore che
batteva in gola.
«Lo
sai. L’hai sempre
saputo. Non c’è bisogno che tu aggiunga molto
altro.»
«Non
basterà. Mi odia.»
«Uno
qualunque ti
odierebbe. Lui non è uno qualunque. Vai, idiota!»
Fu
così che Mandy Milkovich
ebbe l’ultima parola e il suo fratello meno scemo si chiuse
la porta alle
spalle per correre nel freddo sferzante di dicembre con la vecchia
sciarpa
verde pistacchio attorno al collo.
Un passo dopo
l’altro,
veloce, sempre più veloce in direzione di casa Gallagher.
Quelle spalle chine
in avanti non rispecchiavano il portamento di un soldato, ma Mickey
sapeva che
appartenevano a lui. Quei capelli rossi e la nuca erano inconfondibili.
«Ga-»
annaspò, il cognome
si spense in gola. «Ian!» gridò, a
qualche metro da lui.
L’altro
si bloccò,
raddrizzò la schiena. Voltandosi, fu come se entrambi
venissero catturati da un
fermo-immagine. Non si mossero, non parlarono, restarono a fissarsi da
lontano.
Con le guance
arrossate dal
vento, i cappotti pesanti, le macchine che facevano su e giù
per la strada,
loro immobili, increduli, trascinati in ginocchio di fronte ai propri
errori e
di fronte ai propri peccati.
Poi Mickey
scosse la testa,
abbassò lo sguardo. Quando lo rialzò stava
piangendo. Perché tutto quanto,
tutta la fatica per reprimere i sentimenti, per reprimere
l’insoddisfazione, il
dolore, la rabbia nei confronti di suo padre, insomma tutta quella
commistione
tossica che l’aveva corroso sempre più a fondo in
quei duecentosessantaquattro
giorni, ecco, veniva a sbriciolarsi di fronte a ciò che
contemplavano adesso i
suoi occhi. Le lacrime scendevano copiose sul suo viso in segno di
rimorso.
Ora, però, non avrebbe commesso lo stesso sbaglio di mesi e
mesi prima.
«Mi
dispiace. Mi dispiace
così tanto…» disse Mickey,
dimenticandosi di trovarsi sotto la luce del sole,
dove chiunque avrebbe potuto sbirciarlo mentre spezzava un silenzio
durato una
vita. Non aveva mai detto “mi dispiace” a nessuno,
prima. Non ne aveva mai avvertito
la necessità. Ma da Ian aveva troppo da farsi perdonare, e
avrebbe fatto
qualsiasi cosa per dimostrare il proprio sincero pentimento. Era
disposto a
prostrarsi col cuore in mano, a rivelarsi come il giovane soldato gli
aveva
chiesto in passato: gay e innamorato di lui.
Ian, dal canto
suo, aveva
pianto tante volte durante i primi mesi di addestramento, quando ancora
il
plotone stazionava al Charles M. Price Support Center. Poi ne aveva
perduto la
capacità, il dolore si era intirizzito e condensato in un
pungolo onnipresente,
una bomba che esplodeva alle porte del suo cervello, fra il dolceamaro
dei
ricordi e la vanagloria delle sgobbate militari. Ma ora si sentiva di
nuovo
bambino, di quell’età alla quale piangere non
è una vergogna ed è fin troppo
facile: così le lacrime di Mickey trovarono eco nelle sue.
Ancora li
separavano sette
falcate. La gioia di rivedersi era così immensa e spiazzante
che li tramortiva.
«Comincio
a sentirmi
stupido, am-amico. Di’ qualcosa.» disse Mickey,
sfregandosi il naso e alzando
le spalle, la voce un sibilo tremante.
Ian
aprì uno dei suoi
sorrisi sghembi. «Tu sei
stupido.» lo
prese in giro, tremando per il desiderio di stringerlo a sé.
Si voltò, invece,
e prese a camminare in direzione opposta, verso casa.
Mickey
cacciò un conato di
vomito. Gli stava dando le spalle, ancora? Un malessere fisico si
accovacciò
nel suo stomaco e cominciò ad artigliare i suoi organi
interni. Aveva perso. Si
asciugò le lacrime sul dorso della mano e
desiderò di morire.
I passi di Ian
si
arrestarono, il rosso era un po’ più distante di
prima. Si voltò di nuovo verso
Mickey e inclinò la testa. «Non hai
capito?»
L’altro
allargò le braccia
ostentando tutta la propria miseria, i denti che martoriavano le
labbra, le
speranze che s’infrangevano nello spazio che li separava.
Poi, quando Ian
sorrise ancora, solo allora capì. Solo allora sorrise a sua
volta. Una breve
corsa e gli fu a fianco. Gli mollò una spallata, agonizzava
dalla voglia di
toccarlo, di sentirselo premuto addosso.
Durante il
tragitto non si
dissero nient’altro perché le parole che fremevano
in bocca per essere
pronunciate richiedevano un luogo intimo, sicuro, silenzioso. Sulla
soglia di
casa Gallagher le dita di Ian incontrarono per qualche istante quelle
di
Mickey. Una scossa, uno sguardo oltre il baratro, il tappo del gin che
rotola
sul pavimento mentre si espande il profumo intossicante del distillato.
Entrambi
erano usciti senza guanti e avevano nocche e polpastrelli ghiacciati.
L’aria
secca e fredda che li aveva accompagnati aveva asciugato le loro
lacrime,
lasciandone tracce salate sulle guance. Le loro intere essenze
bramavano con
spirito ferino di ghermire con violenza quella dell’altro.
