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Autore: Libra Prongs    22/07/2013    2 recensioni
[Generale - Introspettivo - John/Sherlock]
"Pochi mesi, e John aveva maturato la certezza che non ne sarebbero bastati cento per dire di conoscere Sherlock. Sapeva, tuttavia, lo sapeva dal primo istante in cui si era sentito nudo sotto quegli occhi azzurri e indifferenti che l’avevano scandagliato come raggi X e avevano raccolto un numero impressionante di informazioni su di lui in una brevissima sequenza di secondi, che Sherlock Holmes non era umano."
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nda: da neofita fanwriter in questo Fandom, mi paro il culo scusandomi con gli affezionati per eventuali incongruenze/idiozie/qualunque altra cosa possano trovare in questa OS. Sono molto affascinata da Sherlock Holmes e dal suo mondo, ma non ho (ancora) avuto il piacere di leggere i romanzi di Sir  A.C. Doyle. Ho apprezzato - amato - i film di Guy Ritchie (c'è davvero bisogno di sottolineare quanto possa aver sbavato su RDJ e Jude Law? Ovviamente no) e nelle ultime settimane ho guardato (e riguardato, e riguardato, eccetera) la serie della BBC. Eccezionale. Fantastica. Crea dipendenza, ma questo lo sapete già. Quindi mi sono cimentata con questa FF. E niente, è un evento, visto che è la prima volta in assoluto che scrivo qualcosa in un fandom che NON sia quello di Harry Potter. Temo i vostri giudizi - ammesso che qualcuno la legga, ammesso che qualcuno la recensisca - ma la pubblico perché sì. Il titolo è anche un richiamo al contenuto della storia stessa: niente di che, niente di nuovo, un po' banale, forse. Ma è venuta fuori così. Infine: ma Libra è tornata? Non lo so, gente. Non lo so. Ma non sapere è già qualcosa, immagino. Alla prossima! Ciao, cari. Libs




Banale, John. 

 

