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Autore: aelfgifu    27/07/2013    8 recensioni
Un ragazzo combatte per salvare quel che ha di più caro. Parla la catenina di Karl-Heinz Schneider.
«Oggetti come questi non rappresentano niente di per sé; se valgono qualcosa, se li regaliamo a qualcuno che amiamo, se è difficile separarcene, se li passiamo ai nostri figli e nipoti, è perché custodiscono la nostra memoria. Non la ragione né il linguaggio articolato ci distinguono da altre creature, ma la memoria e la speranza».
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Karl Heinz Schneider
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tre amici'
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Disclaimer: i diritti sui personaggi della storia appartengono al maestro Takahashi e alle case editrici che la pubblicano nei rispettivi paesi.

 

Nota alla storia. Questa storia è una prosopopea, ovvero un racconto in cui parla un oggetto inanimato. Tra le fanfiction di EFP dedicate a Captain Tsubasa che io ho letto, altre prosopopee compaiono nel bel racconto di Kourin L’alba del paese delle nevi, in cui parla in prima persona l’hachimaki di Hikaru Matsuyama, e in Genzo, di Eldarion, in cui il mitico cappello dell'SGGK racconta la partita Rotburg-Grünwald (Bayern-HSV) 2-1. Non so quanto queste storie possano avermi ispirato, visto che ho letto tantissime altre prosopopee nella mia vita, da Platone al Sogno della Croce a Vincenzo Monti, ma ci tengo a evitare qualunque sospetto di appropriazione di idee, plagio eccetera.
 

**********

 


Forse tutti i draghi della nostra vita sono principesse, che attendono di vederci un giorno belli e coraggiosi

R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta

 

Le vere forze che reggono il mondo

viaggiano sotto traccia

bambino mio amato

e più forsennato sarà il tuo coraggio

più insensata la tua speranza

più ti approveranno;

più alta porrai l’asticella

più ti verrà data la forza

per superarla quando salterai

 

Non vi parlerò di come la mia esistenza sia iniziata e poi proseguita, dal frammento grezzo estratto a colpi di piccone in una miniera sudafricana al tavolo di lavoro dell’orefice. Vi dirò soltanto che nel 19** ero una semplice catenina a maglie sottili e risiedevo abitualmente presso un gioielliere del Gänsemarkt, ad Amburgo.

Un mattino venne una ragazza e disse che voleva fare un regalo al suo fidanzato.

«Che tipo di regalo?» chiese il gioielliere.

«Un ciondolo con una dedica» rispose la ragazza.

Il gioielliere e la ragazza studiarono la faccenda e decisero per una catenina con una placchetta per la dedica.

Nella dedica, la ragazza volle che fosse scritto, semplicemente: «F.S.».

Due giorni dopo, quando lincisore ebbe composto le lettere, fui presa, lucidata e posata su un elegante cuscinetto serico color avorio e richiuso in una scatolina bianca con su scritto in caratteri dorati: «Juwelier Ebbersen, Am Gänsemarkt 9, Hamburg».

Il fidanzato della ragazza mi mise subito al collo e mi portò per anni. Di mestiere faceva il calciatore professionista, e io fui con lui durante gli allenamenti, le trasferte, le partite nazionali, quelle internazionali; non mi tolse neanche quando andò in chiesa a sposarsi. Ero con Frank quando vide per la prima volta i suoi bambini, e durante la sua partita daddio.

Quando suo figlio maggiore ebbe sette anni, mi passò a lui.

Il ragazzino, Karl-Heinz (Karl per brevità), era un moccioso biondo con unaria furba e simpatica, e, neanche a farlo apposta, giocava a calcio. A un anno si rotolava per casa con un pallone più grande di lui, con sommo divertimento e grasse risate di tutta la famiglia. Mi sono sempre chiesta, i talenti che passano dai genitori ai figli, saranno nel corredo genetico o sono appresi perché attorno a loro tutto parla di quella cosa? Fatto sta che il ragazzino crebbe con la palla al piede e divenne bravissimo, più di suo padre. Non aveva neanche dodici anni e già il suo nome correva per le bocche di mezza Germania.

