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Autore: Phoenixstein    18/07/2013    6 recensioni
Era appena tornato dalla provincia di Zabul, Afghanistan meridionale. [...]
E in tutto quell’inferno la pelle di Mickey, lattea, levigata, gli era mancata. Che provasse ad opporvisi o no, gli era mancato tutto di lui, e gli era mancato per così tanto tempo che aveva avuto paura di dimenticarne la fisionomia. Nei ricordi si aggrappava a quell’incarnato diafano, meraviglioso, che Mickey non gli aveva mai concesso di marcare. Nei sogni lo stringeva ancora sotto le dita e gli faceva male, lo prendeva a schiaffi, lo odiava mentre lo amava forte. Perché sì, lo amava, dio se l’amava, non avrebbe smesso nemmeno se l’avesse mai voluto sul serio.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Ian Gallagher, Mickey Milkovich
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Premessa: questa one shot è nata perché io e la Ceci (yep, facciamo sempre danni insieme u.u)

stavamo “conversando” riguardo la pelle stupenda che ha Noel, dall’aspetto così delicato… woah *^*

E niente, non c’è voluto molto perché lei mi suggerisse:

Con una pelle così chiara i lividiiiiiiiiiiiiii… i lovebites…” e ciao, siamo partite entrambe.

Spero che Mickey non sia OOC. In tal caso, abbiate pietà della mia anima ç___ç

Fine della farneticazione. Bye.

 

 

 

 

Just one look into your eyes,

one look and I’m crying

 

 

 

 

Era appena tornato dalla provincia di Zabul, Afghanistan meridionale.

Non era stata la sveglia alle cinque del mattino a renderlo un soldato, né la vita cameratesca in tutte le sue più o meno crudeli sfaccettature.

Non era stato il duro addestramento che, dopo pelle scorticata, lividi e cedimenti, aveva tornito il suo corpo nell’acciaio.

E di certo non era stata la mimetica sporca di fango. Men che meno il fucile di precisione che sorreggeva fra le braccia.

No, solo adesso Ian era davvero un soldato, adesso che tornava in patria con il suono assordante di un ordigno che esplode per uccidere ancora nelle orecchie. Il fumo gli era rimasto negli occhi e in gola, la morte impregnata non nei vestiti, ma sotto di essi, addosso e dappertutto. Anche ora a bordo dell’aereo la nuvola sulfurea, i detriti e il rombo di un tuono innaturale lo irrigidivano sul sedile.

E in tutto quell’inferno la pelle di Mickey, lattea, levigata, gli era mancata. Che provasse ad opporvisi o no, gli era mancato tutto di lui, e gli era mancato per così tanto tempo che aveva avuto paura di dimenticarne la fisionomia. Nei ricordi si aggrappava a quell’incarnato diafano, meraviglioso, che Mickey non gli aveva mai concesso di marcare. Nei sogni lo stringeva ancora sotto le dita e gli faceva male, lo prendeva a schiaffi, lo odiava mentre lo amava forte. Perché sì, lo amava, dio se l’amava, non avrebbe smesso nemmeno se l’avesse mai voluto sul serio.

Sole, sudore, vento, polvere: per duecentosessantaquattro giorni non aveva visto altro. Le facce degli altri soldati erano sfiorite pian piano insieme alla sua e lui aveva finto di non notarne i mutamenti. Già attorno al terzo mese radersi la barba aveva comportato fatica, perché significava incontrare lo specchio, guardarsi negli occhi e avere il timore di non riconoscersi più.

Il suo reparto aveva rischiato grosso con l’attentato di pochi giorni prima, ma Ian non aveva mai creduto di poter lasciare il culo in Afghanistan. Il destino serbava un conto ancora aperto con lui, lo sapeva bene; il tempo passato lontano da casa gli aveva fatto realizzare sempre più vividamente quanto la sua fosse stata una fuga e che non c’è rimedio al dolore se le cause sono tanto cucite sulla tua persona che te le porti dietro. Non importa quanti km corri, non importa quanto veloce, con quanta rabbia: se il morbo ce l’hai dentro, scappare non basterà a prosciugarlo.