Il 221B di Baker Street era in subbuglio ― condizione tutt’altro che straordinaria, sebbene ancora insolita per John Watson, che condivideva l’ingombro appartamento con un inquilino decisamente ingombrante da una manciata di mesi. Pochi mesi, e John aveva maturato la certezza che non ne sarebbero bastati cento per dire di conoscere Sherlock. Sapeva, tuttavia, lo sapeva dal primo istante in cui si era sentito nudo sotto quegli occhi azzurri e indifferenti che l’avevano scandagliato come raggi X e avevano raccolto un numero impressionante di informazioni su di lui in una brevissima sequenza di secondi, che Sherlock Holmes non era umano. Non nel senso convenzionale del termine, almeno. Non era emotivamente umano, ecco. Era solo… Sherlock, e tanto bastava. Era già troppo.
(Sì, Sherlock Holmes era troppo ― egocentrico, iperattivo, insofferente, irritante. Geniale. Esasperante, ma aveva l’indiscutibile pregio di averlo riportato alla vita, di questo John gli dava atto).
Sherlock non dormiva, John ne era certo. Poteva sentire ― poteva seriamente convincersi di sentirlo ― il lavorio meccanico e inafferrabile dei suoi pensieri anche di notte, anche dall’altra stanza, anche al di fuori di quello che Sherlock definiva il suo palazzo mentale. Borioso.
Al cospetto del maestoso ― sovrumano, inquietante ― quanto impenetrabile maniero che ospitava gli imponderabili nessi logici e riflessivi del suo coinquilino, il lineare spazio mentale che John Watson vantava come ripostiglio della propria memoria somigliava piuttosto a uno striminzito monolocale, di quelli ordinati, senza orpelli, con solo qualche cassettiera in noce a ospitare i pensieri ― calzini appallottolati dopo il cambio di stagione, quasi nulla di superfluo. Qualche vecchio paio di mutande imbarazzanti di cui disfarsi alla prima occasione, magari; una o due cravatte datate e dimenticate sul fondo dell’armadio, al massimo. Niente di troppo impegnativo, tralasciando i ricordi legati agli elmetti di guerra, ma quelli andavano tenuti sotto chiave. Nell’insieme, misero.
Pochi mesi. Quasi un anno, e John doveva convenire che mai, neppure sotto l’effetto di qualche potente droga, avrebbe immaginato di ritrovarsi in una situazione tanto strana, con una persona tanto strana ― ammesso che Sherlock fosse una persona, il che, fatta eccezione per gli aspetti puramente anatomici che John, in qualità di medico, doveva riconoscere, era ben lungi dall’essere scontato.
Tanto per cominciare, Sherlock sapeva.
Non la data esatta della promulgazione della Magna Carta, probabilmente (ma quella non la rammentava nemmeno John), non dell’imprescindibilità di cosucce trascurabili come i sentimenti o la diplomazia.
Ma sapeva, sapeva perché vedeva ciò che sfuggiva a chiunque altro, immagazzinava dati su dati e vi si destreggiava più in fretta e più efficacemente di un computer ipertecnologico. Come ci riuscisse era un mistero arcano per l’Ispettore Lestrade, che aveva da tempo smesso di porsi domande e fatto della consulenza di Sherlock l’eccezione quotidiana alla quale indulgere con sollievo e fervida aspettativa. Sally Donovan, invece, propendeva per uno scetticismo superiore, perché Sherlock era solo un dilettante con un’ossessione smodata per i casi impossibili ― qualcuno avrebbe forse insinuato che era semplicemente avvezza alla poltrona e aveva smarrito la passione per il proprio mestiere tempo prima, da qualche parte a casa di Anderson.
Sherlock sapeva e sapeva di sapere, aspetto, questo, che gli faceva arcuare le labbra in un sorrisino di tripudio e compiacimento quasi infantile a ogni deduzione vincente e lasciava sprofondare nel baratro della frustrazione gli altri comuni mortali, John incluso. Era una consuetudine. Sherlock osservava, rifletteva, registrava, soppesava. Il guizzo scintillante della comprensione si palesava nei suoi occhi nel medesimo istante in cui le sopracciglia di John si aggrottavano, confuse, e spariva con un grugnito infastidito perché ― santo cielo! ― come si faceva ad essere così ottusi? E poi seguiva una raffica di spiegazioni dettagliate (la frustrazione era allora tutta di Sherlock) che mostravano quanto gli elementi collimassero e la soluzione del caso fosse banalmente elementare.
Una consuetudine. Era una consuetudine, per John, al punto da non farlo stupire più di alcunché ― o quasi. Con Sherlock l’elemento sorpresa era comunque tutt’altro che opzionale.
Si limitava ad affiancarlo sulla scena del crimine, a rispondere al telefono per lui, a rincorrerlo tra un sopralluogo all’obitorio del St. Bart’s e Scotland Yard, scapicollandosi per le strade trafficate di Londra in inseguimenti da togliere il fiato. Non male per un reduce di guerra che, soltanto pochi mesi prima, non aveva prospettive che andassero oltre una stampella per la zoppia e le sedute dall’analista.
Poi era arrivato Sherlock Holmes.
 