Poi successe qualcosa.

Frank a quel tempo era allenatore in seconda della squadra di calcio dell’HSV (1). AllHSV cera un giocatore che andava per la maggiore, tale Schmidt, uno che aveva la smania di fare la stella. Quando lallenatore titolare dovette lasciare per qualche tempo per problemi di salute, il mio amico Frank mise Schmidt in panchina perché gli sembrava che non fosse in buone condizioni fisiche. Allora apriti cielo.

Il giocatore si scagliò contro lallenatore, parlò male di lui coi giornalisti, disse che non aveva a cuore le sorti della squadra, e i tifosi gli diedero ragione. Per colmo di iella, lo HSV non andò bene durante quelle settimane; e tutti diedero la colpa allallenatore. Certi fanatici arrivarono a mandargli lettere minatorie; una mattina gli fecero trovare scritto sulla facciata di casa, con una bomboletta di spray rosso, «Nestbeschmutzer» (2), «Schwein» (3) e altre amenità. Le scritte furono scoperte da Karl, che era il primo a uscire per andare a scuola. Ricordo ancora come il ghiaccio che lo paralizzò si trasmise fino alla mia anima doro. Ricordo ancora con quale rabbia strinse le cinghie del suo zaino. Ricordo ancora come la voce gli uscì dalla gola, stridula e insieme strozzata:

«Papà... mamma... venite...»

Ricordo come Helga si piegò sulle ginocchia e scoppiò a piangere vedendo quelle scritte. E ricordo come Frank divenne bianco in faccia, letteralmente.

Quando lallenatore titolare tornò, Frank venne esonerato. Schmidt tornò a giocare e lHSV risalì la classifica.

Frank non riusciva più a guardare negli occhi la sua famiglia. Né sua moglie, né Karl, né la piccola di casa, Marie, che non comprendeva come mai il papà stava sempre a occhi bassi, la mamma piangeva quando non cera nessuno a guardarla e Karl era triste anche quando palleggiava per delle mezze ore incantandola con la sua abilità.

Frank si vergognava anche delle feste che gli faceva il cane; gli sembrava di non meritarle. Così, per punire sé stesso, accettò il primo lavoro che gli capitò tra le mani e se ne andò di casa.

Helga non cercò di fermarlo.

Perché aveva insistito a non far giocare quello Schmidt? Perché aveva offerto il fianco alle critiche e agli odi? Perché aveva messo in pericolo la sua famiglia? Possibile che non avesse capito che la sua coerenza poteva costargli caro, e non solo a lui?

Non gli poteva perdonare di averli messi tutti in pericolo per le sue dannate convinzioni, la sua dannata coerenza e il suo dannatissimo calcio.

Karl diventò «il figlio dell’incompetente», o «il figlio del fallito». Lo chiamavano così soprattutto gli invidiosi, per ferirlo, perché non avevano altre armi contro la sua bravura. «Ecco» dicevano, quando faceva gol «ha segnato il figlio del fallito!»

Qualunque altro ragazzo della sua età sarebbe crollato. Ma lui era – è – fatto di unaltra lega, lasciate che ve lo dica: io me ne intendo. Gli insulti lo resero più forte. Le risate alle sue spalle lo resero freddo, concentrato, spietato.

Più andava avanti e più diventava bravo. Ma mentre prima era stato un ragazzino simpatico ed estroverso, ora sviluppò un modo di fare che faceva morire il sorriso sulle labbra delle persone; nemmeno i suoi compagni avrebbero osato dirgli una parola scherzosa o fargli un gesto di confidenza. Imponeva rispetto; di più, imponeva distanza.

Continuava a invitare i suoi a tutte le partite che giocava; sperava che, facendo incontrare sua madre e suo padre e facendoli assistere alle sue prodezze, sarebbe riuscito a compiere il miracolo: far capire alla mamma il perché del comportamento di suo padre, e rendere il papà fiero di qualcosa, finalmente – fiero di lui. Ma suo padre non ci andava mai perché non riusciva a guardarlo in faccia, sua madre non ci andava mai perché ormai soltanto la parola «calcio» le avrebbe fatto sbattere la testa al muro. E tutti e due usavano come scusa il lavoro.

