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Autore: habanera    21/07/2013    1 recensioni
Ci aveva provato. Tante volte. Ad uscire di casa, ad andarsene da quel vecchio castello dove la padrona di casa era la noia. Voleva evadere da quella prigione, da quella gabbia austera che ogni giorno si stringeva sempre un po’ di più su di lui, si ripiegava, lo schiacciava in quello che era il suo posto, impedendogli di fuggire lontano, così lontano da inseguire sogni e ricordi, così lontano da tornare a guardare il mondo con gli occhi pieni di meraviglia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Comptine d'un autre eté - l'après midi

O C C H I



Ci aveva provato. Tante volte. Ad uscire di casa, ad andarsene da quel vecchio castello dove la padrona di casa era la noia. Voleva evadere da quella prigione, da quella gabbia austera che ogni giorno si stringeva sempre un po’ di più su di lui, si ripiegava, lo schiacciava in quello che era il suo posto, impedendogli di fuggire lontano, così lontano da inseguire sogni e ricordi, così lontano da tornare a guardare il mondo con gli occhi pieni di meraviglia.
Ma non era la luce a impedirgli di andarsene, non era la malattia. Era la paura. La paura di lasciarsi alle spalle pure casa sua, di lasciar andare ogni ricordo del posto dov’era nato così come aveva lasciato andare i ricordi dei migliori e unici amici che avesse mai avuto, di inseguire un’ombra sfuggevole e niente più, di ritrovarsi i palmi pieni di sabbia, pieni del tempo sprecato invece di pensare alle cose importanti, invece di pensare a quello che è giusto fare, piuttosto a quello che riteneva fosse bello. La paura del senso di colpa,del riconoscere di aver sbagliato, l’epifania di tutti i suoi errori, dei passi falsi, della serie di valutazioni sbagliate effettuate. Doveva pensare alla casa, doveva pensare al castello, alla famiglia – i suoi genitori si erano affidati a lui, gli avevano lasciato tutto in custodia; lavoravano lontano, non potevano tornare a casa. Doveva pensare a quello che rimaneva dei ricordi di sua sorella, doveva far sì che, semmai fosse tornata, ogni cosa fosse al suo posto. Come se non se ne fosse mai andata. Come se ogni giorno fossero rimasti la famiglia che erano sempre stati – lasciando fuori ogni sbaglio tra loro due, lasciando fuori tutto. È sposata ora, è lontana pure lei, è irraggiungibile come una stella una musa una costellazione l’orizzonte la felicità infinita come i campi di grano che ora non vede più come il cielo di notte che gli fa compagnia le poche volte che esce avvolto nel suo mantello di malinconia mestizia ricordi tristezza-

«Basta.»

Lo spettro di un’emozione a lungo ignorata. La consapevolezza dell’inutilità dei suoi traguardi, la vanificazione operata dalla sua malattia. I suoi occhi. I suoi occhi. I suoi occhi strani, cremisi, che ormai erano una maledizione e non più un vanto. I suoi occhi la sua pelle le sue mani il suo volto: un umano. Vano. Saldo quanto la più misera foglia che, alla prima folata di vento, viene spazzata via. Ha imparato a non chiedere più di quanto ha. Quello basta. Quello è saldo. Quello è sicuro. Non ha bisogno d’altro.

Ogni tanto si sente vuoto, soffocato da una cortina disolitudine. Sopprime tutto, lo cancella, lo dimentica. Va bene così. Non è più come i primi tempi, quando cercava svaghi in continuazione, come una farfalla che, caduta nella tela del ragno, si batte le ali per scappare, per tornare inlibertà senza sapere che ogni suo movimento è la cagione del suo allontanamento dalla medesima e – nel futuro più prossimo – della sua morte.
Si può dire che si sia arreso. Ha fatto scivolare la sua natura irrequieta, vivace e curiosa in uno stato di torpore, sonno che dura ormai da anni. A volte si sente vecchio, sente gravare sulle spalle anni secoli millenni di polvere e di vite mai vissute. Si sente come sott’acqua. Suoni ovattati, movimenti lenti, fluidi.

Un sogno subacqueo in cui il tempo non scorre in cui è rimasto un ragazzino con la smania di provare e scoprire ogni cosa di questo mondo in cui i suoi amici sono ancora lì e no no no no no no non se ne sono mai andati sono sempre stati lì con lui e possono finalmente cantare e gridare e scherzare insieme possono nuotare in quel mare che li avvolge possono respirare sott’acqua in quel mondo onirico e incantato dove c’è sempre una musica lontana e malinconica che li avvolge e li preserva dai cambiamenti dell’età del tempo delle emozioni della fiducia tradita dei cuori spezzati dei sorrisi amari non c’è posto per tutto quello laggiù.

Ma non è altro che un’irrealtà a cui la sua mente da’ una consistenza, che crea, che inventa se stessa nello stesso presente che sta vivendo.

È come se in una stanza piena di orologi tutte le lancette si fossero fermate nello stesso momento. Otto anni fa. La sera prima della sua partenza. L’ultima sera alla dormitorio, resa pesante dall’assenza di una persona importante, che era tuttavia ancora così presente da farlo ugualmente voltare in sua direzione ripetutamente, come per dirgli qualcosa, salvo poi trovare il vuoto.  Amarezza. Non era lì, non c’era più. L’indomani non ci sarebbe stato più nemmeno lui. Gli occhi prudono. Fanno male. Prudono. Qualcuno aveva acceso la luce. Fastidio. Qualcuno dovrebbe spegnerla. Nessuno va. Si alza, fa da solo. Consuma la miseria della sua ultima notte in silenzio, cercando di piangere lacrime che non escono.

 

Vive un presente fasullo, vive di una quotidianità scandita dal vuoto, si rifugia nelle sue inutili abitudini, nella loro superficialità. È troppo grande per giocare da solo come gli capitava di fare nei pomeriggi di noia. È troppo grande per cercare una via di fuga; è troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Ha ventiquattro anni, non c’è più tempo. È una delle cose che non si possono più recuperare.
La vita non può essere messa in pausa. 
Tutta d’un fiato
va vissuta.
Ogni attimo secondo minuto ora. Un solo granello rubato alla clessidra del tempo, alla sabbia che scorre inesorabile verso il basso, è un istante rubato all’eternità che è negata all’uomo.

   
 
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