 

 

 

Mickey, presumendo che Ian stesse facendo lo stesso, durante quei duecentosessantaquattro giorni aveva tentato di raschiare via dal suo cuore malandato tutti i sentimenti che lo facevano star male, fallendo. La sua vita era sempre stata un’accozzaglia di fottuti problemi impilati uno sopra l’altro, ci mancava solo l’ardente emicrania dettata dal rimpianto. Perché si supponeva che uno come lui non avrebbe mai dovuto amare un ragazzo, tantomeno uno che non aveva capito i suoi silenzi e aveva deciso di andarsene. Non che gliene facesse una colpa, dopo il modo in cui l’aveva trattato. Fra l’altro, cosa significava “uno come lui”? Uno come lui cosa? “Mi piace farmi scopare nel culo” era all’inizio; “Mi piace farmi scopare da Ian Gallagher” era diventato poi; “Mi piace farmi scopare da Ian Gallagher e sarà l’unico a farlo perché lo amo” era esploso alla fine, soltanto nella sua testa. Se solo l’avesse detto! Erano parole, nient’altro che strutture fonetiche intrecciate dall’aria che passa per le corde vocali e scivola fuori dalle labbra. Aveva avuto paura di esse, le aveva tenute nascoste, aveva permesso ad un “ti amo” non detto di distruggere la sua unica furtiva gioia. Se ne era pentito l’attimo dopo, non appena Ian aveva messo piede fuori da casa sua, ma tutto gli era apparso talmente irreale che si era sentito paralizzato, fermo davanti ad un muro di mattoni imbrattati di sogni infranti. Ed aveva assistito, inerme e in lacrime, alla fine di uno stranissimo dolceamaro delirio sfociato in un incubo.

 

Mickey passava giorni e notti a odiare se stesso in silenzio, quel Milkovich che nessuno vedeva, che nessuno percepiva. Solo Mandy aveva il permesso di aprire qualche spiraglio nel suo dolore, mentre Lip Gallagher lo riteneva un cazzone completamente responsabile della partenza di suo fratello. Mickey era cosciente che la bugia “Non è andato via per me” non potesse funzionare in alcun modo, quindi lasciava che Lip sputasse le sue sentenze, aveva ragione. Il fatto era che non s’era mai sognato che un giorno nella sua vita sarebbe diventato tanto importante per una persona e che l’avrebbe ferita a tal punto da farle voltare le spalle e rifugiarsi nella guerra, la guerra vera.

 

Fra l’altro, suo figlio aveva visto la luce da pochi giorni e Mickey si domandava che razza di padre degenere potesse essere per lui. Era uno gnometto col viso arricciato, tutto sommato carino, ma strillava un sacco e dormiva solo quando voleva lui: l’inferno nell’inferno che era casa Milkovich, un bambino nervosissimo. Lui e Svetlana imprecavano quando venivano svegliati all’una, alle due e alle tre di notte, lei in russo.

Mickey non ce la faceva proprio ad odiare quel neonato, ma non lo voleva, non l’aveva mai voluto. Il suo organismo lo rigettava, lo teneva in braccio e pensava di chiedergli scusa per essere suo padre, lo guardava e non lo sentiva neanche carne della sua carne. Provava pena per il piccolo che si agitava nella culla, ma anche e soprattutto la provava per se stesso, perché era costretto a vivere sotto lo sguardo arcigno di Terry che ormai seguiva ogni suo respiro. La presenza del vecchio era subdola e soffocante, come una mano serrata attorno alla sua gola anche quando non era in giro. Quale altro padre bieco e senza cuore barricherebbe il proprio figlio nella desolante infelicità per sempre? Nemmeno quella testa di cazzo di Frank Gallagher si era mostrato così meschino da condannare un figlio alla prigionia.