Alle partite andava Marie, accompagnata dai nonni o da qualche amico e dal cane di casa, Sauzer. Vedere la bambinetta bionda saltellare in prima fila a ogni sua azione era per Karl una vera gioia, forse lunica di quei giorni. Per il resto, un baratro di solitudine e di impotenza.

Lasciate che ve lo dica: forse Frank non ha mai capito bene perché suo figlio è uno dei più grandi calciatori della sua generazione. Io credo di saperlo. È perché, a tredici anni, vedendo lumiliazione di suo padre, volle donargli un motivo per superarla.

 

***

 

Per farla breve, il Bayern di Monaco, non una squadra di brocchi, mise sotto contratto Karl a soli quindici anni.

Voi capite, un quindicenne che esordisce nella massima serie nella squadra più blasonata della nazione.

E quell’estate partecipò anche al campionato mondiale U-16 con la nazionale tedesca. Ovviamente portava la fascia di capitano: chi poteva portarla oltre a lui?

Ricordo quell’estate: furono giorni esaltanti! Figurarsi, a Parigi! Era unestate non troppo calda e profumata, dolcissima. Il mio Karlchen giocò un campionato fantastico, fece lustrare gli occhi al mondo. Segnò dodici gol, fu il capocannoniere del torneo. Ricordo la semifinale contro lUruguay, ricordo: quattro gliene fece. A un certo momento perfino io, che ero più vicina a lui di chiunque, mi spaventai, sembrava posseduto da qualche spirito della distruzione.

Sapeva che avrebbe conquistato la finale. E ancora una volta mandò ai suoi i biglietti per la partita e gli prenotò perfino il volo per Parigi. Glieli mandò ancor prima di giocare contro l’Uruguay, tanto che sua madre, guardando Marie, disse: “Ma come, andiamo a Parigi e non sappiamo neanche se arriverà alla fine?” La bambina la zittì: “Certo che ci arriverà!”

In finale fece sputare sangue ai giapponesi. Accidenti, che partita quella. Karl lo aveva capito che Tsubasa Ozora e i suoi non erano gli ultimi arrivati, e poi cera il suo amico Genzo a difendere la porta avversaria: come volete che si sbagliasse sul conto di chi aveva davanti? Entrò in campo con uno sguardo assassino. Ai giapponesi gli fece due gol uno più spettacolare dell’altro: il primo stoppando un pallone in aria di rovesciata e tirando appena atterrato; il secondo a dieci minuti prima della fine. Kojiro Hyuga aveva appena segnato il gol del 2-1 per gli avversari, lui era ancora lì con la gamba addormentata per uno scontro aereo col solito Ozora, i ragazzi erano sbigottiti: possibile che loro le prendessero dal Giappone? Allora Karl gli urlò: «Non fate i cretini! Nel calcio non vince il più forte, nel calcio chi vince diventa il più forte!» Loro abbassarono le orecchie. Hai un bel dire che sei forte, nel calcio vinci solo se segni più degli avversari! Lunica cosa da fare, quindi, era andare a rete. Ma quando larbitro fischiò la ripresa del gioco, Karl scoprì che non poteva fare un passo perché aveva ancora la gamba addormentata, mentre doveva ancora dimostrare che il più forte era lui. Allora – accidenti se me ne ricordo – si chinò e si morse il ginocchio fino a farlo sanguinare, per svegliare la gamba dal torpore. Se mi concentro riesco ancora a sentire lodore del sangue che uscì dal suo morso.

Pochi minuti dopo, grazie al contropiede, segnò il gol del 2-2. Durante lazione provò un primo tiro che mandò un difensore avversario in infermeria. Sul rilancio, scartato per ben due volte Ozora che insisteva ad andargli contro, passò il pallone dal destro al sinistro e... gol. Genzo non se lera aspettato che tirasse di sinistro!

Alla fine vinsero i giapponesi per 3-2, allultimo minuto.