«Pensavo…
pensavo non
volessi vedermi più.»
La chiave della
stanza girò
nella serratura, mettendoli al riparo da eventuali intrusioni. Ian lo
aiutò a
liberarsi del cappotto, poi gli afferrò le braccia e
unì i polsi dietro la
schiena. Strinse la presa, voleva fargli male mentre lo baciava.
«Ho creduto di
volerlo. Ti ho odiato per un po’. Sei un coglione.»
mormorò, stampando le
labbra sulle sue.
Mickey non
tentò nemmeno di
divincolarsi, né emise un gemito. Lo fissava con baluginante
sguardo di sfida,
grato di come fra loro la chimica non fosse calata. Divampavano
d’eccitazione,
agognavano per aversi in maniera selvaggia. L’attesa era
terminata, le ferite
si richiudevano pian piano, l’irrazionalità li
afferrava dai lombi e li
scaraventava nel mare tempestoso della passione.
Ogni bacio era
intenso come
se custodisse l’antico, celasse il nuovo, sigillasse
l’immortale segreto di due
amanti. Si spinsero contro il muro a mangiarsi le labbra, a ubriacarsi
l’uno
del sapore dell’altro, assaporando un sollievo e una
soddisfazione che non
avevano pari. Le mani di Ian srotolarono la sciarpa verde pistacchio,
la stessa
dei loro primi incontri clandestini al Kash & Grab. Tolto il
maglione, la
pelle nuda di Mickey si svelò una landa bianca sotto le sue
dita, il collo una strada
su cui lasciare traccia del suo passaggio. Ian lo disseminò
di morbidi e umidi
tocchi, tenendogli la gola esposta con una stretta decisa sulla nuca.
«Ho
sempre voluto farlo.» farfugliò
Ian, perso nel tingere quell’incarnato pallido a morsi e
succhiotti. Con i
denti e con la lingua raccoglieva il suo sapore, il suo odore, la
consistenza
elastica della pelle. Giurò di potersi nutrire in eterno
solo di quello. «E tu
continuavi a dirmi di no, che non ti facevi marchiare da
nessuno…»
Mickey sorrise e
fece
scorrere le dita sotto la maglia dell’altro, risalendo la
schiena e aggrappandovisi
con devozione. «Ascoltami bene, Ian Gallagher,
perché non lo ripeterò…» si
fermò, prese il tempo di chiudere gli occhi e dare una
svolta alla sua vita. Non
esisteva nient’altro che la bocca del soldato intenta a
succhiare la cute delicata
che gli ricopriva la clavicola, una parentesi di ebbrezza che sperava
non si
rivelasse fugace quanto una folata di vento. «Io…
t-ti amo. E tutto il resto
non conta un cazzo.»
Il fuoco
bruciò nelle vene
di Ian. Si sentiva vibrare nei polsi, nel cuore, ogni tormento
cancellato, uno
shock, in faccia il calore come di un pugno. Posò un ultimo
delicato bacio
sulla scia di segni rossi che gli aveva lasciato. Alcuni, flammei sul
momento,
sarebbero scomparsi di lì a poco; altri, dove il sangue era
risalito dai
capillari, sarebbero rimasti per giorni. Fiori purpurei sbocciati in un
deserto
dove Ian era certo di voler essere l’unico viandante.
«Ero stanco di aspettare.»
ansimò, felice, completo, tremando contro la bocca
dell’altro. «Pensavo non ce
l’avresti fatta. Ma ora giuro, Mickey, non te ne
farò pentire mai.»
E Mickey
esibì la sua
risata scanzonata sporca di voluttà, per mascherare il fatto
che la paura non l’aveva
ancora abbandonato. Non avevano risolto niente. Il senso di colpa lo
affliggeva
ancora, devastante, e la sua esistenza era una prigione perenne. Ian
sarebbe dovuto
tornare in Afghanistan dopo Natale, perché
all’esercito non puoi dire “Scusa,
zio Sam, sto a casa con il mio uomo”. Ma che importava? Volle
dimenticare tutto
finché erano in quella stanza, finché Ian era fra
le sue braccia e annaspava in
cerca del suo calore, del tenero calore del suo corpo. Lo
guardò con occhi
lucidi e si avvicinò al suo orecchio. Bisbigliò
qualcosa, risero entrambi.
«Hmm,
è esattamente il tipo
di intrattenimento che mi è mancato
nell’esercito…» ghignò il
rosso, mentre si
acquattavano sul suo letto disfatto.
«Fammi
male, cazzo. Fammi davvero
male, Gallagher.»
«Ho
sentito la mancanza di
ogni piccola cosa, Mickey. Vorrei non dover partire
più.»
«Io
posso sempre aspettarti.»
Non l’avrebbe fatto per nessun altro, eccetto che per il suo firecrotch. Era l’unico, di
tutto, lui
era l’unico. Era bello far finta di condurre una vita
normale: squassato sotto
le sue spinte, col fiato a scaldargli le tempie, finiva col crederci.
Just
one look into your eyes
One look and I’m
crying
‘cause
you’re so beautiful
Just one kiss and I’m alive
One kiss and I’m ready to die
‘cause you’re so
beautiful
Just one touch and I’m on
fire
One touch and I’m crying
‘cause you’re so
beautiful
Just one smile and I’m wild
One smile and I’m ready to
die
‘cause you’re so
beautiful