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Autore: lulubellula    25/07/2013    4 recensioni
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La nona stagione?
Dimenticatevela e ripartite da dove tutto è iniziato, dall' incidente aereo, che ha sconvolto le vite di molti.
Di Lexie che non c'è più.
Di Mark che deve continuare senza di lei.
Di Arizona che ha QUASI perso la sua gamba e deve affrontare l'ultimo addio del suo migliore amico.
Di Callie che deve rimettere insieme i pezzi.
Aggiungete un nuovo bambino in arrivo, un uomo misterioso e sua figlia malata, tanti imprevisti, lacrime e sorrisi e otterrete una storia che vi terrà con il fiato sospeso sino alla fine.
Che cosa state aspettando?
Entrate e scoprirete tutto (o quasi).
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres, Mark Sloan
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nona stagione
Capitoli:
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Non c’è due senza tre

Capitolo trentaduesimo


Calliope era appena uscita dall’asilo di Sofia, dopo aver avuto un’accesa discussione con la maestra che aveva rimarcato nuovamente il comportamento anomalo della figlia.
Dopo aver farfugliato una serie di parole dal dubbio senso per zittire la donna, aveva preso con sé lo zainetto della piccola su una spalla e aveva teso la mano a Sofia, trascinando fuori da quel luogo il suo cucciolo indifeso.
“Ora ce ne andiamo a fare un giro in centro, ok, Sofia?” le domandò, aggiustandole il cappottino rosso e aiutandola ad infilarsi sciarpa, guanti e berretto.
Nonostante marzo fosse ormai alle porte, la città di Seattle era ancora stretta nella morsa del gelo e, nevischio e piogge ghiacciate, ma anche vento e temperature in picchiata, rendevano l’arrivo della primavera sempre più desiderabile.
“Mamma, mamma, mamma!”.
Sofia stava strattonando un lembo della giacca della sua mamma da qualche istante, chiamandola insistentemente, senza che quest’ultima se ne accorgesse.
“Mamma!”.
Callie si voltò in direzione della figlia.
“Che cosa c’è Sofia?”.
“Voglio andare a prendere la cioccolata!”.
“D’accordo, Sofia, ma solo per oggi, non ti ci abituare” le rispose Callie, sperando di riuscire a far uscire allo scoperto anche il suo amico immaginario.
Camminarono ancora per un paio di isolati, stringendosi le vesti pesanti addosso e schivando le pozzanghere ai lati delle strade sino a giungere ad una famosa pasticceria di Seattle, una delle più rinomate della città.
Appena entrate nel locale, si sedettero a un tavolino vicino alla vetrina e Callie iniziò a sfogliare il menù dei dolci e delle cioccolate; vi erano più di cinquanta tipi diversi di aromi e farciture tra cui scegliere, ma lei si limitò ad una fondente con panna vegetale e una spolverata di cacao, mentre Sofia cominciava a dare segni di insofferenza.
“Hai già scelto, Sofia? Prendi la solita cioccolata al latte in tazza piccola? Oppure ne vuoi una con un po’ di panna?” le domandò lei per metterla alla prova.
La bambina scosse la testa e mise il broncio.
“Cosa c’è che non va? Non ti va più? Preferisci un tè caldo oppure latte al cacao?”.
“Voglio due cioccolate! Una fondente con panna montata e chicchi di caffè e una al latte con la panna!” rispose Sofia.
“Due sono troppe per te e poi niente caffè, sei ancora troppo piccola, non hai ancora compiuto tre anni” le disse Callie, nel tentativo di farla ragionare.
“Quella con i chicchi di caffè non è per me, è per Jerry!” rispose Sofia con aria di sfida, ben conscia dell’effetto devastante che il solo nome del suo amichetto di giochi suscitasse sugli adulti.
“Qui non vedo nessun Jerry, Sofia. E’ un tuo compagno dell’asilo?” le chiese Callie, cercando di mantenersi lucida e di non perdere la calma e la lucidità necessarie per cercare di capire cosa stesse passando per la testa della sua piccolina.
“Jerry è un mio amico e adesso è andato via sul suo aereo, ma poi torna e quando ritornerà vorrà la sua cioccolata. Me la devi comprare, mamma!” ribattè Sofia puntando i piedi a terra.
“Niente cioccolata per Jerry. Non se ne parla. O il tuo amichetto si degna di venire a berla con noi o se ne resterà a bocca asciutta!”.
“Ma mamma!” protestò la bambina.
“Niente mamma, ora prendiamo le cioccolate da asporto invece di berle qui e ce ne andiamo a casa” le rispose Calliope, perdendo la calma per qualche istante.
Callie si avvicinò al bancone e prese le bevande bollenti, poi aiutò la figlia a vestirsi e uscì dal negozio.
Camminarono insieme in silenzio verso la strada di casa, ignorandosi a vicenda, anche se entrambe di tanto in tanto in tanto si scambiavano occhiate e occhiatacce di nascosto, nella speranza che l’altra non notasse nulla.
Arrivate a casa, Sofia bevve la cioccolata molto lentamente seduta sul suo sgabello preferito e se ne andò nella sua cameretta a giocare con le costruzioni.
Non aprì bocca, si mostrò estremamente tenace nel portare avanti lo sciopero del silenzio con la sua mamma.
“Per fortuna – pensò – tra poco tornerà a casa Mama e mi consolerà lei. Non capisco che cosa ci sia di tanto sbagliato in Jerry. Lui è il mio unico amico e lo conoscono anche loro, ne parlano spesso. Che cosa avrà fatto di così sbagliato per non meritarsi la cioccolata?”.
 