Lasciate che ve lo dica: tutta fortuna! Non se lo erano meritato, o almeno non se lo erano meritato più di Karl. Ma, come diceva quel tale, la palla è rotonda e rotola, e non sai mai che direzione possa prendere. Un tiro viene deviato, e può diventare un gol, un fallo laterale, un calcio dangolo, lavvio di un contropiede o semplicemente unazione abortita.

Quando larbitro fischiò la fine, Karl mi stringeva. Attraverso la stretta sentii il suo dolore, un dolore lancinante. Soffriva perché aveva perso, certo, ma uno sportivo sa sempre affrontare la sconfitta. Lui soffriva di più perché aveva perso loccasione per essere considerato, una volta di più, imbattibile. Per dare ai suoi quel motivo di orgoglio e felicità che li avrebbe potuti riunire.

Ma come al solito, le forze che reggono il mondo agiscono in un modo che non ci aspettiamo.

Karl si comportò con perfetto fair play. Fece le congratulazioni agli avversari, scherzò con Genzo che glielavrebbe fatta pagare in campionato, consolò i suoi compagni. Ma la voglia di sbottare saliva dentro di lui come una marea, tanto che a un certo punto dovette uscire dagli spogliatoi. Lì, in un corridoio vuoto e silenzioso dove nessuno lo vedeva, diede sfogo alle lacrime.

E lì lo trovarono i suoi e Marie, accompagnati dall’allenatore del Bayern. Lì suo padre gli diede la notizia che gli avevano appena offerto un posto come viceallenatore a Monaco, e quindi in autunno seguente tutta la famiglia si sarebbe trasferita in Baviera. Karl come giocatore, Frank come allenatore; e Helga e Marie insieme a loro.

Quando sentì che la separazione dei suoi era finita, Karl si precipitò in braccio a suo padre e pianse di felicità – lui che fino a cinque minuti prima stava piangendo di delusione!

Fu in quel momento che sentii le sue dita armeggiare sulla cerniera che mi chiudeva attorno al suo collo. Mi staccò, mi raccolse in una mano e mi tese a Frank.

«Te la restituisco» gli disse «io lavevo solo in prestito, è sempre stata tua...»

Ora mi porta di nuovo, orgogliosamente, Frank.

Ora, orgogliosamente, lasciate che ve lo dica: loro di cui sono fatta potrà valere un centinaio di euro, ma la verità è che sono inestimabile. Io sono la catenina appartenuta a Karl-Heinz Schneider! Ci può essere qualcosa di più prezioso?

Perché, ditemi, con che cosa di abbastanza prezioso si possono scambiare i ricordi? E la speranza, quanto vale? E credete davvero che qualunque cosa sulla faccia della terra possa eguagliare sul piatto della bilancia il coraggio forsennato di un ragazzo quindicenne?

Karl ha lottato allultimo sangue perché lamore e i ricordi di cui era custode non morissero. E le forze che reggono il mondo, poiché amano i generosi, sono state generose con lui.

 

(1) Hamburger Sport Verein.

(2) Letteralmente: uno che insozza il nido. Si dice di una persona che agisce contro la sua famiglia, il suo partito, la sua patria etc.: in questo caso contro la sua squadra.

(3) Porco.

 

Note al testo. 1) Il titolo della storia è in una forma di tedesco colloquiale; correttamente, "Ich erzähle dir eine Geschichte", ovvero "ti racconto una storia". 2) Il nome del padre di Karl dovrebbe essere Rudi Frank Schneider; nelle edizioni del manga da me consultate compare a volte come Rudi, a volte come Frank. E visto che a me piace di più Frank (pronunciato ovviamente alla tedesca, non all’inglese), Frank sia. Della signora Schneider, che io sappia, non si dice mai il nome; allora, d'autorità, l'ho chiamata Helga. 3) Secondo i regolamenti FIFA, i calciatori durante il gioco non possono indossare anelli, collane, ciondoli, braccialetti eccetera, per motivi di sicurezza. Io mi sono concessa una licenza “poetica”, così Karl può tenersi la sua adorata catenina anche in campo.

  
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