 

In nessun modo, comunque, Mickey ne veniva a capo. E quando camminava verso casa con la busta dei pannolini in una mano e la birra nell’altra continuava a chiedersi: “Ma che cazzo sto facendo?”.

Pregava, non dio, che a dio non ci credeva, pregava e basta. Pregava che quell’agonia abbandonasse il suo corpo, che cedesse almeno il passo all’apatia. Perché se fosse andato avanti così, fra obblighi che non aveva mai voluto dettati da “un fottuto pezzo di carta” e la lontananza dell’unica persona sulla faccia della Terra che l’avesse mai reso veramente felice, avrebbe finito col dimenticare come si respirava. E se non sei capace di far entrare aria nei polmoni, muori asfissiato. Mickey non voleva assolutamente morire prima di dire a Ian una cosa davvero importante. Una cosa o anche due.

 

 

 

Ian aveva chiesto a Lip di non rivelare agli altri quando sarebbe tornato. Non voleva l’accoglienza in pompa magna all’aeroporto, voleva strisciare silenziosamente in quella che era sempre stata la sua incasinatissima casa e vedere lo sgomento farsi strada sui volti dei suoi fratelli e sorelle. Abbracciò il riccio e salì in macchina con lui. Nonostante la distanza che li aveva tenuti separati per lungo tempo e nonostante avessero milioni di cose da dirsi, il silenzio regnava nell’abitacolo. Cosa si era spezzato? Ian si sentiva vecchio, consumato, troppo stanco per tenere vivo un sorriso pochi istanti in più.

 

Debbie gli saltò in lacrime al collo; la donnina che stava diventando lo riempiva d’orgoglio.

Fiona gli urlò contro perché pretendeva una spiegazione mai avuta, poi lo abbracciò stretto e gli disse che gli voleva bene. «Spero sia tutto ok. Ci sei mancato tantissimo.»

Carl, il piccolo killer che aveva messo su qualche centimetro, si attaccò alla sua anca a mo’ di polpo e lo minacciò di tagliuzzargli tutte le scarpe se non avesse promesso di non partire mai più. Nel senso che a piedi scalzi nel gelo dell’inverno non avrebbe probabilmente potuto mettere piede fuori di casa.

Liam sgambettò felice verso di lui ed esclamò un “Iaaan!” che fece tappare le orecchie a tutti. Non urlava mai quello scricciolo, ma per il suo fratellone l’aveva appena fatto.

Lip, mano sulla sua spalla, gli disse che c’era dell’acqua calda per la doccia. «Finalmente sei tornato, fratello. Non si stava tanto bene senza di te. Peggio del solito, sai?» aggiunse, con la sua consueta aria da filosofo urbano sfatto e navigato, sussurrandolo mentre Fiona chiamava Veronica per invitarla lì a festeggiare. D’obbligo fu anche una telefonata all’Alibi. «Keeev! Ian è tornato, porta una cassa di birra. E trascina qui anche il culo di mio padre, digli che ora avrà un vero motivo per sbronzarsi!»

 

Ian annuì. Si guardò attorno, toccò le mura. Saggiò la consistenza dell’intonaco sotto i polpastrelli, annusò l’odore di famiglia al quale le sue narici si erano disabituate, si lasciò abbagliare dalle macchie di colore di cui era composto quel mondo. Ma era ancora il suo? Salì al piano di sopra e solo sotto la doccia realizzò quanto la propria gioia da ritorno fosse incompleta, carica d’ansie. Cercò di lavarsi di dosso ognuno dei duecentosessantaquattro giorni trascorsi nell’esercito, ma avrebbe dovuto saperlo che l’acqua non fa miracoli. Era ormai un soldato, un soldato col cuore a pezzi alle porte del Natale.