Respirava affannosamente, di nuovo.
Arizona aveva esaurito le forze e anche le parole da spendere con il padre di Charlotte.
La bambina peggiorava a vista d’occhio, il suo cuore era affaticato e i polmoni erano sul punto di collassare, un catetere drenava liquido polmonare in continuazione, il rischio di edema non era da sottovalutare ed era reale e spaventoso.
Il suo organismo era allo stremo delle forze, il sistema immunitario seriamente compromesso dai continui cicli di cure a cui veniva sottoposta nell’attesa di un trapianto cardiaco.
Un trapianto che sembrava ben lontano per la piccola, che stava spegnendosi a poco a poco come un flebile fiammella che si estingue nel buio della notte.
Arizona era esausta ed erano solo le sei del pomeriggio.
La giornata era ancora lunga, il turno sarebbe terminato circa tre ore dopo, per poi ricominciare nuovamente l’indomani, con la speranza che un cuore compatibile arrivasse di lì a poco, che la piccola Charlie tornasse a sorridere come una volta.
Era terrorizzata dall’idea di una telefonata in piena notte, atterrita dal pensiero che Alex la destasse dal suo sonno con la notizia agghiacciante del decesso della piccola.
Aveva gli incubi, la sognava spesso, sognava di vederla nella sala giochi, in disparte rispetto agli altri.
Se la immaginava avvicinarsi a lei, tirandole un lembo del camice e indicandole in silenzio di seguirla nel corridoio colorato del reparto di pediatria.
Camminava sui suoi passi, ripercorrendo la stessa strada tutte le notti, seguendo quella bambina pallida e bella, che le indicava la via, sempre la stessa, quella della sua stanzetta d’ospedale.
Entrava facendo piano, Charlie le faceva segno di restarsene zitta  e vedeva un lenzuolo bianco disteso, sopra una figura esile e spenta.
La bambina toglieva tutte le notti il lenzuolo candido, mostrandosi alla donna, mostrandole lei stessa morta, cerea e bianca, con le manine infantili giunte al petto.
Si girava verso di lei, con aria di ingenuità, mista ad un velato rimprovero, dicendole: “Come hai potuto dormire sonni tranquilli, mentre io ero sola nel mio lettino?”.
Ed ogni notte, prima che lei riuscisse a trovare le parole per risponderle, Arizona si svegliava di soprassalto, terrorizzata, impaurita, con il cuore in gola e, facendo meno rumore possibile, per non destare sua moglie e sua figlia dal sonno, indossava una vestaglia e afferrava il telefono in salotto, chiamando Karev e sperando che il brutto sogno non fosse un incubo reale.
 




