Try to kiss me.
1-A modo mio.
1-A modo mio.
C’era una volta, in una stanza in disordine, tappezzata di poster, piena di fili di ogni tipo, stracolma di CD e dove i vestiti prendevano vita; una ragazza dai capelli corvini, e dagli occhi a nocciola che dormiva tranquillamente nel suo letto completamente allo scuro di ciò che sarebbe successo fra qualche ora.
7:00 h.
Le palpebre si schiusero, mostrando le iridi color cioccolato che avevano gelosamente custodito durante la notte; le labbra rosee si arricciarono, così come il suo piccolo nasino e con un gesto secco della mano tolse alcune ciocche cadute sul viso.
Improvvisamente un rumore destò la fanciulla dal suo dormiveglia facendola piombare bruscamente nella realtà, e che ambiente!
**
- Ancora tu! Ma l’orizzonte non ti ispira? –
Eccomi nuovamente a parlare da sola ad un piccione rimbambito e strabico che ogni santissima mattina sbatteva contro la finestra della mia camera, comprarsi un paio di occhi?
Sbuffai annoiata portandomi una mano fra i capelli, scompigliandoli; un gesto che esprimeva tutto il mio nervosismo quella mattina.
Il primo giorno di scuola era sempre stato negli anni, il giorno più brutto per una matricola e soprattutto per chi proveniva da un continente completamente diverso.
Mio padre e mia madre avevano ‘saggiamente’ deciso di trasferirsi in America e ovviamente, io e mio fratello, li avremmo seguiti.
Il mio nome era Hana Miller, diciannovenne per metà coreana e americana, alta 1.78m, con una cascata di capelli mossi e neri, occhi tipici orientali – ereditati da mia madre – di color marrone.
Non soffrivo di allergie particolari, solo di una: la stronzaggine.
Non dimenticherò mai ciò che mi fece un gruppo di americani che dovevano avere più o meno la mia età a quell’epoca… mi picchiarono, mi tagliarono i capelli, bruciarono il mio orsacchiotto preferito con l’accendino, mi toccarono e tutto questo perché ero coreana.
Avevo 9 anni quando successe, rimasi così traumatizzata che iniziai a non parlare più; solo dopo due anni di terapia con una psicologa cinese, riuscì a superare il mio blocco mentale e acquisii un carattere molto più forte e determinato.
Avevo già abitato in America, ma, dopo quell’episodio, ci trasferimmo in a Seoul dai miei nonni materni.
Mio padre, Jason Miller, possedeva una catena di ristoranti cinesi e voleva inserirsi nell’economia statunitense, e mescolare una cultura con un’altra completamente diversa.
Mia madre, Choi Sang-Mi, lavorava come maestra di coreano alla scuola elementare a Seoul, mi aveva insegnato a parlarlo correttamente, si occupava di noi ventiquattrore su ventiquattro e non si arrendeva mai, anche nelle situazione peggiori…sorrideva sempre.
Per completare il quadretto famigliare, c’èra mio fratello, Kai Miller, una persona arrogante, superficiale e narcisista. Nonostante tutti questi difetti…. infondo, molto ma molto infondo, infondo… gli volevo bene. Avevo già detto ‘infondo’?
- HANA, SBIGATI CHE TI ACCOMPAGNO IO! – urlò mio padre dalla cucina.
- SI, ARRIVO! – gridai a mia volta.
Mi vestii velocemente, indossando i primi indumenti capitati a caso nell’armadio, infilai gli anfibi, e raggiunsi mio padre in cucina per fare colazione.
- Eccomi! – dissi appena varcai la soglia della stanza e l’odore di pancakes mi investi completamente.
- Come cazzo ti sei vestita? Sembri una barbona! – Kai e la gentilezza viaggiavano su binari diversi.
Lo ignorai bellamente, salutai Jason Miller scoccandogli un bacio sulla guancia e lo aiutai con a preparare la tavola, evidentemente Eomma (significa mamma e si pronuncia ‘omma’) stava ancora dormendo.