Sperava che davvero una birra o due l’avrebbero tirato su. Certo, era felice di essere con loro, era felice di essere vivo e sano come un pesce, era felice di essere l’eroe del quartiere. Era felice ma allo stesso tempo non gliene fregava un cazzo. Un puzzle ricomposto è perfettamente inutile se viene a mancare il tassello centrale.

Il suo tassello centrale era a pochi isolati da lì. E gli sembrava ancora tanto, troppo, infinitamente distante da lui. Aveva paura che se avesse allungato la mano per afferrarlo e rimetterlo al suo giusto posto, avrebbe incontrato solo il morso di un cane rabbioso.

 

 

 

Mandy rientrò in casa sbattendo la porta. «Merda, sta’ attenta. Il bambino si è appena addorm-» soffiò Mickey, nervoso, col fagotto fra le braccia.

«Da’ qua.» sbuffò lei, appropriandosi del piccolo. «Ian è tornato.» mormorò, gettando un’occhiata alla cucina per accertarsi che non ci fosse Terry.

«Che cazzo…?» Mickey provò un forte senso di vertigine. Tre parole gli avevano tolto l’equilibrio. «Mi prendi per il culo?» boccheggiò, lacerato da una gioia che temeva di assaporare. Non voleva illudersi. Ma Ian? Davvero? Gli veniva da piangere.

«L’ho incontrato adesso, dico sul serio. Devi andare a parlargli!» aggiunse lei, concitata, spingendolo verso la porta.

«C-che cosa dovrei dirgli?» balbettò Mickey, infilandosi il cappotto col cuore che batteva in gola.

«Lo sai. L’hai sempre saputo. Non c’è bisogno che tu aggiunga molto altro.»

«Non basterà. Mi odia.»

«Uno qualunque ti odierebbe. Lui non è uno qualunque. Vai, idiota!»

Fu così che Mandy Milkovich ebbe l’ultima parola e il suo fratello meno scemo si chiuse la porta alle spalle per correre nel freddo sferzante di dicembre con la vecchia sciarpa verde pistacchio attorno al collo.

 

Un passo dopo l’altro, veloce, sempre più veloce in direzione di casa Gallagher. Quelle spalle chine in avanti non rispecchiavano il portamento di un soldato, ma Mickey sapeva che appartenevano a lui. Quei capelli rossi e la nuca erano inconfondibili.

«Ga-» annaspò, il cognome si spense in gola. «Ian!» gridò, a qualche metro da lui.

L’altro si bloccò, raddrizzò la schiena. Voltandosi, fu come se entrambi venissero catturati da un fermo-immagine. Non si mossero, non parlarono, restarono a fissarsi da lontano.

Con le guance arrossate dal vento, i cappotti pesanti, le macchine che facevano su e giù per la strada, loro immobili, increduli, trascinati in ginocchio di fronte ai propri errori e di fronte ai propri peccati.

Poi Mickey scosse la testa, abbassò lo sguardo. Quando lo rialzò stava piangendo. Perché tutto quanto, tutta la fatica per reprimere i sentimenti, per reprimere l’insoddisfazione, il dolore, la rabbia nei confronti di suo padre, insomma tutta quella commistione tossica che l’aveva corroso sempre più a fondo in quei duecentosessantaquattro giorni, ecco, veniva a sbriciolarsi di fronte a ciò che contemplavano adesso i suoi occhi. Le lacrime scendevano copiose sul suo viso in segno di rimorso. Ora, però, non avrebbe commesso lo stesso sbaglio di mesi e mesi prima.

«Mi dispiace. Mi dispiace così tanto…» disse Mickey, dimenticandosi di trovarsi sotto la luce del sole, dove chiunque avrebbe potuto sbirciarlo mentre spezzava un silenzio durato una vita. Non aveva mai detto “mi dispiace” a nessuno, prima. Non ne aveva mai avvertito la necessità. Ma da Ian aveva troppo da farsi perdonare, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per dimostrare il proprio sincero pentimento. Era disposto a prostrarsi col cuore in mano, a rivelarsi come il giovane soldato gli aveva chiesto in passato: gay e innamorato di lui.