 
“Pronto. Sì, buongiorno, sono Mark Sloan. Un mio collega mi ha dato il suo numero. Avery di chirurgia plastica. Ecco, io la chiamavo perché mia figlia ha degli strani comportamenti ultimamente. Nulla di troppo allarmante. Però la sua insegnante all’asilo nido, ci ha contattati per via di un suo amichetto immaginario. Sì, sì, non aveva mai avuto simili comportamenti prima. Ha quasi tre anni ed è figlia unica, anche se la madre aspetta un secondo figlio. Come le dicevo, la bambina, Sofia, manifesta un attaccamento morboso alla figura di questo fantomatico compagno di giochi, Jerry, si chiama così. Mia figlia pretende che le venga assegnata una doppia merenda per sfamare anche l’amichetto e che lei possa tenergli il posto durante l’attività didattica. Ha persino spinto una bambina giù da una sedia e, nonostante non le abbia fatto particolarmente male, sono preoccupato. Vorrei prendere un appuntamento da lei al più presto se fosse possibile. Come dice? Domani alle cinque del pomeriggio le si è liberato un posto? Perfetto, cercherò di liberarmi per quell’ora e di far sì che anche le sue mamme siano presenti. La ringrazio. A domani”.

Mark abbassò il ricevitore, era meno teso ora che aveva ottenuto l’appuntamento dalla Dottoressa King, una neuropsichiatra infantile molto conosciuta e stimata nell’ambiente medico.
Tuttavia c’era ancora qualcosa che lo turbava in quell’esatto istante, ma non sapeva bene che cosa fosse, era più una sensazione, una premonizione che lo inquietava, ma non ci fece caso più di tanto, in quel momento aveva problemi più seri a cui pensare.
Stava lavorando su un innesto di pelle da impiantare sul volto di una donna di trent’anni che aveva subito un incidente sul lavoro ed aveva il settanta percento del volto ustionato.
Erano passati ormai due anni dalla data dell’infortunio e la donna, Katie Joyce, aveva subito quattordici interventi di chirurgia ricostruttiva, che le avevano permesso nel corso del tempo di riprendere a nutrirsi, a sorridere, a tenere gli occhi aperti.
Tuttavia ora Mark voleva ridarle il piacere di riflettere la sua immagine nello specchio senza che la donna scoppiasse inevitabilmente in lacrime, nel vedere la cute rossastra e raggrinzita, in parte tirata, l’attaccatura dei capelli troppo alta, le labbra che avevano perso la forma e la consistenza originaria.
Aveva impiegato molto tempo a convincere la donna a sottoporsi a quello che per lei risultava essere l’ennesimo, inconcludente e dolorosissimo intervento di chirurgia maxillofacciale ricostruttiva, perciò non poteva permettersi un risultato che fosse meno che perfetto.
Vicino a Katie, per tutto quel tempo era rimasto il suo fidanzato George, che non aveva mai smesso di supportarla e di infonderle coraggio e le aveva chiesto più volte di sposarla, ottenendo come risposta un secco rifiuto da parte della giovane, troppo provata dal peso delle conseguenze fisiche ed emotive dell’infortunio.
Lui però aveva aspettato pazientemente con lei momenti migliori e la prospettiva di un miglioramento estetico, che la aiutasse a sopportare e ad uscire dal baratro nel quale era sprofondata negli ultimi ventiquattro mesi.
Era proprio per questo motivo che il Dottor Sloan non poteva permettersi di fallire, perché sapeva che in caso di fallimento, Katie avrebbe gettato la spugna e smesso di lottare, allontanando da sé, tutte le persone che tenevano a lei, George per primo.
Mentre osservava quel lembo di epidermide rosea, Mark non stava semplicemente attirando a sé quello strato di pelle con uno strumento chirurgico sterile, lui stava tenendo tra le sue mani l’intera esistenza di quella giovane donna.
La prospettiva di una vita felice era tutta nelle sue mani da chirurgo plastico e questo gli pesava come non mai, un macigno di responsabilità, accumulatesi sulle sue spalle stanche e spossate.
 