Il 221B di Baker Street era in subbuglio, dicevamo, e non v’era nulla di sorprendente in questo, quasi neanche nell’arto mozzo ― evidentemente umano ― che, avvolto in uno strato ingiallito di cellophane, faceva bella mostra di sé sul terzo ripiano del frigo. John aveva più di un inquilino, in effetti: Sherlock e qualunque pezzo di cadavere semi-putrefatto riuscisse a sottrarre di soppiatto al St. Bart’s e introdurre con nonchalance nel loro frigorifero.
Sbuffò, rassegnato.
   «È arrivata qualche telefonata per me?» domandò, ricevendo in risposta nient’altro che il tintinnio leggero delle corde di violino pizzicate da Sherlock.
  «Vedi, te lo chiedo perché sono giorni che non trovo il mio cellulare» proseguì, spostandosi in soggiorno «e suppongo che l’abbia preso tu». Lo fissò con insistenza, l’altro parve non aver sentito una sola parola.
  «Molto bene. Molto bene, vado a fare due passi» borbottò.
  «Hai già fatto due passi. Milleottocento, arrotondando per eccesso, dalla casa di Carrie a qui» la voce di Sherlock giunse inaspettata quando John aveva già afferrato la giacca.
  «Tu, come- non importa. Si chiama Kate, Sherlock. Kate» ribatté, infastidito.
  «Irrilevante. Non vuoi sederti, John? Ti interesserà sapere che hai dimenticato il cellulare in bagno tre giorni fa, sulla mensola in alto, e che una certa Jessica ti cerca da questa mattina. Ah, le ho inviato un paio di sms» lo informò, seguitando a giocherellare con le corde del violino, sempre senza guardarlo.
  «Tu… cosa? Dimmi, ti sei forse spacciato per me?»
  «Non è stato difficile».
  «Sherlock» articolò John, caricando le consonanti di crescente irritazione. L’altro si limitò a intonare una sonata di Bach.
  «Cosa le hai detto, avanti?»
  «Puoi leggere da te».
L’ennesimo sbuffo di John fu più che altro un ringhio.
  «Sei impazzito? Come ti è saltato in mente?» proruppe, incredulo, quand’ebbe rinvenuto il cellulare abbandonato sulla poltrona e letto i messaggi inviati.
  «Mi annoiavo».
  «Avresti potuto sparare qualche altro colpo di pistola contro il muro. Avevi il tuo arto in frigo! Avresti potut-»
  «Questo era più divertente. Ti ho fatto un favore» disse, scrollando le spalle e poggiando il violino sul pavimento. John lo fulminò con lo sguardo.
  «Le hai detto che non mi… Gesù, Sherlock, le hai detto che non mi soddisfaceva sessualmente!»
  «Era la verità. Tornavi sempre nervoso, la mano aveva persino ripreso a tremarti e bevevi decisamente troppo caffè, segnali semplici ed eloquenti di insoddisfazione».
  «Tu non-» tentò John, ma Sherlock proseguì, interrompendolo.
  «Caffè, caffè. Poi hai conosciuto Carrie-»
  «Kate».
  «Quello che è» continuò, implacabile, «una barista che ha il turno di notte tre giorni su sette, ecco perché la vedi quasi sempre di mattina, a due fermate di metro da qui. Si crede divertente, ma parla troppo. A proposito, sono quasi certo che quel rossetto fuxia non le doni, con quei capelli. Banale» concluse, sbadigliando platealmente.
  John non volle chiedergli come facesse a sapere il colore dei capelli di una donna che non aveva mai visto; quanto alla tonalità del rossetto, aveva ragione, la sbatteva un po’.
  «Sappi che Kate mi soddisfa sotto ogni punto di vista» ci tenne a precisare, non senza una vena di puntiglio, lasciandosi cadere pesantemente sulla poltrona prima di sospirare. Vide Sherlock abbozzare un sorriso sornione.
  «Che. Altro. C’è».
  «Dovresti scrivere a Mycroft per me, mi sta asfissiando. E, John?»
  «Cosa?»
  «Mi dispiace che Kate ti abbia lasciato » disse Sherlock, puntando i suoi occhi in quelli di John per la prima volta dall’inizio della conversazione.
  Ne fu colpito, ma neppure poi più di tanto. Doveva avere in fronte una scritta grande così: SONO UNO SFIGATO. Negli ultimi mesi aveva accumulato una copiosa quantità di relazioni fallimentari, nell’estenuante ricerca di una ragazza, una spassosa e carina che non gli ricordasse perennemente quanto fosse ordinario, magari. Ma non c’era verso. Sembrava che la sola compagnia che gli spettasse fosse quella di un sociopatico iperattivo ― ipse dixit. Scrollò le spalle e prese il cellulare, digitando un messaggio di vaghe scuse a Mycroft per conto di Sherlock.
  «Non sei uno sfigato, comunque» lo sentì dire ― si sentì leggere nel pensiero.
  «Certo, come no… ah, lascia perdere» lo liquidò, imprecando tra i denti e facendo per alzarsi.
  Era così complesso da capire, per la mente arguta e brillante di Sherlock Holmes, che essere mollato da più donne nell’arco di poche settimane non fosse esattamente un balsamo per l’autostima?
  «Dico sul serio, sei ok». Sembrava convinto.
John increspò una parvenza di sorriso. «Wow, grazie, Sherlock. Peccato che sia destinato a rimanere…» esordì, ma si interruppe subito. Stava per dire qualcosa di palesemente falso, a ben pensarci. E Sherlock dovette arguirlo, perché parlò con un tono che gli diede un leggero prurito dietro la nuca. Un prurito paradossalmente piacevole.
  «Non dire idiozie, John. Non sei solo. Tu hai me».
 


Il 221B di Baker Street era in subbuglio.
Le viscere di John H. Watson erano in subbuglio e Sherlock Holmes lo ignorava di sottecchi.


 

   
 
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