Ian, dal canto suo, aveva pianto tante volte durante i primi mesi di addestramento, quando ancora il plotone stazionava al Charles M. Price Support Center. Poi ne aveva perduto la capacità, il dolore si era intirizzito e condensato in un pungolo onnipresente, una bomba che esplodeva alle porte del suo cervello, fra il dolceamaro dei ricordi e la vanagloria delle sgobbate militari. Ma ora si sentiva di nuovo bambino, di quell’età alla quale piangere non è una vergogna ed è fin troppo facile: così le lacrime di Mickey trovarono eco nelle sue.

Ancora li separavano sette falcate. La gioia di rivedersi era così immensa e spiazzante che li tramortiva.

«Comincio a sentirmi stupido, am-amico. Di’ qualcosa.» disse Mickey, sfregandosi il naso e alzando le spalle, la voce un sibilo tremante.

Ian aprì uno dei suoi sorrisi sghembi. «Tu sei stupido.» lo prese in giro, tremando per il desiderio di stringerlo a sé. Si voltò, invece, e prese a camminare in direzione opposta, verso casa.

Mickey cacciò un conato di vomito. Gli stava dando le spalle, ancora? Un malessere fisico si accovacciò nel suo stomaco e cominciò ad artigliare i suoi organi interni. Aveva perso. Si asciugò le lacrime sul dorso della mano e desiderò di morire.

I passi di Ian si arrestarono, il rosso era un po’ più distante di prima. Si voltò di nuovo verso Mickey e inclinò la testa. «Non hai capito?»

L’altro allargò le braccia ostentando tutta la propria miseria, i denti che martoriavano le labbra, le speranze che s’infrangevano nello spazio che li separava. Poi, quando Ian sorrise ancora, solo allora capì. Solo allora sorrise a sua volta. Una breve corsa e gli fu a fianco. Gli mollò una spallata, agonizzava dalla voglia di toccarlo, di sentirselo premuto addosso.

Durante il tragitto non si dissero nient’altro perché le parole che fremevano in bocca per essere pronunciate richiedevano un luogo intimo, sicuro, silenzioso. Sulla soglia di casa Gallagher le dita di Ian incontrarono per qualche istante quelle di Mickey. Una scossa, uno sguardo oltre il baratro, il tappo del gin che rotola sul pavimento mentre si espande il profumo intossicante del distillato. Entrambi erano usciti senza guanti e avevano nocche e polpastrelli ghiacciati. L’aria secca e fredda che li aveva accompagnati aveva asciugato le loro lacrime, lasciandone tracce salate sulle guance. Le loro intere essenze bramavano con spirito ferino di ghermire con violenza quella dell’altro.

 

«Pensavo… pensavo non volessi vedermi più.»

La chiave della stanza girò nella serratura, mettendoli al riparo da eventuali intrusioni. Ian lo aiutò a liberarsi del cappotto, poi gli afferrò le braccia e unì i polsi dietro la schiena. Strinse la presa, voleva fargli male mentre lo baciava. «Ho creduto di volerlo. Ti ho odiato per un po’. Sei un coglione.» mormorò, stampando le labbra sulle sue.

Mickey non tentò nemmeno di divincolarsi, né emise un gemito. Lo fissava con baluginante sguardo di sfida, grato di come fra loro la chimica non fosse calata. Divampavano d’eccitazione, agognavano per aversi in maniera selvaggia. L’attesa era terminata, le ferite si richiudevano pian piano, l’irrazionalità li afferrava dai lombi e li scaraventava nel mare tempestoso della passione.