Guardai Kai che si stava ingozzando – Sai che fai proprio schifo! – esclamai schifata.
Fece spallucce e mi rispose con la bocca piena – Alle ragazze piaccio così-.
E come dargli torto? Aveva un sacco di persone con cromosoma XX che gli sbavavano dietro, e mi chiedevo ancora che cosa ci trovassero in lui. Bah, mistero.
Finito di mangiare quel poco rimasto in tavola - grazie a quel cretino di mio fratello -, presi il mio zaino e con i due uomini di famiglia mi diressi verso la nostra auto.
Dopo più di quindici minuti buoni – purtroppo -, arrivammo finalmente all’università, o meglio: l’inferno; il mio battito cardiaco era aumentato e mi morsi il labbro inferiore per il nervoso.
Mio fratello uscii velocemente salutando nostro padre con un “Cia’ ” poco udibile, dubitavo che lo avesse pronunciato.
- Hana, cerca di andare d’accordo con Kai, è pur sempre tuo fratello gemello! – mi consigliò papà, io un tutta risposta sospirai costernata; aprii la portella posteriore dell’auto, lo baciai sulla guancia e uscii anch’io.
- Ah, Hana…- mi richiamò mio padre, e mi avvicinai al finestrino – Fighting! – disse mostrandomi il pugno, ed io in risposta sorrisi. Era un grande.
Entrai per il cancello nell’atrio dell’istituto; era grande, c’erano persino due fontane con dei pesci rossi, un sacco di alberi, panchine sparse e troppi studenti.
Notavo che c’erano abbastanza asiatici, perciò la permanenza in quella scuola non sarebbe stato così male, o almeno, così pensavo.
Può sempre capitare che ciò che pensi venga drasticamente cambiato da qualcosa o qualcuno, purtroppo.
Persa nei miei pensieri, camminando non notai chi mi veniva incontro e involontariamente ci andai a sbattere come una cretina, ovviamente.
- Che cazzo! Cinese di merda, guarda dove metti i piedi! –
Ecco. Cosa pensavo? La permanenza sarebbe stata gradevole… non più.
Angolo autrice!
Continuo a 3 recensioni :)
E' la mia prima storia che pubblico,spero vi piaccia! :)
7:00 h.
Le palpebre si schiusero, mostrando le iridi color cioccolato che avevano gelosamente custodito durante la notte; le labbra rosee si arricciarono, così come il suo piccolo nasino e con un gesto secco della mano tolse alcune ciocche cadute sul viso.
Improvvisamente un rumore destò la fanciulla dal suo dormiveglia facendola piombare bruscamente nella realtà, e che ambiente!
**
- Ancora tu! Ma l’orizzonte non ti ispira? –
Eccomi nuovamente a parlare da sola ad un piccione rimbambito e strabico che ogni santissima mattina sbatteva contro la finestra della mia camera, comprarsi un paio di occhi?
Sbuffai annoiata portandomi una mano fra i capelli, scompigliandoli; un gesto che esprimeva tutto il mio nervosismo quella mattina.
Il primo giorno di scuola era sempre stato negli anni, il giorno più brutto per una matricola e soprattutto per chi proveniva da un continente completamente diverso.
Mio padre e mia madre avevano ‘saggiamente’ deciso di trasferirsi in America e ovviamente, io e mio fratello, li avremmo seguiti.
Il mio nome era Hana Miller, diciannovenne per metà coreana e americana, alta 1.78m, con una cascata di capelli mossi e neri, occhi tipici orientali – ereditati da mia madre – di color marrone.
Non soffrivo di allergie particolari, solo di una: la stronzaggine.
Non dimenticherò mai ciò che mi fece un gruppo di americani che dovevano avere più o meno la mia età a quell’epoca… mi picchiarono, mi tagliarono i capelli, bruciarono il mio orsacchiotto preferito con l’accendino, mi toccarono e tutto questo perché ero coreana.