 
Callie stava ascoltando un cd di musica classica, seduta sul divano in salotto, leggendo un thriller molto interessante, tuttavia non riusciva a concentrare la sua attenzione né sulla melodia verdiana, né sulle pagine di carta stampata, né sulla stoffa confortevole del sofà.
Era ancora preoccupata per Sofia, sapeva di aver reagito in un modo molto brusco e di aver esagerato, ma questa nuova situazione, questo nuovo “problema” che si era presentato, accumulandosi agli altri, le opprimeva il cuore e le impegnava la mente, togliendo spazio a tutto il resto.
Forse avrebbe fatto meglio a comprare la cioccolata anche per Jerry e ad osservare le reazioni di Sofia e le sue interazioni con la sua psiche infantile in preda all’ansia e alla creatività.
Forse avrebbe fatto meglio a farsi aiutare da Arizona, aspettando il suo ritorno a casa, oppure a lasciar parlare a Mark, che aveva un forte ascendente sulla figlia.
Calliope era confusa, sentiva che ogni sua mossa fosse sempre e comunque quella sbagliata: se spostava un pedone più in là, la Regina sarebbe rimasta scoperta e liberandosi dell’alfiere nemico, avrebbe avuto qualche speranza in più di dare Scacco al Re.
Non era mai stata una giocatrice di scacchi abile e nemmeno una brava stratega.
Era troppo impulsiva, passionale, una persona troppo di cuore e di pancia, per decidere solo ed esclusivamente con la testa.
Non era Cristina, odiava ed invidiava la freddezza e il calcolo che la donna sapeva applicare anche alla sua vita.
Invece Calliope ne era totalmente incapace.
Non sapeva mettere il cervello prima del cuore la maggior parte delle volte.
E questa volta si trattava di decidere il da farsi sulla pelle, sulla felicità di sua figlia.
E questo cambiava decisamente le carte in tavola.
 




 
Arizona aveva appena finito il suo turno in ospedale ed era esausta.
Il lavoro le procurava moltissime soddisfazioni ma anche tante delusioni e amarezze.
Per fortuna, la maggior parte delle volte, i bambini che ritornavano a sorridere e a vivere erano di più di quelli che non ce la facevano.
Ma per quante vite lei fosse riuscita a salvare durante la sua carriera, in momenti come quello, le ritornavano in mente solo i bambini che aveva lasciato andare, che aveva accompagnato nelle braccia della morte.
Come Jessica o Ross, come Rachel o Keith.
Ogni nome inciso sulla pietra era un chiodo piantato nel suo petto che, di tanto in tanto, sanguinava più forte, più intensamente.
E quella sera di marzo, una come tante, Arizona sentiva che oltre agli occhi, anche il suo cuore stava lacrimando.
Non aveva perso nessuno quel giorno, ma la paura che accadesse, il terrore dell’incubo notturno, la stava consumando lentamente.
La prospettiva di tornare a casa, quella sera e di baciare sua moglie ed abbracciare sua figlia era tutto quello che le permetteva di reggersi ancora in piedi.
 
 


 
L’intervento era riuscito.
Le suture perfette, impeccabili, da maestro.
La pelle aveva aderito al volto nel modo più naturale possibile e, nonostante i tempi necessari per la cicatrizzazione e la ripresa, i rischi di rigetto erano piuttosto bassi e quelli di infezione minimi, con un’adeguata e attenta medicazione quotidiana.
Dopo aver informato il fidanzato di Katie, George, ed essersi cambiato nella stanza dei medici, Mark si avviò verso il suo appartamento.
Aveva intenzione di invitare Callie, Arizona e Sofia a cena, di preparare loro un primo sfizioso e di giocare al principe azzurro e alla principessa Sofia con la figlia.
Passò alla gastronomia vicino a casa a prendere gli ingredienti e poi bussò alla porta dell’appartamento 502, invitando le tre donne della sua vita a cena.
Iniziò a preparare un soffritto per il primo, facendosi aiutare da Callie, mentre Sofia e Arizona leggevano un libro insime sul divano.
Mangiarono insieme silenziosamente e poi Sofia indossò il suo abito rosa da Principessa e passò la spada di cartone a Mark.
Giocarono insieme finchè suonò il campanello dell’appartamento dell’uomo.
Mark si alzò da terra e andò ad aprire, poi sbattè la porta rumorosamente.
Callie e Arizona si voltarono insieme e videro rientrare in salotto Mark visibilmente rabbuiato in volto.
“Chi era Mark?” domandò Calliope, avvicinandosi a lui.
“Nessuno” rispose l’uomo tagliando corto.
“Nessuno?” ripetè Callie insospettita.
Nel frattempo Arizona andò ad aprire la porta.
“Mark?”.
“Non ne voglio parlare, Callie”.
Arizona rientrò in salotto con un uomo sulla settantina, curato e distinto nei modi e nell’aspetto.
“Quest’uomo dice di essere tuo padre, Mark” disse la donna.
“Appunto, che ti avevo detto, Callie? Nessuno” tagliò corto l’uomo, prendendo la giacca ed uscendo dal suo appartamento.

   
 
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