Ogni bacio era intenso come se custodisse l’antico, celasse il nuovo, sigillasse l’immortale segreto di due amanti. Si spinsero contro il muro a mangiarsi le labbra, a ubriacarsi l’uno del sapore dell’altro, assaporando un sollievo e una soddisfazione che non avevano pari. Le mani di Ian srotolarono la sciarpa verde pistacchio, la stessa dei loro primi incontri clandestini al Kash & Grab. Tolto il maglione, la pelle nuda di Mickey si svelò una landa bianca sotto le sue dita, il collo una strada su cui lasciare traccia del suo passaggio. Ian lo disseminò di morbidi e umidi tocchi, tenendogli la gola esposta con una stretta decisa sulla nuca.

«Ho sempre voluto farlo.» farfugliò Ian, perso nel tingere quell’incarnato pallido a morsi e succhiotti. Con i denti e con la lingua raccoglieva il suo sapore, il suo odore, la consistenza elastica della pelle. Giurò di potersi nutrire in eterno solo di quello. «E tu continuavi a dirmi di no, che non ti facevi marchiare da nessuno…»

Mickey sorrise e fece scorrere le dita sotto la maglia dell’altro, risalendo la schiena e aggrappandovisi con devozione. «Ascoltami bene, Ian Gallagher, perché non lo ripeterò…» si fermò, prese il tempo di chiudere gli occhi e dare una svolta alla sua vita. Non esisteva nient’altro che la bocca del soldato intenta a succhiare la cute delicata che gli ricopriva la clavicola, una parentesi di ebbrezza che sperava non si rivelasse fugace quanto una folata di vento. «Io… t-ti amo. E tutto il resto non conta un cazzo.»

Il fuoco bruciò nelle vene di Ian. Si sentiva vibrare nei polsi, nel cuore, ogni tormento cancellato, uno shock, in faccia il calore come di un pugno. Posò un ultimo delicato bacio sulla scia di segni rossi che gli aveva lasciato. Alcuni, flammei sul momento, sarebbero scomparsi di lì a poco; altri, dove il sangue era risalito dai capillari, sarebbero rimasti per giorni. Fiori purpurei sbocciati in un deserto dove Ian era certo di voler essere l’unico viandante. «Ero stanco di aspettare.» ansimò, felice, completo, tremando contro la bocca dell’altro. «Pensavo non ce l’avresti fatta. Ma ora giuro, Mickey, non te ne farò pentire mai.»

E Mickey esibì la sua risata scanzonata sporca di voluttà, per mascherare il fatto che la paura non l’aveva ancora abbandonato. Non avevano risolto niente. Il senso di colpa lo affliggeva ancora, devastante, e la sua esistenza era una prigione perenne. Ian sarebbe dovuto tornare in Afghanistan dopo Natale, perché all’esercito non puoi dire “Scusa, zio Sam, sto a casa con il mio uomo”. Ma che importava? Volle dimenticare tutto finché erano in quella stanza, finché Ian era fra le sue braccia e annaspava in cerca del suo calore, del tenero calore del suo corpo. Lo guardò con occhi lucidi e si avvicinò al suo orecchio. Bisbigliò qualcosa, risero entrambi.

«Hmm, è esattamente il tipo di intrattenimento che mi è mancato nell’esercito…» ghignò il rosso, mentre si acquattavano sul suo letto disfatto.

«Fammi male, cazzo. Fammi davvero male, Gallagher.»

«Ho sentito la mancanza di ogni piccola cosa, Mickey. Vorrei non dover partire più.»

«Io posso sempre aspettarti.» Non l’avrebbe fatto per nessun altro, eccetto che per il suo firecrotch. Era l’unico, di tutto, lui era l’unico. Era bello far finta di condurre una vita normale: squassato sotto le sue spinte, col fiato a scaldargli le tempie, finiva col crederci.

 

 

 

 

 

 

Just one look into your eyes
One look and I’m crying
‘cause you’re so beautiful

Just one kiss and I’
m
alive
One kiss and I’m ready to die
‘cause you’re so beautiful

Just one touch and I’m on fire
One touch and I’m crying
‘cause you’re so beautiful

Just one smile and I’m wild
One smile and I’m ready to die
‘cause you’re so beautiful

 

   
 
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