Avevo 9 anni quando successe, rimasi così traumatizzata che iniziai a non parlare più; solo dopo due anni di terapia con una psicologa cinese, riuscì a superare il mio blocco mentale e acquisii un carattere molto più forte e determinato.
Avevo già abitato in America, ma, dopo quell’episodio, ci trasferimmo in a Seoul dai miei nonni materni.
Mio padre, Jason Miller, possedeva una catena di ristoranti cinesi e voleva inserirsi nell’economia statunitense, e mescolare una cultura con un’altra completamente diversa.
Mia madre, Choi Sang-Mi, lavorava come maestra di coreano alla scuola elementare a Seoul, mi aveva insegnato a parlarlo correttamente, si occupava di noi ventiquattrore su ventiquattro e non si arrendeva mai, anche nelle situazione peggiori…sorrideva sempre.
Per completare il quadretto famigliare, c’èra mio fratello, Kai Miller, una persona arrogante, superficiale e narcisista. Nonostante tutti questi difetti…. infondo, molto ma molto infondo, infondo… gli volevo bene. Avevo già detto ‘infondo’?
- HANA, SBIGATI CHE TI ACCOMPAGNO IO! – urlò mio padre dalla cucina.
- SI, ARRIVO! – gridai a mia volta.
Mi vestii velocemente, indossando i primi indumenti capitati a caso nell’armadio, infilai gli anfibi, e raggiunsi mio padre in cucina per fare colazione.
- Eccomi! – dissi appena varcai la soglia della stanza e l’odore di pancakes mi investi completamente.
- Come cazzo ti sei vestita? Sembri una barbona! – Kai e la gentilezza viaggiavano su binari diversi.
Lo ignorai bellamente, salutai Jason Miller scoccandogli un bacio sulla guancia e lo aiutai con a preparare la tavola, evidentemente Eomma (significa mamma e si pronuncia ‘omma’) stava ancora dormendo.
Guardai Kai che si stava ingozzando – Sai che fai proprio schifo! – esclamai schifata.
Fece spallucce e mi rispose con la bocca piena – Alle ragazze piaccio così-.
E come dargli torto? Aveva un sacco di persone con cromosoma XX che gli sbavavano dietro, e mi chiedevo ancora che cosa ci trovassero in lui. Bah, mistero.
Finito di mangiare quel poco rimasto in tavola - grazie a quel cretino di mio fratello -, presi il mio zaino e con i due uomini di famiglia mi diressi verso la nostra auto.
Dopo più di quindici minuti buoni – purtroppo -, arrivammo finalmente all’università, o meglio: l’inferno; il mio battito cardiaco era aumentato e mi morsi il labbro inferiore per il nervoso.
Mio fratello uscii velocemente salutando nostro padre con un “Cia’ ” poco udibile, dubitavo che lo avesse pronunciato.
- Hana, cerca di andare d’accordo con Kai, è pur sempre tuo fratello gemello! – mi consigliò papà, io un tutta risposta sospirai costernata; aprii la portella posteriore dell’auto, lo baciai sulla guancia e uscii anch’io.
- Ah, Hana…- mi richiamò mio padre, e mi avvicinai al finestrino – Fighting! – disse mostrandomi il pugno, ed io in risposta sorrisi. Era un grande.
Entrai per il cancello nell’atrio dell’istituto; era grande, c’erano persino due fontane con dei pesci rossi, un sacco di alberi, panchine sparse e troppi studenti.
Notavo che c’erano abbastanza asiatici, perciò la permanenza in quella scuola non sarebbe stato così male, o almeno, così pensavo.
Può sempre capitare che ciò che pensi venga drasticamente cambiato da qualcosa o qualcuno, purtroppo.
Persa nei miei pensieri, camminando non notai chi mi veniva incontro e involontariamente ci andai a sbattere come una cretina, ovviamente.
- Che cazzo! Cinese di merda, guarda dove metti i piedi! –
Ecco. Cosa pensavo? La permanenza sarebbe stata gradevole… non più.
Angolo autrice!
Continuo a 3 recensioni :)
E' la mia prima storia che pubblico,spero vi piaccia! :)